STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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  1. shinji80
     
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    Stasera continuiamo con la rassegna di presentazione di altri registi che hanno fatto la storia del cinema indiano :D

    Ritwik Kumar Ghatak (1925-1976)



    Ritwik Ghatak si considerava il primo regista “moderno” del Bengala e solo da poco più di un decennio è stato riscoperto e riconosciuto come uno dei più grandi autori cinematografici dell’India. Nato a Dacca e trasferitosi a Calcutta dopo la Partition, era desiderio del padre che divenisse un esattore fiscale. Ma Ritwik preferì laurearsi in Letteratura inglese e dedicarsi alla poesia per poi passare alla narrativa e al teatro, fino ad approdare al cinema, nella continua ricerca di un mezzo artistico capace di raggiungere il maggior numero possibile di persone. Nel 1948 si unì all’Indian People’s Theatre Association (IPTA), svolgendovi le attività di scrittore (Dalil, Jawala e Sanko), regista e attore - ad esempio, nel 1948 per Nabanna di Bijon Bhattacharya (1917-1978) - produttore (memorabile il suo allestimento del Birshajian di Tagore) e organizzatore di gruppi teatrali (Natyachakra Theatre Group e Bohurupee Group). Il tutto sempre con successo, fino al 1954, anno in cui fu espulso e in cui costituì una sua compagnia teatrale, il Group Theatre. L’anno successivo, fu allontanato anche dal Partito comunista, di cui era attivista dal 1946. Un carattere individualista, quindi, che non accettava dogmi e compromessi, un ribelle che amava definirsi un “cane randagio”. I suoi primi passi nel mondo del cinema furono compiuti sotto la guida di autori bengalesi trasferitisi a Bombay. Nel 1950 fu assistente alla regia in Tathapi, sceneggiato da Bimal Roy e diretto da Manoj Bhattachaya, e attore e co-sceneggiatore in Chinnamul di Nemai Gosh. In seguito sarà co-sceneggiatore di Musafir (Il Viaggiatore, 1957) di Hrishikesh Mukherjee e, come già detto precedentemente, scrisse per Bimal Roy la sceneggiatura di Madhumati (1958). Ma i suoi modelli furono Sergei Eisenstein e Konstantin Stanislawsky, mentre, per quanto riguarda l’apprendimento delle tecniche cinematografiche, pare siano state di grande importanza le conoscenze trasmessegli da uno dei suoi fratelli, direttore della fotografia in Inghilterra per sei anni. Anche se di frequente la critica ha affermato che la sua estetica è simile a quella dello scrittore bengalese marxista Manik Bandyopadhyaya Banerjee (1908-1956), l’arte di Ghatak è in effetti personalissima e fuori da ogni tipo di convenzione: un miscuglio eterogeneo e filosoficamente stridente. Nelle sue opere sono costretti a coabitare Marx, Jung, la spiritualità induista e, in una certa misura, anche il cattolicesimo. Se da un lato Ghatak era dotato di una notevole cultura cinematografica e capiva il tipo di sensibilità occidentale, nello stesso tempo era affascinato dai drammi del teatro sanscrito, dal melodramma - così come lo era stato Barua, di cui Ghatak era un grande ammiratore, tanto da voler proporre un remake di Devdas (1935) - ma soprattutto dagli archetipi e tra questi in particolar modo da quello della Grande Madre. In ogni caso, Ghatak era interessato alla cultura più antica dell’India, da quella delle popolazioni tribali a quella della tradizione dei villaggi, espressa dai Baul (lett. “Folli”, Bardai in hindi, induisti non ortodossi e cantori itineranti di poemi religiosi) e nei Kirtaniya (riunioni pubbliche in cui si recitano i testi sacri). I suoi punti di riferimento erano pertanto troppo complessi e confusi per il pubblico. Ghatak, però, si rivela veramente grande quando riesce a far prevalere la sua maggiore qualità, quella di essere un visionario. Non a caso, uno dei suoi registi preferiti era Luis Buñuel. Il suo campo di osservazione specifico è comunque la modernità. Infatti, il tema ricorrente di molti dei suoi film è stato quello del problema dei rifugiati provenienti dal Bengala Orientale, che è un’occasione morale, mai politica, per denunciare una condizione umana drammatica, una situazione che aveva vissuto personalmente e che gli aveva inferto una ferita indelebile. Fra le sue opere letterarie vi sono Swaralipi (1961), Kumari Mon (1962), Dwiper Nam Tiya Rang (1963) e Raja Kanya (1965), nonché un grandissimo numero di racconti brevi, che furono pubblicati dalle riviste più prestigiose del Bengala (quali, ad esempio, Desh, Parichay, Shanibarer e Chithi). Inoltre, adattò in bengali opere di Gogol e Brecht (Vita di Galileo e Il Cerchio di Gesso del Caucaso) e fu autore di sessanta saggi sul Cinema. Dati i continui insuccessi al box office, l’alcolismo che lo affliggeva e l’aggravarsi della tubercolosi, che lo ucciderà a soli 51 anni, è probabile che il periodo più felice di Ghatak sia stato quello trascorso a Pune dal 1966 al 1967 come Vice Direttore e professore all’FTII. Infatti, in quei cinque mesi di insegnamento fu circondato dalla stima e dall’ammirazione dei suoi studenti, che di lì a poco diventeranno tra gli autori più prestigiosi del samanantar sinema (il cinema “parallelo”) ossia del New Cinema, e tra di essi da ricordare in particolar modo Mani Kaul e Kumar Shahani, il suo allievo preferito. Perfino durante una sua degenza in un ospedale psichiatrico, nel 1969, la sua voglia di comunicare e la sua vitalità artistica non si arrestarono: mise in scena una commedia che aveva composto mentre era ricoverato, Sei Meye, e la fece interpretare a medici e pazienti.


    La sua filmografia comprende 26 opere: 12 lungometraggi, di cui quattro incompleti, 6 cortometraggi, 7 documentari (compresi due non finiti e uno non accreditato) e un filmato pubblicitario.
    Il primo film (completo), Nagarik (Il Cittadino, 1952), proiettato nelle sale dopo la scomparsa del regista, narra delle traversie di una famiglia di rifugiati del Bengala Orientale. Il maggiore dei figli, Ramu, interpretato dal grande attore teatrale Kali Banerjee, dopo essere stato costretto dalle circostanze avverse ad abbandonare ogni aspirazione di realizzazione individuale, si rifugia nella lotta politica.

