STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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    A tutti i MICI aMICI rieccoci con un altro, e stavolta lunghissimo appuntamento, con un' altro dell' intero cinema asiatico! Stasera affronteremo la prima parte del nostro personale dossier sul cinema indiano! Senza aspettare tempo, iniziamo subito!! :woot:

    CAPITOLO 1: INTRODUZIONE AL CINEMA INDIANO



    La pluralità espressiva del cinema indiano può essere apprezzata considerando che nel Paese sono ufficialmente riconosciute dalla Costituzione numerose lingue, con la loro letteratura scritta e orale. Ogni anno vengono prodotti film in almeno dodici di queste lingue, con buoni riscontri sia di pubblico sia di critica. L’hindi, lingua originaria della pianura del Gange, nell’I. settentrionale, è compresa e parlata da circa un terzo della popolazione ed è la lingua ufficiale dell’Unione Indiana dal 1950, dell’apparato burocratico statale e della televisione di Stato.


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    La sua diffusione è dovuta anche alla popolarità del cinema commerciale prodotto a Bombay (recentemente rinominata Mumbai). Ma il cinema d’autore si esprime anche in altre lingue: bengalese nel Bengala, malayàlam nel Kerala, kannaÿa nel Karnataka, tamil nel Tamil Nadu e telugu nell’Andhra Pradesh. Più del 15% della popolazione ha una conoscenza di base della lingua inglese, parlata e scritta; nonostante ciò la penetrazione del cinema statunitense è piuttosto contenuta (intorno al 10% del mercato) così come quella del cinema europeo, presente in una percentuale del 2%. Esiste pertanto una pluralità di cinematografie che definisce il vasto cinema del subcontinente.

    Dalle origini agli anni Ottanta



    Fin dal 1896 ebbero luogo a Bombay proiezioni del Cinématographe Lumière e dall’anno successivo vennero importati regolarmente film europei. Dopo l’opera per lo più documentaristica di pionieri quali Harischchandra Sakhran Bhatvadekar, F.B. Thanavalla, Jamshedji Framji Madan, Ramchandra Gopal Torney, nel 1913 Dhundiraj Govind Phalke girò il primo film indiano di fiction, Raja Harishchandra (Il re Harishchcandra), inaugurando un genere che ebbe grande successo in tutto il Paese, il filone mitologico ispirato alle epopee nazionali Ràmàyaîa e Mahàbhàrata. I circa 1300 film girati all’epoca del muto da cineasti quali Dhirendranath Ganguly, Debaki Kumar Bose, Chandulal Jesangbhai Shah, quasi totalmente perduti, manifestano già pienamente temi e generi che saranno propri di tutto il periodo successivo, fino alla produzione recente: oltre al mitologico, il genere storico e quello di ambientazione moderna, con temi quali la divisione in caste, il contrasto tra città e campagna e l’istituzione familiare.
    Negli anni Trenta Ardeshir Marwan Irani girò in lingua hindiil primo film indiano sonoro, Alam ara (1931; La luce del mondo). Anch’esso perduto, conteneva diverse canzoni, secondo uno schema che sarebbe diventato ben presto quasi obbligato e che si rifà alla tradizione lirica del teatro sanscrito e a quella del dramma popolare, basato sull’alternanza di canti e danze in funzione fortemente emotiva. Il cinema indiano divenne così uno spettacolo largamente popolare, anche se il suo consumo, proprio per le caratteristiche dette, si limitava al mercato interno. Non di rado la produzione di film, distinti secondo le diverse zone linguistiche, era coordinata con l’industria discografica, e i manifesti della pubblicità cinematografica segnalavano a grandi caratteri l’autore delle canzoni (il cui numero originario di circa quaranta per film è sceso in tempi recenti a quattro o cinque).
    Dal 1931 al 1935 la produzione venne quasi decuplicata (da 27 a 233 film), ma si frammentò nella molteplicità di lingue e dialetti parlati sul territorio nazionale (fu comunque il cinema in lingua hindia conquistarsi un’egemonia che avrebbe attraversato tutta la storia del cinema indiano, fino agli inizi del 21° secolo). Gli anni Trenta furono dominati da tre grandi case di produzione: la New Theatres Ltd di Calcutta, che produsse le commedie di D. Ganguly, i film religiosi di D.K. Bose (tra cui Seeta, del 1934, primo film indiano presentato alla Mostra del cinema di Venezia) e i film di Pramatesh Chandra Barua (tra cui il popolarissimo bhansali, 1935, storia di un amore impedito dalle differenze di casta); la Prabhat Film Company di Puna, fondata, tra gli altri, dal regista Rajaram Vankudre Shantaram (Kunku – Duniya na mane, 1937, L’inatteso) e da Vishnupant Govind Damle e Sheikh Fattelal, ai quali si deve il primo film indiano premiato in una competizione internazionale (a Venezia): Sant Tukaram (1936, Il santo Tukaram); la Bombay Talkies, fondata dall’attore Himansu Rai, che raccolse intorno a sé alcuni dei migliori giovani talenti (l’attore, poi regista, Raj Kapoor, l’attore Dilip Kumar, lo sceneggiatore, poi regista anch’egli, Khwaja Ahmad Abbas) e produsse film mitologici e drammi sociali. Negli anni Quaranta emersero numerosi produttori indipendenti, mentre decaddero le grandi compagnie che negli anni Trenta avevano prodotto film religiosi, mitologici o a sfondo sociale. Concorrenzialità e instabilità economica delle produzioni, parossismo del fenomeno divistico (il divo era ormai un vero e proprio oggetto di culto), imitazione dei film hollywoodiani e utilizzazione di finanziamenti provenienti da attività criminose, divennero le caratteristiche di una produzione in costante espansione (300 film alla fine degli anni Cinquanta), nella quale tuttavia si persero sempre più i legami con i problemi reali del Paese. Un anno prima dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, Abbas realizzò contro corrente Dharti ke lal (1946, I figli della terra), film a carattere sociale che venne mostrato a Londra, Parigi e Mosca. Al medesimo autore si deve nel 1954 il primo film indiano senza canzoni né danze, Munna (Il bambino perduto), e numerose sceneggiature di film di R. Kapoor, che innestano temi sociali sui moduli della commedia popolare in voga: Awara (1951, Il vagabondo), Shri 420 (1955, Il Signor 420). Altri autori di rilievo negli anni Cinquanta sono Bimal Roy (Do bigha zameen, 1953, Due ettari di terra, film influenzato dal Neorealismo italiano, e Sujata, 1959, sulla questione degli intoccabili), Guru Dutt (Pyaasa, 1957, L’assetato, e Kagaz ke phool, 1959, Fiori di carta) e soprattutto il bengalese Satyajit Ray, che con Pather panchali (1955, Il lamento sul sentiero) segnò l’inizio di un profondo rinnovamento non solo della cinematografia bengalese in crisi ma dell’intero cinema indiano. Premiato al Festival di Cannes del 1956, Pather panchali aprì così la carriera di uno dei massimi cineasti del dopoguerra (Aparajito, 1956, L’invitto; Parash pathar, 1957, La pietra filosofale; Apu sansar, 1959, Il mondo di Apu; Devi, 1960, La dea), mostrando la possibilità di un cinema indiano d’autore fuori dai rigidi schemi dei generi.
    Quella del cinema indiano divenne allora la storia della progressiva affermazione del cosiddetto cinema parallelo accanto al tessuto del cinema commerciale, straordinariamente stabile e indenne dalle crisi vissute dagli altri mercati cinematografici internazionali. Insieme a Ray, un altro grande regista bengalese, Ritwik Kumar Ghatak, esordì negli anni Cinquanta raggiungendo la piena maturità nel decennio successivo (anni Sessanta) con opere polemiche, intense e violente (Ajantrik, 1957, Il vagabondo; Meghe dakha tara, 1960, La stella velata di nubi; Subarna Rekha, 1962, Il fiume Subarna Rekha), in cui il destino d’intellettuale dell’autore s’intreccia indissolubilmente con quello di un popolo intero, diviso tra I. e Pakistan. Alla base del moderno cinema indiano, Ghatak divenne un punto di riferimento, umano e politico oltre che artistico, della nouvelle vague che nacque all’inizio degli anni Settanta. Presso il Film Institute di Puna furono suoi allievi Kumar Shahani (Maya darpan, 1972, Lo specchio dell’illusione; Tarang, 1984, Vibrazioni), Adoor Gopalakrishnan (Swayamvaram, 1972, La propria scelta; Kodiyettam, 1977, L’ascesa; Elippathayam, 1981, Trappola per topi) e soprattutto Mani R. Kaul, autore anticonvenzionale e intransigente, legato agli aspetti più profondi della filosofia indiana, che si segnalò per un cinema severo, spogliato di qualsiasi orpello commerciale, ispirato alla lezione di Ozu Yasujirü e di Robert Bresson, e per questo di non facile diffusione. Tra i suoi film si ricordano Uski roti (1969, Il suo pane), ritratto di una moglie, Duvidha (1973, Indecisione), da un racconto tradizionale indiano, Satah se uthata admi (1980, Emergendo dalla superficie) che riflette sul rapporto tra cinema e linguaggio verbale.