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    Il personaggio principale di Ajantrik (Il Viaggiatore, altri titoli: Non conforme alle regole meccaniche, Patetico Inganno o L’Uomo Meccanico, 1957) è Bimal, un tassista stravagante innamorato della sua automobile, Jagaddal, una Chrevrolet degli anni Trenta che ritiene sia un essere vivente. Il film si svolge intorno ad otto episodi riguardanti le vicende di altrettanti passeggeri di Bimal. Comunque, il vero nucleo del film è costituito dall’unico piacere di questo singolare conducente di taxi - “un pazzo, oppure un bambino o un primitivo” a detta del regista - che è quello di girovagare nella valle incontaminata di Chotanagpur, nel Bihar, e di partecipare alle feste e ai riti ancestrali degli Oraon, gli adivasi (lett. “abitanti originari”, aborigeni) di quella terra. L’industrializzazione, però, avanza velocemente, distruggendo la natura e la vita dei tribali. E anche la povera vecchia Jagaddal, alla fine, esalerà l’ultimo respiro e dovrà essere demolita. Ajantrik, un sogno accarezzato per dodici anni prima di poter essere realizzato, era uno dei film preferiti dal suo autore, il quale riteneva di aver raggiunto in quest’opera una notevole sintesi espressiva.
    Bari theke Paliye (lett. Scappato da casa, ossia Il Fuggitivo, 1959), considerato un film in parte autobiografico, è ispirato da un racconto per ragazzi. Kanchan, un bambino che vive sulle rive di un fiume, sogna l’avventura. Fuggito dal suo villaggio, raggiunge Calcutta. Dopo aver sperimentato gli aspetti positivi, ma soprattutto quelli negativi, della metropoli, Kanchan, consigliato da Haridas, un maestro disoccupato con cui ha fatto amicizia, tornerà dai suoi genitori, senza alcun rimpianto per le meraviglie della grande città.
    Il film che dà inizio alle tre opere che si occupano con maggiore profondità della Partition, Meghe Dhaka Tara (Una Stella Nascosta dalle Nuvole, 1960), deve il suo titolo all’omonimo poema di Shakespeare La storia è incentrata su due modelli femminili: Neeta, il personaggio positivo che si sacrifica per il bene dei suoi familiari - vuole a tutti i costi che il fratello Shankar studi canto classico, e vi riuscirà - e la sorella minore Geeta, bella e superficiale, che sposerà Sanat, amato da Neeta, con l’aiuto della madre opportunista e avida che vede nella figlia maggiore soltanto un sostegno economico per l’intera famiglia, profuga del Bengala Orientale. Neeta avrà un solo attimo di gioia, prima di morire tragicamente di tubercolosi, quando troverà una lettera di Sanat in cui la paragona a “una stella nascosta dalle nuvole”. Neeta - tra tutti i personaggi da lui creati quello preferito da Ghatak, - è stata paragonata spesso alle analoghe figure femminili di Mizoguchi, ma anche in questo caso il riferimento è mitologico: la dea Durga ed anche Ufa, moglie del “Signore della Distruzione”, che da sempre è stata l’archetipo di tutte le figlie e le mogli delle famiglie del Bengala. In alcuni casi Meghe Dhaka Tara è stato criticato (anche dallo stesso Ghatak, sebbene a volte lo ritenesse il suo film migliore) per il suo eccesso di sentimentalismo e per l’esasperazione delle situazioni drammatiche. Tuttavia, in questo melodramma vi è una qualità straordinaria delle immagini ed uno stupefacente uso del suono, degli effetti sonori e della musica.
    La seconda parte della trilogia, Komal Gandhar (Mi bemolle, 1961), è ambientata negli anni Cinquanta e può essere interpretata come una critica all’ideologia dell’IPTA. Due associazioni teatrali una volta unite, allusione alla divisione del Bengala, si fronteggiano: una, guidata da Bhrigu, è boicottata dal capo dell’altro gruppo, Shanta, la cui nipote, l’attrice Ansuya, si innamora di Bhrigu. Le due compagnie rivali infine si riuniscono per mettere in scena il dramma in sanscrito Shakuntala (simbolo del Bengala, per Ghatak), la cui versione di Tagore, Prachin Sahitya, è un costante riferimento all’interno del film. Inoltre, Bhrigu e Ansuya scopriranno di essere entrambi rifugiati del Bengala Orientale. Sebbene la ragazza sia già promessa ad un altro uomo e debba partire per la Francia, deciderà di rimanere accanto a Bhrigu. Mi bemolle, caratterizzato da una splendida interazione tra immagini e musica, era un film molto amato da Ghatak poiché il regista pensava di aver infranto in questo caso la convenzionale linearità narrativa e di essere stato capace di proporre una storia che si sviluppava contemporaneamente su quattro livelli di lettura.
    La conclusione della trilogia, Subarnarekha (1962, uscito nelle sale nel 1965), fu definita dall’ autore il suo film “più filosofico” ed è considerata dalla critica l’opera più complessa, poetica ed aspra di Ghatak. Siamo nel 1948 a Calcutta, dove Ishwar Chacraborty e la sorella minore Sita lottano per la sopravvivenza in una colonia di rifugiati. Nonostante l’estrema povertà, Ishwar accoglie nella famiglia Abhiram, un bambino fuori casta coetaneo di Sita, la cui madre è stata rapita. Fortunatamente, accade che un vecchio compagno di College di Ishwar gli offra un lavoro come contabile a Chatimpur, una cittadina mineraria sulle rive del fiume Subarnarekha. Anni dopo, Abhiram partirà per compiere i suoi studi. Quando tornerà, fuggirà con Sita a Calcutta, in quanto Ishwar si oppone al loro matrimonio. I due avranno un figlio, Binu, ma Abhiram morirà in un incidente e Sita per sopravvivere sarà costretta a prostituirsi. Un giorno, Ishwar e Hariprasad, il suo migliore amico, per sfuggire alle loro frustrazioni si recano a Calcutta in cerca di facili divertimenti, finché completamente sbronzi si ritrovano in un bordello: lo stesso in cui si trova Sita. Ishwar, tra i fumi dell’alcol e senza occhiali, non riconosce la sorella, la quale, inorridita, si uccide, in preda alla disperazione e alla vergogna. Dopo essersi accusato della morte di Sita ed essere stato assolto, Ishwar tornerà sul fiume Subarnarekha, portando con se il piccolo Binu. Il film - che sembrerebbe una sintesi dell’opera di Ghatak per il tipo di soggetto melodrammatico, i luoghi descritti, le allusioni simboliche, le musiche, gli effetti sonori e il linguaggio cinematografico - è anche un continuo susseguirsi di citazioni letterarie, visive e musicali che spaziano da The Waste Land di T.S. Eliot a La Dolce Vita di Federico Fellini.
    Il film preferito di Ghatak - e a ragione, secondo alcuni critici che lo ritengono il suo più grande capolavoro - era Titash Ekti Nadir Naam (Un Fiume di Nome Titash, 1973), adattamento cinematografico di una celebre novella di Advaita Malla Burman. Un Fiume di Nome Titash, prodotto dal Bangladesh poco dopo la sua scissione dal Pakistan, è un’allegoria sulla vita e la morte di una comunità di pescatori, i Mallo, incalzati dal progresso che farà sì che il fiume si inaridisca in modo da poterlo sfruttare per la più redditizia coltivazione del riso. Berlanti, moglie del pescatore Kishore, viene rapita dai pirati del fiume. Sfuggita ai suoi assalitori, è ospitata dai pescatori di un villaggio vicino, presso cui vivrà per alcuni anni, allevando il suo bambino. Il marito, impazzito perché la credeva morta, al suo ritorno non la riconoscerà. Né la stessa Berlanti riconoscerà lui, avendolo visto soltanto una volta: il giorno delle nozze. I due sposi scopriranno la verità solo poco prima della loro morte. Il loro bambino viene allevato da Basanti, il personaggio centrale del film, coscienza e memoria storica dell’intera comunità, che sogna la possibilità di una nuova vita. Per il regista Titash Ekti Nadir Naam, un film di rara bellezza visiva che in alcune sequenze ricorda le composizioni dell’antica scultura templare indiana, rappresentava un saggio sulla liricità delle campagne del Bengala e un’indagine sull’umanità dei suoi abitanti.
    L’ultima opera completa di Ghatak, Jukti, Takko ar Gappo (Un Ragionamento, Una Discussione e Una Storia, 1974), è certamente il film più autobiografico del regista, un testamento simbolico, amaro e pessimista. Il film, interpretato con grande ironia dallo stesso Ghatak, narra del viaggio nel Bengala di uno scrittore alcolizzato che vorrebbe riconciliarsi con la moglie. L’intellettuale, dal significativo nome di Nilkanta (“gola blu”) - uno degli epiteti di Shiva che aveva salvato l’umanità bevendo il veleno halahala,emerso durante il Rimestamento dell’Oceano (Samudramanthana), un nome che è quindi un simbolo della compassione del dio verso il mondo - durante le sue peregrinazioni si imbatte in diversi personaggi emblematici, con cui, di volta in volta, intavolerà discussioni sui temi più importanti che riguardano la vita di ogni individuo. Infine, Nilkanta sarà ucciso, per sua scelta, dal fuoco incrociato della polizia e degli studenti rivoluzionari naxaliti. Morendo, Ghatak-Nilkanta esclama “Uno deve fare qualcosa”, citando il titolo di un racconto di Manik Bandyopadhyay in cui un tessitore senza lavoro fa girare la spola vuota, illudendosi così di “fare qualcosa”.
    Questo grande artista - che non credeva nel Cinema come Arte ma come mezzo per poter comunicare con la gente - incarnazione dello spirito del Bengala, secondo il suo grande ammiratore Satyajit Ray, è stato finalmente riconosciuto come uno dei più significativi Maestri del Cinema indiano e come antesignano del “cinema parallelo”. Nel 1997 il New York Film Festival gli tributò un omaggio entusiasta, proiettando la sua intera produzione cinematografica.


    Mrinal Sen (1923)



    Alla limpidezza cristallina e all’umanesimo classico di Ray, ispirato da Tagore, si è soliti contrapporre il trasgressivo Mrinal Sen, il regista che ha voluto rompere maggiormente con il passato. Noto all’estero quanto Ray, è considerato il più moderno e, almeno per un certo periodo della sua vita, il più politicizzato dei cineasti indiani. Nato nel 1923 a Faridpur (nell’odierno Bangladesh), il padre aderiva al movimento swadeshi, era consigliere di difesa per i membri delle società segrete anticolonialiste ed era solito dare asilo agli attivisti del Congress Party. Mrinal Sen crebbe quindi in un ambiente fortemente influenzato da ideali politici libertari, in una casa dove le incursioni della polizia erano all’ordine del giorno. Laureato in fisica a Calcutta, dopo esperienze teatrali - aderì all’IPTA - e nella critica - nel 1950 fu il curatore, con Chidananda Das Gupta, del primo libro sul cinema indiano, Chalachitra, e nel 1951 scrisse una monografia su Charlie Chaplin - dal 1956 si dedicò al Cinema, avendo per modelli diretti, secondo le sue parole, Eisenstein, Dziga Vertov, Fellini, Visconti, Truffaut, Godard e Bresson, a cui, nel corso del tempo, si aggiungeranno Glauber Rocha, Fernando Solanas e Nagisa Oshima. La sua maturazione artistica, ossia lo sviluppo di tematiche ed estetiche proprie, è stata più lenta e discontinua rispetto agli altri due maestri bengalesi, Ray e Ghatak. E’ certo, però, che subito dopo il suo esordio nella regia abbia cominciato a odiare i film pieni di “buone intenzioni” che, a parere di Sen, forniscono un alibi per mettere in scena il solito melodramma, tanto amato sia dal cinema bengalese d’autore che da quello commerciale. Sen prova altrettanta avversione per il genere epico, sia che sia ambientato nell’antichità sia che si manifesti nel mondo contemporaneo. E’ impossibile, infatti, poter identificare un qualunque personaggio dei suoi film con un eroe. Se la componente emotiva che caratterizzava le opere di Ghatak era stato il dolore per la Partition, Sen nei suoi film tratta con medesima indignazione la carestia del 1943, che ritiene sia stato un avvenimento maggiormente scandaloso della divisione del territorio indiano. Inoltre, una peculiarità che lo contraddistingue dagli altri due Maestri bengalesi è la sua noncuranza per la lingua. Sen ha infatti realizzato numerosi film in hindi, in telegu e in oriya. La sua produzione artistica è stata segnata dalle sue convinzioni marxiste, ma dagli anni ’80 i suoi film sono più interessati alle indagini psicologiche dei personaggi, con un registro narrativo più tradizionale. Autore, nel 1966, di due sceneggiature (Joradighir Choudhury Paribar per Ajit Lahiri e Kankh Kata Hirey per Ajoy Kar), di tre saggi sul Cinema (Chalachitra Bhut Bartaman Bhabhishya, del 1977, Views on Cinema, dello stesso anno, e Cinema, Adhunikata, del 1992), la sua filmografia, fino ad oggi, comprende 34 opere di cui due per la televisione e tre documentari.
    Il suo esordio nella regia fu deludente. Raat Bhore (L’Alba della notte, 1956) è un film in stile neo realista sull’abusato tema del contadino dall’animo puro costretto a vivere nella grande città viziosa. Il neo regista ebbe invece un discreto successo con Neel Akasher Neechey (Sotto il cielo blu, 1958), ambientato a Calcutta negli anni ’30 e con riprese in Cina, in cui si narra dell’amicizia tra una attivista indiana e una cinese fuggita dalla sua patria occupata dai giapponesi. Sen ebbe maggiori consensi con Bhaishey Shravan (Il 22 di Shravan – mese del calendario indiano tra luglio e agosto – o Il Giorno delle Nozze, 1960), il primo film in cui questo regista si sia occupato della carestia del ’43. Seguono altri cinque film – di cui tre di notevole interesse: Punashcha (1961), Akash Kusum (1965) e Matir Manisha (1966) – un documentario e una pausa di riflessione che si concluse con un’opera fondamentale nella storia del Cinema indiano, Bhuvan Shome (Il Signor Shome, 1969). Bhuvan Shome, insieme a Uski Roti (Il Suo Pane) di Mani Kaul e Sara Akash (L’intero cielo) di Basu Chatterjee, tutti e tre realizzati nello stesso anno e finanziati dalla Film Finance Corporation, inaugura ufficialmente la nascita del New Indian Cinema o New Wave Indian Cinema, comunemente detto “cinema parallelo”, in opposizione a quello commerciale definito in genere mainstream cinema.
    Il Signor Shome è un alto funzionario delle ferrovie (interpretato da Utpal Dutt, uno degli attori più carismatici del teatro e del cinema bengalese), integerrimo e autoritario. Un uomo talmente inflessibile da licenziare non solo Yadav, un controllore un po’ truffaldino, ma addirittura anche il figlio perché lo ritiene uno scansafatiche. Recatosi ad una partita di caccia nel Gujarat, l’irreprensibile burocrate incontra Gauri (impersonata dalla bella Suhasini Mulay, nipote di Kamal Haasan, moglie di Mani Rathnam, che diventerà una nota documentarista impegnata politicamente e che nel 1995 dirigerà il lungometraggio Indira), una ragazza di un villaggio, promessa sposa di Yadav. Gauri, un’anima libera che non si fa intimidire dalle convenzioni e dall’autorità, riuscirà ad ammorbidire il carattere del Signor Shome, il quale, una volta rientrato in sede, cambierà tutte le sue vecchie abitudini e chiuderà un occhio sull’inefficienza e sulle piccole ruberie dei suoi dipendenti, anzi le agevolerà. Bhuvan Shome, girato in hindi e con la voce narrante di Amitabh Bachchan, a detta dell’autore fu ispirato dai film di Jaques Tati. Il film non piacque affatto a Satyajit Ray - molto polemico e scettico sulla nouvelle vague indiana che definiva off-beat - che riassunse in sette parole il suo sarcastico giudizio: “Grande Burocrate Cattivo Redento da Bella Villanella”. Bhuvan Shome fu però premiato al Festival di Venezia.
    Durante il periodo turbolento delle rivolte dei naxaliti, Sen è autore di una trilogia su Calcutta costituita da The Interview (1970), Calcutta ‘71 (1972) e Padatik (Soldato di fanteria, 1973).
    The Interview descrive satiricamente i tentativi del giovane Raju di rendersi presentabile ad un colloquio di lavoro presso una società anglo-indiana. Sa che per ottenere il posto deve indossare un abito di foggia europea. Sfortunatamente, il suo unico vestito è in una lavanderia irrimediabilmente chiusa. Presentatosi con il costume tradizionale indiano, non sarà assunto. Raju sfogherà la sua rabbia distruggendo la vetrina di un negozio che espone un manichino con un elegante completo occidentale. In The Interview Sen voleva sottolineare la persistenza dei vecchi valori del periodo colonialista, nonostante l’India fosse indipendente da più di venti anni. Questo tipo di satira, derivante dalla letteratura Naksha della fine del XIX secolo, risale già all’Era del Cinema muto ed è visibile, ad esempio, nel film del 1921 Bilet Pherat (The England Returned), una presa in giro dei bhadralok che avevano soggiornato in Gran Bretagna. Nel 1972 Bilet Pherat sarà rivisitato, con lo stesso titolo, nell’unico lungometraggio realizzato dal noto critico Chidananda Das Gupta.
    Calcutta ’71, in cui Sen ha adottato la forma espressiva del «saggio cinematografico», riunisce cinque storie che si svolgono dal 1933 al 1971: Atmahatar di Manik Bandyopadhyay, Adhiak di Prabodh Sanyal, Akal di Samaresh Bose, Calcutta ’71 di Ajitesh Bannerjee e Interviewer Pare dello stesso Sen. Il filo conduttore del film, che include parti documentaristiche, è uno studente naxalita che dallo schermo incita gli spettatori alla rivolta e che in fine viene ucciso dalla polizia. Come esempio, menzioniamo uno degli episodi dove è evidente la capacità del regista di raccontare realtà difficili con un linguaggio sintetico, in cui è anche presente il gusto del paradosso ed una certa ironia. Dentro una piccola baracca fatiscente, uomini e donne dormono sotto lo scrosciare di una pioggia torrenziale. Il fatto singolare è che, nonostante il tetto sia ridotto come un colabrodo, quei poveracci riescono a riposare in relativa tranquillità, riparati dagli ombrelli o sdraiati sotto i letti. Ma ad un tratto qualcuno si sveglia e, oltre tutto, la pace domestica notturna viene disturbata dall’intrusione di un cane randagio che timidamente si è intrufolato in casa in cerca d’asilo. Il capo famiglia, per «proteggere» il territorio, bastona il povero animale, inutilmente difeso dalle donne. Ad ogni modo, la situazione è ormai insostenibile. L’acqua sta inondando la casupola e la famigliola è costretta ad avviarsi verso un riparo più sicuro. A questo punto, la levità e l’ironia del racconto svaniscono. Il gruppo giunge sulla soglia di un sotterraneo nel cui interno è ammassato un folto numero di persone (insieme al piccolo randagio). Sono altri diseredati che, come i protagonisti, hanno cercato scampo dall’infuriare dei monsoni. Ed ecco che il regista con un uso molto semplice ma estremamente efficace della macchina da presa, un’eloquente panoramica in cui si colgono gli sguardi di quella moltitudine di emarginati, riesce a far partecipe lo spettatore della drammaticità delle loro esistenze.
    Patadik è la storia intimista di un attivista naxalita che trova scampo dalla polizia presso una donna separata dal marito. Invece di essere preoccupato per la sorte del rifugiato, un membro del Partito Comunista protesterà vivacemente per la loro condotta immorale.
    Dopo il singolare esperimento di Chorus (1974), una sorta di fiaba mitologica con implicazioni moderne che unisce diversi stili visivi e narrativi, segue Mrigaya (La caccia, 1976), una splendida e paradossale storia allegorica sulla resistenza della cultura indiana all’oppressione e alla povertà. Il film, realizzato nel periodo culminante dello stato d’Emergenza decretato da Indira Gandhi, anche se ambientato in epoca coloniale è una chiara denuncia delle leggi speciali repressive degli anni Settanta. La trama, che allude alla rivolta dei Santhal del Nord del Bengala nel 1855-56, si svolge negli anni ’30 in un villaggio dell’Orissa. Il giovane tribale Ghinua, grande cacciatore, gode dell’amicizia dell’amministratore locale britannico, il quale è solito pagare una taglia per la testa di ogni bestia feroce abbattuta. E una taglia sarà messa anche sulla testa di un tribale che incita il suo popolo alla rivolta. Il ribelle sarà decapitato da un traditore del villaggio che riscuoterà il premio pattuito. In seguito, Dungri, moglie del cacciatore, viene rapita da Bhuban Sardar, un usuraio che vuole rifarsi di un debito insoluto. Il marito organizza una battuta di caccia per stanare il rapitore e, dopo averlo catturato, poiché lo considera il più pericoloso dei predatori della foresta, gli mozza la testa. Sicuro di poter riscuotere una taglia, consegna il suo macabro trofeo all’amico inglese. Ma, tra lo stupore generale dei tribali, Ghinua sarà invece impiccato per omicidio.