    Il nuovo cinema fu legato in gran parte ai finanziamenti della Film Finance Corporation (1960), che dal 1968 si dedicò interamente alla promozione dei giovani autori. Tra di essi da citare ancora Govindan Aravindan (Kanchana Seeta, 1977, La Sita d’oro, moderna trasposizione del Ràmàyaîa), Girish Raghunath Karnad (Kaadu, 1973, La foresta; Ondanondu kaladalli, 1978, C’era una volta), Basu Chatterjee (Piya ka ghar, 1971, La casa del marito). Un posto a parte spetta a Shyam Benegal, dedito a un cinema di ampio impatto popolare e minor rigore autoriale, ricco di opere impegnate su temi sociali come l’oppressione della donna (Bhumika, 1976, Il ruolo; Kondura, 1977, Il talismano), i problemi della classe contadina (Ankur, 1973, Il germoglio; Nishant, 1975, L’alba), la corruzione dei ceti industriali urbanizzati (Kalyug, 1980).
    Gli anni Settanta, tuttavia, furono dominati da un altro regista bengalese che, dopo Ray, è considerato il più autorevole del cinema nazionale: Mrinal Sen, autore dalla carriera irregolare, iniziata negli anni Cinquanta e segnata, nel 1969, da un’opera cardine come Bhuvan Shome (Il signor Shome) che diede l’avvio alla nouvelle vague indiana. Con la ‘trilogia di Calcutta’ (Interview, 1970; Calcutta ’71, 1972; Padatik, 1973, Il guerrigliero), Sen affronta i problemi della disoccupazione e della miseria ispirandosi a B. Brecht e a Jean-Luc Godard. Anche i film successivi sono aperte denunce della miseria del Paese, dei problemi dell’urbanizzazione, dell’ipocrisia delle classi borghesi e dei retaggi feudali nell’I. coeva. Tra questi film, tutti segnati da una riflessione sottile sull’arte del cinema, si ricordano Chorus (1974), Mrigaya (1976, La caccia reale), Oka oorie katha (1977, Storia di villaggio), Chaalchitra (1981, Caleidoscopio), Khandhar (1983, Le rovine), il film televisivo Tasveer apni apni (1984, Detto francamente), Genesis (1986). Originario del Bengala è anche Buddhadev Dasgupta, intellettuale di formazione marxista (prima di dedicarsi al cinema insegnava economia all’università di Calcutta) che nel 1978 firmò la sua opera prima, Dooratwa (La lontananza), dimostrando quella notevole sensibilità artistica che lo porterà, venti anni dopo, a conquistarsi l’apprezzamento della critica occidentale.
    Gli anni Ottanta hanno visto l’affermarsi di nuovi talenti come Ketan Metha (Bhavni bhavai, 1980, Una storia di cantastorie), Govind Nihalani (Aakrosh, 1980, Rabbia) e Akhtar Saeed Mirza (Albert Pinto ko gussa kyon aata hai, 1980, Cosa fa andare in collera Albert Pinto), sempre più orientati verso un cinema capace di recuperare forme d’intrattenimento popolare. Vanno infine segnalati alcuni film indiani che hanno riscosso successo di critica nei festival internazionali: Ekti jiban (1990, Ritratto di una vita) di Raja Mitra; Salaam Bombay (1988; Salaam Bombay!) di Mira Nair, uscito con successo anche sugli schermi italiani; Ganashatru (1989, Un nemico del popolo) di S. Ray – che per tutti gli anni Settanta e Ottanta aveva continuato a realizzare opere di valore come Aranyer din ratri (1969, Giorni e notti nella foresta), Jana aranya (1975, L’intermediario), Ghare baire (1984, La casa e il mondo), e il cui ultimo titolo è Agantuk (1991, Lo straniero) – e infine l’eccellente Ek din achanak (1988, Improvvisamente un giorno) di M. Sen, partecipata riflessione sui veri valori della vita, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1989.