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    L’anno successivo con Oka Oorie Katha (Storia di un villaggio o Gli Emarginati della società), tratto dal racconto Qafan (Il sudario) di Munshi Premchand, Sen realizzò uno dei film più provocatori della cinematografia indiana. Due autentici anti-eroi, padre e figlio, lavorano quel minimo indispensabile per sopravvivere e per acquistare bevande alcoliche in abbondanza. Il loro stile di vita, a dir poco degradante ed eccentrico, è una protesta contro la società. Il figlio decide di prendere moglie, una donna che vorrebbe vivere decentemente e che per questo, sebbene in attesa di un figlio, lavora a tal punto da morire di fatica sotto lo sguardo indifferente dei due fannulloni nichilisti. Dopo aver fatto una colletta per i funerali, padre e figlio lasceranno marcire il suo corpo fuori dalla capanna, spendendo il poco denaro racimolato per concedersi una solenne bevuta.
    Segue Parashurama (Rama con la scure da guerra, 1978), derivato in parte dal lavoro teatrale Jagannath, tratto a sua volta da Ah Q di Lu Xun. E’ la storia di un giovane emigrato a Calcutta, inseparabile dalla sua ascia - da cui il suo scherzoso soprannome, Parashurama è infatti la settima incarnazione di Vishnu - che sogna una vita da eroe mitologico. Nella realtà è un disoccupato costretto a vivere in un cimitero affollato da reietti come lui. Come se non bastasse, impazzirà e sarà fatto sloggiare dal suo tetro rifugio dall’intervento brutale della polizia.
    Sen a questo punto focalizza il suo interesse sull’indagine della classe media di Calcutta - soggetto da sempre caro alla cinematografia bengalese - in Ek Din Pratidin (Un giorno come gli altri, 1979), Chaal Chitra (Caleidoscopio o Miniature, 1981) e Kharji (Respinto o Il caso è chiuso), premio speciale della Giuria al Festival di Cannes. Gli stessi temi saranno ripresi anni dopo con Ek Din Achanak (Un giorno improvvisamente, 1989).
    Akaler Sandhane (In cerca della carestia, 1980), vincitore del Loto d’Oro in India e dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino, è uno dei rari film indiani in cui si fa notare clamorosamente e con crudezza l’enorme differenza economica e socio-culturale esistente tra gli abitanti delle città e la gente dei villaggi, che costituisce la maggioranza della popolazione del subcontinente asiatico. In uno sperduto paesino del Bengala una troupe di idealisti sta girando un film “politicamente impegnato” sulla carestia del 1943. Ma le abitudini consumistiche dei cineasti creeranno lo scompiglio tra gli abitanti del luogo e anche una sorta di “piccola carestia”, con relativi tumulti e intervento della polizia. Le riprese del film dovranno essere interrotte. Akaler Sandhane è una evidente satira sui gruppi di sinistra che in quel periodo intendevano “risvegliare” la coscienza delle masse con i loro film.
    Un posto particolare nella filmografia di Sen è da riservare a Khandhar (Le rovine, 1983), un’opera di grande suggestione visiva - legata all’estetica di Bresson - con una sottile e delicata indagine della psicologia dei personaggi. Tratto dalla novella di Premendra Mitra Telenapota Abishkar (La scoperta del villaggio di Telenapota), Khandhar fu realizzato da Sen perché con questo film voleva liberarsi dalle regole formali e dai dogmi ideologici dell’IPTA.
    Come in Aryaner Din Ratri di Ray, anche qui tre giovani amici si lasciano alle spalle il caos cittadino per trascorrere un weekend in campagna, dove si imbattono nei ruderi di una dimora aristocratica, un tempo sontuosa. L’affascinante palazzo fatiscente è ancora abitato da una vecchia vedova paralizzata e dalla figlia Jamini (Shabana Azmi), che la accudisce con amore. L’anziana signora, ormai in fin di vita e in apprensione per le sorti della figlia, è in costante attesa del promesso sposo di Jamini, non sapendo che non vi è alcuna probabilità che costui si presenti, in quanto si è già sposato con un'altra ragazza. La donna scambia uno dei tre visitatori, il fotografo Subhash – interpretato da un’altra star del New Cinema, Naseeruddin Shah – per il futuro genero. Subhash, impietosito dalle condizioni fisiche e mentali della malata, la asseconda, ma così facendo accende le speranze della riservata, malinconica e bella Jamini. Terminate le vacanze, i tre amici devono tornare a Calcutta, lasciando nuovamente Jamini alla sua solitudine, circondata dalle splendide rovine dell’antico palazzo.
    Genesis (1986) è una grande coproduzione europea con un cast che riunisce tre grandi attori del New Cinema, Shabana Azmi, Naseeruddin Shah e Om Puri. In questo film Sen dichiara la sua visione filosofica della vita. La storia, ambientata in una dimensione atemporale, ipotizza la nascita e la distruzione di una utopistica società anticapitalista. Un’opera molto astratta, che infatti non fu ben accolta dal pubblico. Mahaprithibi (Il vasto mondo, 1991) è una riflessione generale sulle sorti del Comunismo, prendendo spunto dalla storia di una famiglia di Calcutta.
    Dei documentari di Sen almeno due sono da menzionare. Il primo, Calcutta, my El Dorado (1990), faceva parte di un progetto più ampio, City Life, che riuniva dodici lavori di altrettanti registi di diverse nazionalità. Le immagini di Sen sono prive di un testo di commento e sono accompagnate soltanto dalle musiche di Zbignew Preisner e dalla presa diretta: però, anche se intere sequenze sono concepite musicalmente, non troviamo alcuna atmosfera astratta né intenzioni puramente stilistiche. Con la consueta abilità e con lo sguardo attento di un grande Maestro, il regista presenta la sua personale visione del luogo in cui vive e lavora, un luogo amato e odiato nello stesso tempo. Sen mette in campo tutte quelle forze eterogenee, positive e negative, che convivono in un “organismo” tanto complesso e controverso quale è in realtà Calcutta.
    Il secondo documentario, Century of Cinema (1997), una produzione anglo-indiana, è importante non per motivi estetici ma storico critici. E’ la ricerca della realtà, nelle sue varie forme, che il Cinema indiano ha cercato di ritrarre nel corso del tempo.
    Antareen (La Reclusa o I Reclusi, 1993), cronaca di una relazione amorosa telefonica tra due sconosciuti che non si incontreranno mai (uno scrittore e una donna segregata dal suo amante in una casa lussuosa), sembrerebbe una parabola sull’incomunicabilità nella società moderna. Se da un punto di vista stilistico Antareen si collega al cinema francese, il nucleo del soggetto riconduce a La voce umana (primo episodio de L’amore, 1948) di Rossellini e ha dei riferimenti al racconto Kshudita Pashan di Tagore. Nell’ultimo film, realizzato nel 2002, Aamar Bhuvan (La mia Terra) Sen non sembra più essere “il Maestro dell’anticonformismo”. Ne La Mia Terra non c’è più alcuna traccia della sua proverbiale vena trasgressiva e polemica: è una semplice storia d’amore, incentrata su tre personaggi, che si svolge in un ambiente pacifico e sereno.


    Le nuove generazioni bengalesi – PARTE PRIMA



    Grazie al particolare retaggio culturale del Paese, alla tradizionale qualità del suo cinema, all’esempio di tre grandi Maestri (Ray, Ghatak e Sen), alle innovazioni tematiche e linguistiche apportate dal New Cinema, e in certi casi anche al supporto economico dello Stato per poter realizzare alcune opere considerate “difficili”, l’attuale panorama cinematografico del Bengala è affollato da un gran numero di talenti che nei loro film non utilizzano più soltanto il bengoli ma ogni altra lingua dell’India, compreso l’inglese. Per tale ragione, alcuni critici hanno coniato l’espressione Pan Indian New Cinema.
    Tra questi numerosi registi, uno dei più noti è Buddhadeb Dasgupta, nato ad Anara nel 1944, un autentico grande autore definito da molta parte della critica “un ideologo e un umanista”. Fin dal 1961 Dasgupta si era dedicato alla poesia - tra le sue antologie di versi, da ricordare: Arieley (1963), Coffin Kimba Suitcase (1972), Him Jug (1977), Chhata Kini (1981) e Roboter Gaan (1985) - per poi occuparsi anche di letteratura (fino ad oggi ha pubblicato quattro romanzi) e di musica. Laureato in Scienze economiche, tra il 1968 ed il 1976 ha insegnato tali materie in un College di Calcutta. Dasgupta iniziò la carriera cinematografica nel 1968 e le sue opere, basate quasi sempre sui suoi scritti, comprendono un gran numero di documentari, molti dei quali hanno per soggetto aspetti della cultura indiana sia antica che moderna, come è il caso di Ganesh Pyne (id. o Il Pittore dal silenzio eloquente, 1998), un'artista considerato dal pittore più anziano e carismatico dell’India, M.F. Husain, il più grande maestro vivente, secondo soltanto allo stesso Husain. L’esordio nella finzione narrativa di Dasgupta, Duratwa (La Distanza, 1978), ricorda, per alcuni versi, le opere su Calcutta realizzate da Ray negli anni ’70. Anche il film dell’anno successivo, Neem Annapurna (Un boccone amaro), è legato allo stile narrativo e formale utilizzato dallo stesso Maestro bengalese nelle sue prime opere, sia per l’accentuato realismo che per la cura dei dettagli, anche se alcune sequenze di Neem Annapurna sembrano ispirarsi a Godard. Nel 1982 Dasgupta realizza Grihajuddha (L’incrocio), vincitore del premio FIPRESCI al Festival di Venezia. Benché Satyajit Ray lo avesse definito “un film poetico e sensibile sulla Calcutta contemporanea”, il maggiore valore di questo film non sembra consistere nel lirismo che, in una certa misura, è comunque presente, ed in particolare in riferimento al personaggio femminile della storia. Nella quasi totalità delle sequenze i toni visivi de L’Incrocio sono aspri, mentre gli avvenimenti si succedono con un ritmo incalzante e asciutto, come si addice ad un thriller politico che ricorda le opere di Costa Gavras. La storia narrata da Dasgupta è quella della corruzione in un’industria dell’acciaio a Barrackpur, nei pressi di Calcutta, e dell’assassinio di un giornalista - interpretato da Goutam Ghose - che indaga su quei loschi traffici. Chi ha scoperto l’omicidio, e proseguirà l’inchiesta, nonché i loro familiari, subiranno minacce da parte dei killer e dalla stessa polizia. Una vicenda complessa, con altri assassini, ed una parte della trama che approfondisce le vicissitudini di Nirupama, sorella di una delle vittime. Ma il tema di fondo affrontato da Dasgupta, implicito anche nel titolo, è quello delle scelte personali dell’individuo. Altro film notevole è Andhi Gali (Vicolo cieco, 1984) che con Duratwa e Grihajuddha, dovrebbe formare, a parere della critica, una trilogia sulle delusioni esistenziali e sociali della classe media politicizzata di Calcutta. L’autore, però, non concorda con tale interpretazione e afferma di aver concepito ognuno di questi film come un unicum, ovvero, ciascuno di essi ha una sua logica ed un proprio stile. Seguono quattro lungometraggi - Phera (Il Ritorno, 1986), Bagh Bahadur (Il Danzatore Tigre, 1989), Tahader Katha (Le Loro Storie, 1992) e Charachar (Il Rifugio delle Ali, 1993), considerata una delle opere più poetiche del Cinema indiano degli ultimi anni - che trattano di individui che hanno fatto delle scelte di vita difficili e che per tale motivo sono ostacolati ed emarginati dalla società. Un altro tipo di tematica, la crisi familiare nelle coppie dell’alta borghesia di Calcutta, è visibile in Lal Darja (La Porta Rossa, 1996), una delle realizzazioni cinematografiche di Dasgupta più profonde per indagine psicologica e più raffinate dal punto di vista estetico. Nel 2000 Dasgupta vinse con Uttara and Her Wrestlers il premio per la regia al Festival di Venezia. In Uttara - della cui colonna sonora è autore lo stesso regista - due impiegati delle ferrovie, di stanza in un piccolo villaggio, sognano di essere assunti nel servizio di sorveglianza a bordo dei treni. Uno dei due sposa Uttara, una donna dotata di grande umanità, ed il suo amico se ne innamora. Ma il punto focale del film è rappresentato dall’assassinio di un sacerdote cristiano da parte di un fanatico dell’hindutva (lett. “induità”, termine che, in genere, si utilizza per denotare l’ideologia degli oltranzisti hindu), il quale brucia la chiesa del villaggio, mentre Uttara subisce la violenza dei componenti della sua banda. Uttara si basa su un fatto realmente accaduto in una piccola città dell’Orissa, dove un missionario australiano e i suoi figli furono bruciati vivi da alcuni seguaci dell’hindutva. Il film di Dasgupta è un ammonimento drammatico sul pericolo che l’India potrebbe correre a causa del diffondersi del fondamentalismo religioso. Mando Meyer Upakhyan (Diario di una cattiva ragazza, 2002) - un’opera splendida sia visivamente che come struttura narrativa - ha per nucleo centrale un racconto di Prafulla Roy, che si interseca con altre cinque storie, scritte dallo stesso regista: una ragazzina, figlia di una prostituta, seguendo i consigli di un suo insegnante, scappa da casa per non correre il rischio di dover ripercorrere le orme della madre, un gatto che si era smarrito torna felicemente dal suo padrone, in ansia per la sua sorte, una coppia di anziani malati è improvvisamente trasferita da un autobus su cui viaggiano in una macchina, con conseguente affannosa ricerca di un ospedale, e così via. Tutte storie semplici, in cui Dasgupta cerca di ampliare il suo campo di ricerca espressiva - il regista è anche uno studioso di Cinema ed è autore della raccolta di saggi Swapna Samay Cinema - dal consueto realismo a ciò che l’autore definisce un tipo di realismo magico, una strada che ha continuato a percorrere in altri film: Swapner Din (Inseguiti dai Sogni, 2004) e Kalpurush (Ricordi nella Nebbia, 2005), tratto dal suo ultimo romanzo America, America.

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    Anche Aparna Sen
    nata nel 1945, laureata in Letteratura inglese e, come già sappiamo, cresciuta nell’ambiente del Cinema grazie al padre (il più volte menzionato Chidananda Das Gupta), è considerata una delle migliori registe dell’India. Il suo modo di raccontare, semplice e diretto, privo di intellettualismi, spesso definito “classico”, è ben comprensibile anche da parte di un pubblico non indiano. Estranea all’impegno politico militante di molti dei suoi colleghi bengalesi, Aparna Sen propone un Cinema basato sui sentimenti interiori, in cui si analizzano caratteri e problematiche del mondo femminile, senza mai scadere nel femminismo di maniera. Alcuni critici ritengono che il suo cinema abbia subito degli influssi anche da James Ivory, con cui Aparna Sen lavorò come attrice in due dei film girati in India dal regista americano: The Guru (1968) e Bombay Talkie (Il Cinema di Bombay, 1970). Nonostante una brillante carriera come attrice, fu Satyajit Ray, dopo aver letto un suo racconto, ad incoraggiarla a dedicarsi alla regia. Questo racconto (un tributo della regista alla sua insegnante d’inglese), 36 Chowrighee Road - che ad alcuni ricorda La Vieille Dame Indigne (1965) di René Allio - divenuto film nel 1981, è la storia malinconica di una ex insegnante inglese, Violet Stoneham (interpretata da Jennifer Kendall, moglie dell’attore e regista Shashi Kapoor, fratello di Raj Kapoor, e produttore del film), che ha una predilezione quasi maniacale per Shakespeare. L’isolamento della donna è alleviato per un certo periodo di tempo dalla presenza di una sua ex allieva e del suo fidanzato aspirante scrittore. Però, quando i due giovani si sposeranno non frequenteranno più la casa di Chowringhee Road e Violet Stoneham si rassegnerà a rinchiudersi nel suo mondo popolato da ricordi. Il film, che fu immediatamente apprezzato dalla critica, è uno studio sulla solitudine e sulla forza interiore della protagonista.
    Paroma (1986) è uno dei film che ha suscitato maggiore clamore in India per il suo soggetto “scandaloso” (almeno per la morale indiana). Paroma, una donna modello, sposata e ormai matura, intreccia una relazione con un uomo molto più giovane di lei. Scoperta dal marito, dapprima tenterà il suicidio, ma poi, con il sostegno della figlia, e non provando alcun senso di colpa per il suo comportamento, è pronta ad affrontare una nuova vita. Uno dei film emotivamente più intensi di Aparna Sen è Sati (1989), ambientato nel 1829, proprio quando gli inglesi misero definitivamente fuori legge la sati - lett. “(donna)virtuosa”, il suicidio rituale delle vedove di alta casta sulla pira funeraria del marito, detto anche sahagamana - una tradizione barbara che fu condannata contemporaneamente anche dal Brahmo Samaj. Uma (Shabana Azmi), una ragazza brahmana orfana e sordomuta viene “data in sposa” ad un banyan (ficus bengalensis, uno degli alberi sacri dell’India, ber o bor in hindi) perché il suo oroscopo prevede la morte immediata di un suo eventuale marito. Sedotta dal maestro del villaggio, che non si curerà più della ragazza, Uma viene scacciata dalla comunità e troverà la morte abbracciata al suo sposo-albero, sradicato durante una tempesta nella stagione dei monsoni. Sempre con Shabana Azmi come interprete, l’anno successivo la regista realizza il film televisivo Picnic.
    In Yugant (La Fine di un’Era, 1996) una coppia professionalmente affermata, separata per motivi di lavoro, trascorre insieme un periodo di vacanza nella baia del Bengala. Un soggiorno che li riunirà ma che, tra le notizie televisive, le informazioni via computer di ciò che accade nel mondo ed i racconti degli antichi miti narrati ai due turisti dai pescatori del luogo, si trasforma anche in un confronto critico tra la vecchia e la nuova India. In Paromitar ek din (Un giorno di Paromita, 1999), la regista descrive il legame di grande amicizia che unisce la protagonista e la suocera, interpretata dalla stessa Aparna Sen. Un sentimento che si rafforza proprio quando Paromita si separa dal marito e che manifesterà tutta la sua profondità nel momento in cui la donna - ormai divorziata e risposata, e quindi non appartenente più a quella famiglia - assisterà con devozione filiale la suocera sul letto di morte.
    Mr. & Mrs. Iyer (2002), che fu presentato al 55° Festival di Locarno, è noto al pubblico italiano per aver vinto nel 2003 il premio Città di Roma della Rassegna Cinematografica Incontri con il Cinema asiatico, e per essere stato proiettato nello stesso anno al 3° River to River Florence Indian Film Festival di Firenze. Dal Sud dell’India Minakshi Iyer, con il figlioletto Santhanam, deve intraprendere un lungo viaggio per raggiungere Kolkata (Calcutta), dove vive il Signor Iyer. Prima della partenza, Minakshi viene presentata a Raj Chowdhary, un fotografo naturalista bengalese. L’interno dell’autobus su cui viaggiano sembra voler rappresentare uno spaccato che sintetizza tutta la complessità dell’India moderna: vi sono riunite le varie generazioni, con i loro diversi modi d’intendere la vita, le differenti classi sociali e le molteplici credenze religiose. La serenità del percorso è interrotta dalla notizia che nella regione sono scoppiati dei gravi disordini: un induista è stato ucciso da un musulmano ed una banda di kar sevak (lett. “volontari”, di fatto fondamentalisti hindu esaltati) si aggira nella zona per compiere vendetta. Di notte, un gruppo di questi fanatici fa incursione sull’autobus, trascinando via tutti quei passeggeri che sospettano essere di fede islamica. Raj Chowdhary è musulmano, il suo vero nome è Jehangir, mentre Minakshi è una induista ortodossa tamil, per di più di alta casta brahmana. Ma la ragazza non può approvare l’intolleranza religiosa e salva la vita al fotografo dichiarando agli assalitori di essere sua moglie: Raja e Minakshi sono una rispettabile coppia hindu, il Signore e la Signora Iyer. Da quel momento i due sono considerati a tutti gli effetti marito e moglie e come tali si dovranno comportare per non destare sospetti fra gli altri passeggeri. Prima di poter giungere sani e salvi a Kolkata, dovranno affrontare situazioni paradossali, umoristiche e drammatiche, come quando saranno testimoni della ritorsione cruenta dei musulmani contro gli induisti. Il viaggio di Minakshi e Jehangir si trasforma quindi in un viaggio interiore. Le differenze religiose che li dividono sono presto dimenticate, i due impareranno a conoscersi ed a capirsi, anche se una volta giunti a destinazione la loro separazione sarà inevitabile. Mr. & Mrs. Iyer, interpretato in maniera molto convincente dall’attore e regista Rahul Bose e da Konkona Sen Sharma, figlia dell’autrice, è stato girato in inglese e si è avvalso di un direttore della fotografia d’eccezione, Goutam Ghose, e del commento musicale del grande Zakir Hussain.
    In 15 Park Avenue (2005), ultimo film della Sen, Anjali (Shabana Azmi) accudisce, insieme all’anziana madre (Waheeda Reheman), la sorella minore Meethi (Konkona Sen Sharma), malata di schizofrenia. Le sue condizioni psichiche sono tali da costringere il fidanzato Joydeep (Rahul Bose) a lasciarla. Da quel momento, Anjali sacrifica la sua vita per stare accanto alla sorella. Undici anni dopo, Joydeep, sposato e con due figli, incontra casualmente Meethi. La donna sembra non riconoscerlo, ma ne diventa amica. Anzi, è proprio a Joydeep che rivela le proprie fantasie allucinatorie: è convinta di vivere in una splendida abitazione al numero 15 di Park Avenue, circondata dalla tenerezza del marito e dall’amore di cinque bei figli. Ma non c’è alcuna Park Avenue a Calcutta. Una storia con regia e recitazione impeccabili e, come spesso accade nei film di Aparna Sen (ad esempio in 36 Chowringhee Road e in Sati), con un finale poetico, in questo caso quasi magico. Accompagnata da Joydeep per le strade della città per rintracciare l’inesistente 15 Park Avenue, Meethi “trova”, finalmente, “la sua casa” e vi si rifugia, scomparendovi dentro. Lo spettatore può così vedere il mondo felice in cui la mente della ragazza vorrebbe vivere: il suo rassicurante ambiente domestico, i suoi bambini e suo marito, che la attendevano da tanto tempo e che ora la accolgono a braccia aperte. Ormai conscia della vita interiore di Meethi, anche Anjali, corsa alla ricerca della sorella, crede nell’esistenza di Park Avenue.
    Pure Utpalendu Chakraborthy, nato nel 1948 nel distretto di Pabna, nell’attuale Bangladesh, ha una solida formazione culturale: laureato in Storia Moderna, oltre che nella regia si distingue in numerose altre attività artistiche, quali la poesia, la musica e la letteratura (con lo pseudonimo di Swaranamitra ha pubblicato Prasab, un’antologia di novelle). Influenzato fin da piccolo dallo zio, il noto scrittore comunista Swarnakamal Bhattacharya, autore nel 1950 di Chinnamul e di Tathapi, di cui si è già discusso, rispetto agli altri autori bengalesi della sua generazione Chakraborthy è il più politicizzato, essendo un membro attivo del Partito Comunista Marxista-Leninista. Di conseguenza, le sue opere sono fortemente condizionate da tali idee. Inoltre, per un lungo periodo è stato insegnante volontario presso le popolazioni tribali del Bengala, del Bihar e dell’Orissa, esperienza che traspare nel suo primo film, Monya Tadanta (Postmortem, 1981). Ottimo documentarista, di questo settore della sua attività cinematografica sono da menzionare due prodotti particolarmente interessanti: Mukti Chai (Vogliamo la Libertà, 1977), sui prigionieri politici durante lo Stato d’Emergenza, e The Music of Satyajit Ray del 1984, dove risalta tutta la sua cultura musicale. Tra i lungometraggi, caratterizzati da tematiche molto dure ma non assimilabili al consueto genere “sociale”, dotati cioè di notevole originalità, da segnalare Chok (L’Occhio, 1982), basato su un fatto realmente accaduto sull’espianto delle cornee a due prigionieri impiccati in Andhra Pradesh durante lo Stato d’Emergenza, Debshisha (Il Bambino Dio, 1985), su un’infelice nato con tre teste che a scopo di lucro viene spacciato per l’incarnazione di una divinità ed esposto al pubblico, film che vinse il premio per la migliore regia al Festival di Locarno, e Chhandaneer (La Rete del Ritmo, 1989), un film apparentemente musicale - si tratta della storia di Seema, una danzatrice di Bharata Natyam - ma che è soprattutto una presa di posizione contro le contaminazioni di tipo commerciale a cui la musica classica indiana è sottoposta da parecchi anni.