    Le tendenze recenti



    Negli anni Novanta vi è stato un notevole sviluppo dei film in lingua telugu, tamil, malayàlam, kannaÿa (circa il 60% della produzione globale), mentre il numero dei biglietti venduti si è attestato sui cinque miliardi annui. Di recente la distinzione tra cinema ‘parallelo’ e cinema ‘popolare’, ossia tra il cinema d’autore e quello commerciale, si è attenuata fino quasi a scomparire. Il termine Bollywood, con cui si è usato indicare il cinema commerciale in lingua hindi prodotto a Bombay, considerato da molti uno stereotipo negativo, ha dovuto la sua popolarità a una formula che amalgama melodramma, commedia, azione e soprattutto canzoni e coreografie. Tali film di consumo, popolati da eroi positivi, belle e virtuose eroine e venali ‘cattivi’, comprimono e proiettano le fantasie collettive, riproponendo, in forma semplificata, lo scontro tra il bene e il male, tra dei e demoni, presente nella mitologia indù. Il pubblico di questi film a volte ha raggiunto, in una settimana, i 70 milioni di spettatori, come nel caso di due campioni d’incassi degli anni Settanta: Sholay (1975, Fiamma) di Ramesh Sippy, un melodramma-western proiettato per cinque anni di seguito nei cinema di Mumbai, e Amar Akbar Antony (1977) di Manmohan Desai, storia di tre fratelli, separati dalla nascita, che si ritrovano adulti dopo aver adottato tre differenti religioni. In entrambi i film recita la superstar Amitabh Bachchan, divenuto l’indiscusso protagonista del cinema popolare hindi dei tre decenni successivi, con più di 120 film al suo attivo. Tra i successi più recenti, va ricordato Hum aapke hain kaun…! (1994) di Sooraj Barjatya, noto anche come Who am I to you?,scene di un matrimonio in un Paese che non vuole distaccarsi dai valori tradizionali, storia d’amore senza conflitti che ha come protagonista femminile Ma-dhuri Dixit, diva adorata da milioni di indiani.
    Negli anni Novanta l’I. ha vissuto, parallelamente a un rallentamento della crescita demografica, un rapido cambiamento culturale, dovuto anche all’apertura economica al mercato mondiale, con una forte crescita della televisione, anche via cavo e satellitare e l’arrivo di Internet. Nelle grandi città è emersa, insieme al cambiamento economico-sociale, una insoddisfazione per i contenuti ripetitivi dei film hindi prodotti a Bombay. Ma a fronte di questa richiesta non si è registrata una crescita significativa del cinema d’autore o ‘parallelo’. Mentre il cinema commerciale ha prodotto annualmente nell’ultimo decennio una media di 670-900 film (di cui circa la metà in hindi), la produzione di film d’autore non ha superato la media di 15-20 film. Secondo la più autorevole critica cinematografica indiana, A. Vasudev, la visibilità del cinema d’autore si è ridotta in alcuni casi alle proiezioni in occasione dell’annuale IFFI (International Film Festival of India). L’assenza di sale destinate a un cinema d’autore e di incentivi che ne favoriscano la distribuzione potrebbe aver provocato una disaffezione nel pubblico – eccetto in Kerala e nel Bengala, dove diverse facilitazioni hanno incoraggiato la distribuzione di questi film – segnando così il positivo ingresso di nuovi talenti orientati verso un ‘cinema medio commerciale di qualità’. È il caso di Mani Rathnam, regista leader del nuovo cinema prodotto a Madras, che in Bombay (1995) racconta i massacri ai danni della comunità musulmana della città, avvenuti nel 1992, in seguito alla distruzione della moschea di Ayodhya per opera di fanatici indù. A questa nuova categoria si possono ricondurre Santosh Sivancon The terrorist (1997), film che narra, ancora in lingua tamil, la crisi di una terrorista che all’ultimo momento rinuncia a commettere un attacco suicida contro un’alta personalità politica; Nagesh Kukunoor con Hyderabad blues (1997), commedia su un matrimonio combinato; Ram Gopal Verma, produttore e regista, con Satya (1998, Verità), ritratto del brutale mondo del crimine e dei politici corrotti di Mumbai; Dev Benegal che con il suo secondo film, Split wide open (1999, in lingua inglese e hindi presentato anche alla Mostra del cinema di Venezia), narra le tribolazioni di un ragazzo di strada (Rahul Bose, uno degli attori e registi più interessanti dell’ultima generazione) alla ricerca della sorella dodicenne, intrappolata nel giro della pedofilia di Mumbai.
    Lo stesso cinema indiano più commerciale sembra aver aderito a questa nuova tendenza verso temi più impegnati e controversi – guerra, terrorismo, nazionalismo e conflitti tra comunità religiose – anche attraverso il lancio di nuove star, come Hrithik Roshan, interprete di grandi successi, tra cui Kaho naa…pyaar hai (2000; E dillo… che mi ami) di Rakesh Rosham e Gadar – Ek prem katha (2001, Gadar – Una storia d’amore) di Anil Sharma, storia d’amore ambientata nel 1948, all’epoca del conflitto con il Pakistan e della nuova demarcazione dei confini tra i due Paesi. Sempre al cinema commerciale di qualità appartiene Lagaan – Once upon a time in India, (2001; Lagaan) di Ashutosh Gowariker, film in cui risultano fusi elementi tipici della cultura popolare – il gioco del cricket e il sentimento nazionalista antibritannico – e che ha ricevuto il riconoscimento sia della critica internazionale (la nomination all’Oscar per il miglior film straniero e il premio del pubblico al Festival internazionale di Locarno del 2001) sia del pubblico indiano (grazie anche alla partecipazione della star Aamir Khan, nella duplice veste di protagonista e produttore). Va anche ricordato Devdas (2002) di Sanjay Leela Bhansali, ennesimo adattamento cinematografico di uno dei romanzi più letti di Sarat Chandra Chatopadhye – scritto nel 1917 e portato sullo schermo da una decina di registi di fama, a partire dal 1928 – che si caratterizza per la sontuosa scenografia e la mirabile coreografia con cui viene raccontata l’intensa storia d’amore tra Devdas (interpretato dal popolarissimo Shahrukh Khan) e la sua amica d’infanzia Paro (Aishwarya Rai, eletta miss Mondo nel 2000), premiato come miglior film straniero dal BFTA (British Academy Film and Television Awards).
    Con il terzo millennio sono tornati sulla scena anche molti degli autori che avevano animato il cinema ‘parallelo’ degli anni Settanta e Ottanta. Alla Mostra del cinema di Venezia il bengalese B. Dasgupta ha vinto il premio come miglior regista con Uttara (1999), storia controversa di una donna isolata dal mondo maschilista, cui fanno da sfondo i conflitti etnico-religiosi fomentati dai fanatici indù. Autore di grande talento si è rivelato anche il bengalese Gautam Ghose con Dekha (2001, Percezioni), che ripercorre su molteplici piani narrativi la vita di un vecchio intellettuale di Calcutta, alle prese con la trasformazione della società bengalese, avvalendosi dell’interpretazione di Soumitra Chatterjee (protagonista di molti film di S. Ray). Zubeidaa (2001) di S. Benegal ha segnato il ritorno di un pioniere della nouvelle vague indiana al formato tradizionale del cinema storico-popolare; con un cast di star e le musiche di Allah Rakha Rahman, il compositore più innovativo e popolare dell’ultimo decennio.
    Alla cinematografia bengalese appartengono anche Aparna Sen, che, dopo il famoso 36 Chowrighee Lane (1981, in lingua inglese), ha diretto Mr. Mrs. Iye (2002, in lingua inglese), raccontando un viaggio attraverso i recenti conflitti tra indù e musulmani, e il decano del cinema d’autore, M. Sen, che nel 2002 ha firmato Aamar bhuvan (2002, La mia terra, in lingua hindi), storia di una donna (interpretata da Nandita Das) divisa tra due uomini in un villaggio del Bengala. Nello stesso anno è uscito anche Dweepa (L’isola) di Girish Kasaravalli, regista proveniente dal Karnataka e cresciuto con la new wave degli anni Settanta (nel 1977 aveva firmato Ghatasharaddha, Il rituale, considerata una delle migliori opere della storia del cinema indiano); il film, in lingua kannaÿa, premiato come migliore opera indiana del 2002, tocca in modo nuovo e intelligente temi quali la modernizzazione, la globalizzazione e lo sviluppo, raccontando la costruzione di una diga dal punto di vista di una famiglia il cui villaggio verrà sommerso dalle acque. All’esplorazione del recente passato sono invece rivolte due opere del 2002: Kannathil muthamittal (Un bacio sulla guancia) di Mani Ratman, regista della nuova generazione che rilegge, in lingua tamil, la storia dello Sri Lanka, Paese devastato da una ventennale guerra civile, attraverso gli occhi di una bambina srilankese adottata da una famiglia indiana; e Manda meyer upakhyan (2002, Storia di una cattiva ragazza, presentato al Festival di Berlino del 2003) di B. Dasgupta, che prende spunto dal viaggio del primo astronauta sulla Luna per raccontare poeticamente altri viaggi, con differenti destinazioni, e in particolare l’emancipazione di una bambina che vive con la madre prostituta in un bordello.