    Le nuove generazioni bengalesi – PARTE SECONDA



    Goutam Ghose (anglicizzazione di Ghosh) è nato nel 1950 a Faridpur, la stessa città natale di Mrinal Sen. Laureato in economia, diviene fotoreporter, per poi occuparsi di animazione e regia presso diversi gruppi teatrali. Ghose è uno dei pochi cineasti indiani ad avere una certa notorietà anche in Occidente, molti dei suoi film sono stati infatti selezionati o premiati in importanti Festival, ad esempio: a Berlino, Cannes, Karlovy Vary, Locarno, Sydney ed a Venezia. Inoltre, è un autore piuttosto conosciuto in Italia, tanto che la prima retrospettiva europea delle sue opere fu presentata al Napoli Film Festival del 1997. Questo regista si è sempre professato, ed è considerato da molti, l’allievo ideale di Satyajit Ray. Un giudizio avvalorato da un’autentica vena di “realismo poetico” presente nei suoi film e dalla sua composita personalità artistica: come Ray, Ghose di solito cura oltre alla sceneggiatura le musiche, le riprese ed il montaggio. Però, il suo modo di fare cinema, caratterizzato da una forte tensione ideologica e morale, ha avuto origine anche dall’osservazione delle opere del suo primo Maestro ideale, il grande documentarista Joris Ivens (1898-1989), perché Ghose, tra i registi bengalesi (quasi tutti ottimi documentaristi) è quello che si è maggiormente occupato di questo aspetto del Cinema. Il suo primo lavoro di rilievo è infatti Hungy Autumn (1976), in cui si documenta con indignazione la carestia del 1974, un cortometraggio che vinse il primo premio all’Oberhausen Film Festival e fu «Premio al Merito» a Lipsia. Fino ad oggi Ghose ha realizzato una ventina di documentari e tra i più importanti sono da segnalare: Land of Sand Dunes (1986), A Tribute to Odissi, realizzato nello stesso anno, Sange Meel se Mulaqat (Incontro con una Pietra Miliare della Musica, 1989), su Ustad Bismillah Khan, il più grande virtuoso vivente di shehnai (uno strumento simile all’oboe), evento speciale a Cannes, Beyond the Himalaya. The Timeless Silk Roads (1996), un grande viaggio nella cultura antica e moderna dell’Asia centrale in cinque puntate realizzato per la televisione inglese e indiana, lo straordinario Ray (1999), che fu presentato a Venezia, Kalahandi (2002), sulle conseguenze della corruzione politica in un villaggio dell’Orissa, e Impermanence (2004), sul XIV Dalai Lama, prodotto proprio dall’Italia, dalla Indrapur Cinematographica.
    I primi film di Ghose sono esplicitamente impegnati politicamente, dal didascalico Maabhumi (Terra Madre, 1979), sulla rivolta dei contadini di Telengana (nell’attuale Andhra Pradesh) protrattasi dal 1944 al 1951, al più maturo Dakhal (L’Occupazione, 1981), Gran Premio della Giuria all’XI° Festival dei Diritti Umani di Strasburgo. Dakhal, basato su una storia reale, ha per temi l’emarginazione dei gruppi tribali, l’oppressione delle caste basse e lo strapotere dei proprietari terrieri. Andi, appartenente a una tribù i cui membri durante i loro vagabondaggi si guadagnano da vivere facendo gli spazzini (compito riservato solo alle caste inferiori), è sposata con Joga, un contadino di un altro gruppo etnico. Alla morte di Joga, il più potente dei proprietari terrieri locali, con la connivenza delle autorità e scatenandole contro la sua stessa tribù, cerca di appropriarsi della terra ereditata da Andi. La donna, nonostante l’invito dei suoi fratelli adivasi, che hanno scoperto il raggiro, di unirsi a loro, decide di rimanere e di lottare per difendere i suoi diritti.
    Seguono tre autentici capolavori. Nel primo, Paar (La Traversata, 1984), tratto da un racconto di Samaresh Bose, Paarhi dial, la denuncia sociale assume i toni di una metafora. Il contadino Naurangia (Naseeruddin Shah), uccide il fratello di un proprietario terriero che a sua volta aveva fatto assassinare il maestro progressista del villaggio. Naurangia con la moglie Durga (Shabana Azmi) fugge a Calcutta per non essere arrestato. Ma le condizioni di vita nella grande città sono talmente miserabili che i due accettano di traghettare da una sponda all’altra del Gange un branco di maiali per poter pagare il viaggio di ritorno al loro villaggio. Nonostante la storia sia drammatica, nel film appare a tratti un certo umorismo ed il finale fa intuire che per i fuggitivi ci sarà un futuro migliore. Naseeruddin Shah ottene il Leone d’Oro come miglior attore al Festival di Venezia e nella stessa Rassegna Paar fu insignito del premio UNESCO per i valori umani.
    Il secondo film, Antarjali Jatra/Maha Yatra (Il Viaggio al di là, nella versione in bengali, Il Grande Viaggio, nella versione in hindi, 1987), nella filmografia di Ghose occupa probabilmente il posto di maggior rilievo. Il film, basato su una nota novella del 1960 del bengalese Kamal Kumar Majumdar, è ambientato in un periodo successivo al 1829, anno in cui, come detto precedentemente, fu messo fuori legge la sati. Al vecchio brahmano Sitaram (Promode Ganguly), che sta per morire, viene predetto da un astrologo (Robi Ghosh) che otterrà la liberazione dal ciclo delle rinascite se la sua sposa diverrà una sati. Sitaram è vedovo, ma gli altri brahmani, felici di infrangere la legge per assecondare la loro superstizione, trovano facilmente un membro povero della loro stessa casta disposto a dare in moglie al moribondo la sua giovane figlia Yashobati (Shampa Ghosh), anzi il padre è orgoglioso che la figlia sia glorificata grazie alla celebrazione della sati. L’unico contrario al matrimonio è Baniju (interpretato da un ottimo attore del cinema commerciale di Bombay, Shatrugham Sinha), un fuori casta ubriacone e anticonformista che costruisce le pire funerarie nel campo di cremazione. Baniju cercherà di convincere Yashobati a fuggire e nella notte di plenilunio in cui l’astrologo aveva predetto che il vecchio sarebbe morto, avvolge Sitaram in una stuoia e tenta di gettarlo nel fiume. Ma la futura sati interviene in difesa del brahmano in fin di vita. Durante la (scandalosa) colluttazione con l’intoccabile, Yashobati viene trascinata insieme al marito nelle acque del Gange da un’improvvisa piena del fiume. Antarjali Jatra è un film sui sentimenti fondamentali degli esseri umani, con una forte intensità drammatica che non scade mai nel melodramma. Ambientato quasi in un'unica location, la riva desolata e fangosa del fiume, che ricorda un teatro antico con i suoi molteplici piani, Ghose ha usato in maniera magistrale la luce, lo spazio, il movimento e il colore per dare la forza di una tragedia greca alla sua storia.
    L’ultima opera di quel felice periodo creativo è Padma Nadir Mahji (Il barcaiolo del fiume Padma, 1992), adattamento cinematografico di una novella di Manik Bandhopadhyay, che ottenne il premio UNESCO per i valori umani a Cannes. La prima parte del film ritrae in modo quasi documentaristico la travagliata esistenza dei pescatori che vivono sulle rive del Padma, un grande fiume che confluisce nell’intricato, lussureggiante ma inquietante delta del Gange. Il proprietario di molti degli isolotti deserti del delta è un singolare commerciante di fede musulmana, Hussein Mian (Utpal Dutt), il quale sogna di fondare su una di quelle isole una repubblica utopistica in cui tutti possano vivere liberi e senza discordie religiose. A causa di una tempesta, le barche e le capanne degli abitanti del luogo vengono distrutte, allora il generoso Hussein presta loro il danaro necessario per poter riparare i danni. Tra questi pescatori, Kuber (interpretato da uno dei più noti attori del Bangladesh, Raisul Islam Asad), per ripagare il debito traghetta la nave da carico del suo benefattore verso Moyna, l’isola dove Hussein vorrebbe realizzare il suo paradiso terrestre. Accade poi che Kuber si innamori della cognata Kapila (Rupa Ganguly) e che il pretendente della donna accusi per vendetta il barcaiolo di un furto che non ha commesso. Per sfuggire alla cattura, Kuber, seguito da Kapila, si rifugia sull’isola di Hussain, con la speranza di poter iniziare una nuova vita. Questo film, di rara bellezza visiva e con chiare valenze simboliche - il Padma rappresenta il fiume della vita, mentre la figura femminile allude all’eterno mistero delle forze della natura - può essere considerato un fervido appello all’armonia tra hindu e musulmani: non a caso, fu realizzato mediante una co-produzione tra Bangladesh e lo Stato del Bengala.
    Patang (L’Aquilone, 1993), è un film con un titolo emblematico - come il volo degli aquiloni anche le aspirazioni umane verso valori elevati sono condizionate da casi fortuiti - ed è una denuncia della convivenza tra gruppi politici, polizia e criminalità. Far volare il suo aquilone è lo svago preferito di Somru (Syed Shafiqe, interprete nel 1988 di Salaam Bombay di Mira Nair), un ragazzino che vive una situazione familiare avvilente: la madre, la vedova Jinti (Shabana Azmi) è costretta a convivere con Mathura (Om Puri), capo di una piccola banda di malfattori. Mathura, per “migliorare” il futuro della gang, si allea con alcuni politici corrotti ed usa Somru per depistare l’attenzione degli impiegati ferroviari durante i suoi furti dai vagoni dei treni merce.