    Anche il già ricordato A. Gopalakrishnan, che resta una delle personalità più importanti del cinema d’autore del Kerala, ha continuato a produrre opere di rilievo, tra cui Nizhalkkuthu (2002, Ombre oscure), film ambientato nell’India non ancora indipendente, in un villaggio di frontiera, dove un boia è costretto a confrontarsi con un’ultima esecuzione d’impiccagione che sconvolgerà la sua coscienza. Tra i giovani autori di maggior talento occorre anche menzionare Revathy Asha Menon (Mitr my friend, 2001, in lingua inglese), Madhur Bhandarkar (Chandni bar, 2001, in lingua hindi),T.V. Chandran (Dany, 2002, in lingua malayàlam), il giovane regista Anup Singh (Ekti nadir naam, 2002, Il nome di un fiume, omaggio in lingua bengalese al cinema del regista R.K. Ghatak) e Jahnu Barua (Konikar ramdhenu, 2002, A cavallo dell’arcobaleno, in lingua assamese). Dal Kerala proviene anche Shaji Narayanan Karun, regista che dopo essersi segnalato con il suo film d’esordio, Piravi (1988), presentato in molti festival internazionali, ha realizzato nel 2002 la sua prima opera in lingua hindi, Nishad. In lingua telugu (Andhra Pradesh) sono invece i film del critico cinematografico K.N.T. Sastry, passato alla regia con Tiladaanam (2001, Il sacrificio)e di Anjan Das, regista di Saanjhbathir Roopkathara (2002, Tratti e silhouettes), con Soumitra Chatterjee nel ruolo di protagonista.
    Infine non va dimenticato il cinema indiano realizzato da registi non residenti in I., in cui spiccano tre donne: Mira Nair, originaria del Punjab e residente negli Stati Uniti, che ha confermato il successo di Salaam Bombay con il più recente Monsoon wedding (2001),divertente commedia matrimoniale ambientata nella borghesia di New Delhi (il film è stato premiato con il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia); Deepa Mehta, naturalizzata cittadina canadese, regista che dopo il successo internazionale con Fire, opera che ha dato luogo a molte controversie quando è stata presentata all’IFFI nel 1997 (ha dovuto attendere quattordici premi internazionali e due anni prima di essere distribuita nelle sale indiane, in quanto racconta una relazione lesbica, interpretata con grande efficacia da due attrici di talento, la nota Shabana Azmi e la giovane Nandita Das) ha offerto altre prove convincenti con Earth (1998), e Bollywood-Hollywood (2002), parodia del mondo del cinema dei due continenti; nel 2000 aveva inoltre iniziato le riprese di Water, interrotte per le proteste degli indù. E infine Gurinder Chadha, regista nata in Kenya ma di origine panjàbê, residente in Gran Bretagna e nota per il suo primo road movie, Bhaji on the beach (1993; Picnic alla spiaggia), che ha raggiunto il successo internazionale con Bend it like Beckham (2002; Sognando Beckham) presentato con successo anche nelle sale italiane.

    Questo paragrafo appena concluso non è stato altro che un assaggio di quello che andremo ad esaminare a fondo tra poco e in questi giorni, iniziamo proprio con i pionieri e le origini di questo cinema tanto affascinante quanto poco conosciuto ;)

    CAPITOLO 2: LA STORIA DEL CINEMA INDIANO



    L’era del muto (1896-1930) - PARTE PRIMA



    Alla fine del XIX secolo in India si mostrava un grande interesse per ogni nuova invenzione, in particolare per la fotografia, anche se la sua pratica era appannaggio di una élite progressista, occidentalizzata e benestante. Tra le classi popolari era invece diffuso un tipo di spettacolo, detto Shambarik Kharolika – ideato nel 1894 da alcuni artisti artigiani di Pune, Patwardhan e i suoi figli - derivante dall’antica arte dei cantastorie che illustravano con la poesia e la musica dei dipinti di soggetto storico-religioso. In sostanza, lo Shambarik Kharolika era del tutto simile all’antesignano del Cinema.: la Lanterna Magica.
    “The Marvel of the Century”, così The Times of India commentava lo stupore suscitato negli spettatori dalla proiezione dei filmati dei fratelli Lumière, svoltasi il 7 luglio del 1896 presso il Watson’s Hotel di Bombay. I documentari provenienti dalla Francia erano stati presentati per la prima volta a un pubblico indiano da Maurice Sestier, operatore dei Lumière, in giro per il mondo per far conoscere le “fotografie animate” dei due inventori parigini. Erano trascorsi solo sette mesi dalla prima apparizione a Parigi, il 28 dicembre 1895, di quella grande novità tecnico artistica. In quell’occasione Clément Maurice, “concessionario del Cinematografo Lumière per Parigi e zone limitrofe”, adattò e fece arredare come un divan oriental il sotterraneo del Grand Cafè dell’Hotel Scribe del Boulevard des Capucines, battezzandolo, quasi profeticamente, Salon Indien: infatti, oggi il Cinema indiano, almeno dal punto di vista quantitativo, è il più importante del mondo.