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    Gudia (La Bambola, 1997) è un film originale, con un’idea di base affascinante, ed è anche un omaggio alla tradizione del teatro popolare indiano, oltre che un’accusa, ma con i toni di una fiaba, della corruzione politica. Il giovane musicista Johnny lavora in un teatro, dove un vecchio attore ventriloquo si esibisce con una bambola “parlante”. La bellissima bambola a grandezza naturale ha il nome di una delle apsaras (lett. “essenza dell’acqua”, ninfe celesti), Urvashi, la protettrice degli amanti protagonista del celebre dramma di Kalidasa Vikramorvashi (L’Eroe e la Ninfa). In punto di morte, il ventriloquo, che ha trasmesso la sua arte al musicista, affida la preziosa Urvashi al suo allievo, il quale si trasferisce a Bombay. Qui Johnny viene coinvolto nelle trame di un losco politico che vorrebbe utilizzare Urvashi come richiamo per la sua campagna elettorale. Ma durante un Convegno, la bambola si rifiuta categoricamente di parlare a favore del politicante, di conseguenza viene fatta a pezzi dalle guardie del corpo di quest’ultimo. Dopo aver affidato alle acque della baia i resti di Urvashi, simbolo della donna ideale, Johnny si ricongiunge con la sua fidanzata.
    In Dheka (Percezioni, 2001), caratterizzato da una raffinata e innovativa ricerca formale, si ritraggono le speranze, le aspirazioni ed i fallimenti di un’intera generazione di uomini di cultura bengalesi, attraverso i ricordi di Shashibhushan, un vecchio poeta divenuto cieco (Soumitra Chatterjee), che vive insieme alla figlia del suo maestro in una vecchia casa aristocratica di Calcutta.
    Abar ariannye (Ancora nella Foresta, 2003) è l’opera concettualmente più laboriosa di Ghose. Da parecchio tempo il regista aveva in mente di girare un road movie, una storia cioè che si svolgesse intorno ad un viaggio, il simbolo più tangibile delle trasformazioni interiori. Come già accennato, nel 1999 Ghose realizzò uno splendido documentario sulla vita del Maestro bengalese. Visionando l’imponente opera di Manik rimase affascinato da Aranyer Din Ratri (Giorni e Notti nella Foresta, 1970). Ghose ha “continuato” il film di Ray chiedendosi come si sarebbero comportati in una situazione analoga e più di trent’anni dopo quegli stessi intellettuali, ormai inseriti in un mondo profondamente cambiato e con alle spalle i loro sogni di gioventù. Il film ha un breve prologo in cui sono presentati i personaggi - interpretati dagli stessi attori di Aranyer Din Ratri - visti attraverso brani tratti dal film del Maestro, intercalati e legati con le sequenze girate ai giorni nostri. Ghose ha “completato” alcune delle storie individuali che erano presenti nel film di Ray: ad esempio, i due attori principali, Ashim e Aparna, interpretati da Soumitra Chatterjee e Sharmila Tagore, nel frattempo si sono sposati ed hanno avuto due figli.
    Tre dei sopravvissuti del vecchio gruppo di idealisti decidono di ritornare nella foresta accompagnati adesso da mogli, figli, nuore e nipoti. Di fatto, è il viaggio di più generazioni che hanno elementi esterni comuni ed elementi discordanti a livello interiore. Infatti, per quanto riguarda la tessitura narrativa del suo film Ghose ha parlato di una symphonic structure, ossia di una storia corale, suddivisa in due parti. La prima, più rarefatta e statica - che, a detta del regista, tiene conto della rappresentazione della borghesia inetta del teatro di Cecov - è una descrizione psicologica dei personaggi mentre sono impegnati nella tipica adda, l’abitudine tutta bengalese di discutere con disinvoltura e senza impegno su qualunque tipo di argomento. Poi, nella seconda parte, la realtà e l’azione prendono il sopravvento. La sensibile figlia di Ashim e Aparna, Amrita - interpretata da Tabu, ossia Tabassum Hashmi, un’attrice molto versatile e oggi ampiamente affermata, nipote di Shabana Azmi - che non riesce ad accettare le ingiustizie del mondo, scompare nella foresta. Dopo inutili ricerche, ad Ashim giungono due lettere. Nella prima, Amrita rivela di aver tentato il suicidio gettandosi nel fiume, ma di essere stata salvata dagli indigeni della zona tribale, presso cui adesso si trova e dove ha riacquistato fiducia in se stessa. Prega il padre di aiutare i suoi soccorritori perché sono molto poveri. Nella seconda, il vecchio maestro del villaggio, presso cui Amrita è ospite, chiede 300.000 rupie, quasi un riscatto, fiducioso che Ashim, ricco industriale progressista, vorrà contribuire con quella somma ad alleviare le loro sofferenze. Invece, il maestro viene denunciato da Ashim ed arrestato dalla polizia. In una “scena di confronto” con i tre maturi intellettuali, il maestro spiegherà loro il suo comportamento e di conseguenza li porrà di fronte al loro fallimento umano. Il film, presentato al Festival di Venezia, ha avuto come direttore della fotografia lo stesso Ghose, il quale ha anche curato la parte musicale originale, mentre per il repertorio sono stati utilizzati brani di Tagore, Salil Chowdhury, Kaji Najrul Islam, Leonard Cohen e Francesco Guccini, le cui differenze culturali e temporali esprimono gli stati d’animo degli interpreti, appartenenti appunto a generazioni diverse.
    L’ultimo film di Ghose, Yatra (Il Viaggio, 2006), ha una struttura narrativa circolare che ricongiunge il presente al passato. Uno scrittore affermato, Dasrat (Nana Patekar), si sta recando a Delhi per ritirare un premio letterario. Sul treno incontra un cineasta suo ammiratore che è incuriosito da uno dei più noti racconti di Dasrat, in cui si narra dell’incontro di un letterato con Lajvanti (Rekha), celebre danzatrice cortigiana. Dopo aver ricevuto il premio, Dasrat pronuncia un discorso di commiato che suona come un testamento spirituale. Poi lo scrittore si reca a Hyderabad e lì si scoprirà che la novella era realmente autobiografica. Dasrat rivede per l’ultima volta Lajvanti, ormai decaduta di rango, e morirà nella sua casa.
    Sandip Ray, nato nel 1953, si è occupato di fotografia, di grafica e di pubblicità, per poi diventare il miglior assistente del padre, Satyajit Ray, in Shatraj ke Kilari (1977) e in tutti gli ultimi film del Maestro bengalese. Il giovane Ray esordì nella regia con Phatikchand (Phatik e l’Impostore, 1983) per proseguire, dal 1983 al 1986, con due serie televisive e tornare allo schermo con il divertente Goopy Bagha Phire Elo (Il Ritorno di Goopy e Bagha, 1991), sequel di Goopy Gyne Bagha Byne (Le Avventure di Goopy e Bagha, 1969). Ancora ricavato da una storia scritta dal padre, un film interessante realizzato nel 1993, Uttoran (Il Viaggio Interrotto), a cui si aggiunge nel 1995 un altro film notevole, Target, una rivisitazione, con lo sguardo di un autore, di alcune tematiche care al cinema hindi del mainstream. Sandip Ray, benché non sia considerato un innovatore del linguaggio filmico, è tuttavia molto apprezzato dalla critica per la sua capacità nell’utilizzare il mezzo cinematografico e per la qualità dei soggetti dei suoi film, tutti ben costruiti narrativamente.