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    Gli effetti dello spettacolo del Watson’s Hotel furono quasi immediati. Harishchandra Sakharam Bhatavdekar (1868-?), detto Save Dada, titolare di uno studio fotografico, intuì le potenzialità del nuovo mezzo visivo e dal 1899, con The Wrestler e Man and Monkey, inizia la sua attività documentaristica i cui titoli più rappresentativi sono: Return of Wrangler Paranjpye (1901), sul rientro in patria del Ministro della Cultura della Presidenza di Bombay, Raghunath Paranjpye, noto matematico che aveva ottenuto i massimi riconoscimenti universitari a Cambridge, e Delhi Durbar of Lord Curzon (1903), in cui si documenta il Durbar (Udienza pubblica) indetto dal Governatore Generale britannico, George Curzon, per l’incoronazione in India di Edoardo VII.
    Nello stesso periodo, nel Bengala il Cinema attrae Motilal e Hiralal Sen (1866-1917), i quali, dopo aver costituito la Royal Bioscop Company, oltre a riprese documentaristiche e d’attualità – ad esempio Moving Pictures of Natural Scenes and Religious Rituals (1899), Indian Life and Scenes (1903), The Bengal Partition Film (1905) e Grand Delhi Coronation and Durbar (1912) – iniziano a proporre film che riprendono dal vivo spettacoli di teatro e danza, quali Dancing Scenes from the Flowers of Persia (1898)e Scenes from Alibaba (1901).
    Ai filmati dei Lumière si aggiunsero quasi subito quelli di Georges Méliés, presto seguiti da ondate continue di prodotti cinematografici provenienti dall’Inghilterra, dall’America, dalla Francia, dalla Germania, dalla Danimarca e anche dall’Italia. Tuttavia, tali opere descrivevano un mondo estraneo e poco noto alla maggioranza degli indiani: era necessario proporre storie che fossero radicate nella realtà del Paese, capaci cioè di coinvolgere emotivamente il pubblico. I punti di riferimento della nascente cinematografia indiana furono, di conseguenza, le forme popolari e regionali di rappresentazione: il jatra (del Bengala), il tamasha, il talim e il lavani (del Maharashtra), il nautanki (dell’India centrale)e lo yakshagana (del Karnataka e, in generale, di tutto il Sud del Paese). I soggetti erano ricavati, prevalentemente, dalle mitologie del Mahabharata, del Ramayana e dei Purana - poemi epico religiosi e testi sacri della tradizione - o da episodi della vita del dio Krishna, oppure da quelle dei santi e dei devoti. Tali storie, note a tutte le genti dell’India, erano spesso proposte nelle versioni del teatro parsi, nato nella metà del XIX secolo per iniziativa delle comunità parsi - i seguaci di Zoroastro scappati dalla Persia nell’VIII secolo e rifugiatisi in India - i cui soggetti spaziavano dal genere storico al melodramma, dalla mitologia agli adattamenti del teatro elisabettiano. Altri spunti erano forniti dall’epopea dei Rajput, gli indomiti guerrieri del Rajasthan, e da avvenimenti notevoli accaduti durante l’impero Moghul (1526-1858). Altri film avevano temi moderni, con particolare attenzione al messaggio “sociale” e politico delle storie narrate. Solo una ristretta minoranza di tale produzione aveva per riferimento i consueti “generi occidentali”. In sintesi, queste scelte narrative ed estetiche erano una affermazione dell’identità del Paese e una manifestazione del proprio orgoglio culturale, oltre ad essere una celebrazione della ricchezza e della profondità dell’eredità classica della Nazione. Ancora oggi i punti di riferimento base di buona parte della cinematografia indiana rimangono quelli stabiliti dai pionieri dell’Età del Muto.