    Rituparno Ghosh è ritenuto attualmente tra i più interessanti e prolifici autori bengalesi e del Cinema indiano in genere. Nato nel 1961, figlio di un regista di documentari, laureato in Economia e proveniente dal mondo della pubblicità, della documentaristica e delle serie televisive, Ghosh ha sempre avuto anche una spiccata predilezione per la Storia. Questo autore, che ha esordito con un film dedicato ai bambini, Hirer Angti (L’Anello di Diamante), è apprezzato per la sua particolare abilità nel descrivere tutte le sottigliezze emotive che interagiscono nei rapporti umani e per il suo costante interesse al ruolo riservato alle donne nella società indiana, come ha subito dimostrato in film quali Unishe April (19 di Aprile, 1994), Dahan (Fuoco incrociato, 1997) e Asookh (Malessere, 1999). Uno dei suoi film più belli, Bariwali (La Signora della Casa, 1999) - che per alcuni aspetti ricorda Jalsaghar (1958) di Ray - sembra un preludio ad una delle sue opere successive, Chokher Bali. Infatti, la trama di Bariwali si basa sulla realizzazione, all’interno di una vecchia residenza nobiliare, di un film tratto dalla novella del 1903 Chokher Bali (Sabbia negli occhi) di Rabindranath Tagore, una storia che fu portata per la prima volta sullo schermo nel 1938 da uno dei pionieri del cinema bengalese, il cosmopolita Satu Sen (1902-1972). In questo caso, la proprietaria dell’antico palazzo, Banalata Datta (Kiran Kher), una matura signora di discendenza reale, nubile e dal carattere molto schivo e sensibile, viene convinta dal regista a mettere a disposizione per le riprese la sua bella e fatiscente dimora. Dopo molte esitazioni, e dopo essere stata conquistata dalla lettura del racconto di Tagore, Banalata acconsentirà, anzi la presenza della troupe sembra darle nuova vita. Infine, il clima instauratosi con i “cinematografari” è talmente affettuoso e amichevole da farle vincere la timidezza, tanto da accettare di recitare una piccola parte nel film. Ma il suo sogno di essere sfuggita alla solitudine grazie a quei nuovi amici, si infrangerà brutalmente quando scoprirà che l’unica scena in cui è apparsa è stata tagliata nel montaggio definitivo del film. Segue Utsab (La Festa, 2000), ambientato anche stavolta in un’antica dimora in cui, in occasione della grande festa della dea Durga (Durga Puja, tra l’8° e il 9° giorno del mese di Ashvina, settembre-ottobre), si riunisce intorno alla vecchia matriarca - in procinto di vendere controvoglia la casa, simbolo dell’unità, dei valori e del prestigio della famiglia - la tipica joint family indiana, composta da individui appartenenti a varie generazioni, ognuno con le sue problematiche esistenziali. Successivamente, Ghosh dimostra di potersi esprimere artisticamente con toni leggeri e con un certo umorismo in Titli (Il primo giorno del monsone, 2002), film sulla rivalità tra una madre e una figlia - Aparna Sen e sua figlia Konkona Sen Sharma - a causa di un divo del Cinema, rispettivamente ex fidanzato della madre e attore idolatrato dalla figlia. Ma ogni incomprensione alla fine sarà superata e l’amicizia e la solidarietà tra le due donne sarà ancora più salda. Uno dei film migliori di Ghosh, Chokher Bali-A Passion Play (2003), si discosta dall’opera originale di Tagore per alcune modifiche nell’ambientazione. Il regista ha avuto la felice intuizione di inserire come sfondo della trama principale, imperniata sul personaggio femminile di Binodini, il background storico, ovvero la tumultuosa situazione socio-politica creatasi con la prima divisione del Bengala voluta da Lord George Curzon. Binodini, interpretata in maniera molto intensa da Aishwarya Rai (una delle star più amate di Bollywood) è una ragazza intelligente e passionale che lotta contro una società chiusa e conservatrice per cambiare il suo triste destino di vedova. L’amica del cuore della colta Binodini è l’infantile e passiva Ashalanta (interpretata da Raima Sen), sposata con l’altrettanto tradizionalista Mahindra, nella cui casa l’impoverita vedova è stata accolta. Entrambe le ragazze si sono date un soprannome ambivalente, chokher bali, un’espressione per loro affettuosa, ma che invece si dovrebbe attribuire ad una persona antipatica (“sabbia negli occhi” in Bengala è il corrispettivo del nostro “fumo negli occhi”). Il sogno di Binodini è di conquistare l’inaccessibile amico di Mahindra, Behari, un idealista impegnato nella lotta contro la divisione del suo Paese, il quale viene rappresentato (anche nell’aspetto esteriore) come un “doppio” del giovane Tagore. A rimanere ammaliato da Binodini non sarà però l’inflessibile Behari, ma il marito di Asha. Binodini, che dietro il temperamento impetuoso nasconde uno spirito nobile, scompare dalla scena per non sconvolgere la vita della sua amica. Nella conclusione del film si intuisce che Binodini si è unita ad un gruppo clandestino di nazionalisti, quasi che la sua voglia di libertà sia parallela o coincida con il desiderio d’indipendenza che in quel momento stava nascendo in ogni parte dell’India. Choker Bali nonostante sia un film che per sontuosità formale e spettacolarità può essere gradito anche ad un pubblico molto vasto, ha come riferimento Satyajit Ray, tanto che il regista ha reso diversi omaggi al suo Maestro ideale, tra i quali, uno esplicito: la citazione di una nota scena di Charulata (1964) in cui la protagonista osserva con distacco la realtà che la circonda attraverso le lenti di un binocolo da teatro. Nello stesso anno Ghosh gira un film completamente diverso, Shubho Muharat (Il Primo Ciak), un giallo ambientato nel mondo del Cinema che ha come interpreti Sharmila Tagore e Nandita Das, nota attrice, basti ricordare Fire (1996) e Earth (1998), entrambi di Deepa Mehta, nonché danzatrice di Odissi, regista e attivista sociale. Il tema del film successivo, Raincoat (2004), con ancora Aishwarya Rai come protagonista, è intimista (con alcuni colpi di scena), lo stesso genere delle prime opere di Ghosh. Poi il regista rivisita con successo un soggetto storico in Antar Mahal (Le Stanze Segrete del Palazzo, 2005), dove un signore feudale, privo di discendenti, contrae un altro matrimonio, scatenando così la gelosia della prima moglie (Rupa Ganguly) e gli intrighi dei brahmani che lo circondano. Nello stesso tempo, il vanitoso signorotto ambisce ad un titolo nobiliare inglese. A tale scopo, vorrebbe che la statua di Kali, su cui sta lavorando il suo artista di fiducia (Abishek Bachchan, affermato attore di Bollywood, figlio di Amitabh, la super star per antonomasia del Cinema indiano), abbia il volto della regina Vittoria. Lo scultore, invece, ritrarrà le fattezze della nuova giovane moglie del committente, la quale, essendo stata violata l’impenenetrabilità del purdah, si suiciderà. Come Raincoat, dal punto di vista formale l’ultimo film di Ghosh, Dosar (Il Compagno, 2006), potrebbe essere definito minimalista, essendo girato in bianco e nero, solo in interni e con macchina da presa quasi sempre fissa. La storia è sostenuta dalla sottigliezza dei dialoghi - l’interprete femminile è la ormai bravissima Konkona Sen Sharma - ed è interessante per i suoi aspetti psicologici ed emotivi: si tratta del riavvicinamento, dopo un grave incidente automobilistico, di una coppia separata.
    Vi sarebbero numerosi altri registi bengalesi, che si distinguono per l’inventiva del linguaggio visivo e per l’originalità dei temi affrontati nei loro film, di cui si dovrebbe parlare. In questa sede, si possono solo indicare i nomi di alcuni di essi: Saikat Bhattacharya, Malay Bhattacharya, Anjan Das, Raja Mitra, Raja Sen e, tra le ultime generazione, Saturapa Sanyal, scrittrice, attrice e pittrice, Ashoke Viswanathan e Subhadro Chowdhury.

    A domani con la quinta parte di questo megaspeciale e con un nuovo capitolo sul cinema indiano!! :festa: :festa:


     
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25 replies since 30/9/2007, 21:10   2782 views
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