    Agli inizi del Novecento le proiezioni erano spesso effettuate nei maidan, campi sportivi e parchi pubblici. Tra i primi ad organizzare tali spettacoli si annoverano due italiani, Colorello e Cornaglia, che nel 1898 allestivano le loro tende nell’Azad Maidan di Bombay. Vi erano inoltre delle compagnie itineranti che percorrevano tutto il sub continente per portare la Meraviglia del Secolo nei villaggi. Le prime sale cinematografiche stabili furono quelle di Bombay nel 1896, di Calcutta nel 1898, il Novelty Theatre, e di Madras nel 1900, il Gaiety. Come in Occidente, anche in India si era soliti accompagnare le immagini con un commento musicale dal vivo. Alcuni cinematografi avevano una zona destinata alle sole donne, per ottemperare alle consuetudini induiste e musulmane del purdah (o parda, lett. “cortina”) e della zenana.
    Il primo cortometraggio di finzione narrativa, Bhakta Pundalik, fu proiettato a Bombay il 18 maggio 1912. Attribuito a Ram Gopal Torney (Torne), fu realizzato, più probabilmente, da Nanabhai Govind Chitre, gestore del Coronation Cinematograph di Bombay, e da P.R. Tipnis, distributore cinematografico di Delhi. Pundalik, la vita dell’omonimo santo hindu venerato nel Maharashtra, era un adattamento cinematografico di 45’ di un opera teatrale di Ramrao Kirtiker, messo in scena dalla Shipad Sangit Mandali di Nasik.
    Il primo film considerato completamente indiano fu però proiettato il 21 aprile e il 3 maggio 1913 a Bombay: Raja Harishchandra, prodotto, scritto, filmato e diretto da Dundhraj Govind Phalke (1870-1944), noto come Dada Saheb Phalke, considerato il padre fondatore dell’industria cinematografica indiana. Phalke apparteneva ad una erudita famiglia di brahmani (sacerdoti) ed era estremamente eclettico e determinato. Studiò ogni tipo di arte, in particolare l’architettura, per poi dedicarsi alla fotografia e, con lo pseudonimo di Professor Kelpha, ai giochi di prestigio e alla magia. Effettuò anche viaggi di specializzazione in Germania e Inghilterra. Nel 1910 (o nel 1911) rimase impressionato da La Vita di Cristo, della regista francese Alice Guy. Essendo un fervente patriota aderente al movimento nazionalista swadeshi (swa=proprio e deshi=del paese), dopo aver fondato la Phalke’s Films, decide di trasporre in pellicola le vicende degli dei e le gesta degli eroi della mitologia indiana. La storia di Harishchandra, che rinuncia al suo regno per amore della Verità, è infatti uno degli episodi più celebri del Mahabharata ed è narrata nel Markandeya Purana e nello Yogavasishta. Il film, girato a Varanasi con attori non professionisti e della durata di due ore, ebbe un successo clamoroso. Raja Harishchandra era costruito in base a un lessico cinematografico che aveva per riferimento visivo le oleografie di Raja Ravi Varma (1848-1906), un membro della dinastia regnante nello stato di Travancore, il quale si era ispirato alla pittura vittoriana, filtrata dall’arte popolare autoctona. Phalke per tutta la durata della sua carriera continuerà a proporre soggetti mitologici e devozionali: Mohini Basmasur (1914), in cui per la prima volta compaiono due donne, Kamalabai Gokhle e la madre Durgabai (in Raja Harishchandra il ruolo femminile era stato interpretato da Annà Salunke, un giovane cuoco), Satyavan Savitri (1914), Lanka dahan (Il rogo di Lanka, 1917), tratto dal Ramayana, Satyavadi Raja Harishchandra (1917, remake del film del 1913), Shri Krishna janma (La nascita di Krishna, 1918), Kalya mardan (L’annientamento del serpente Kalya, 1919), Sant Tukaram (1921), Sant Namdev (1922), Sant Eknath (1926) e Bhakta Pralad (1926).


    L’era del muto (1896-1930) - PARTE SECONDA



    Nel 1818 Phalke aveva già fondato a Nasik la Hindustan Film Company e gli era stato anche proposto di lavorare all’estero. Phalke preferì rimanere in patria, dove produsse e diresse quarantaquattro film, tra cui l’importante documentario didattico How Films Are Prepared (1917). Tuttavia, con il passare degli anni la sua attività venne dimenticata, anche se oggi il maggior riconoscimento cinematografico indiano porta il suo nome.
    L’opera prima di Phalke fece nascere anche il primo film bengalese, Satiawadi Raja Harishchandra (1917), diretto da Rustomji Dotiwali e prodotto da Jamshedji Framji Madan, fondatore nel 1919 della potentissima Casa Cinematografica Madan Theatres. E’ di nuovo la mitologia a ispirare il secondo film del Bengala, Ram Vanvas (L’esilio di Rama, 1918), il primo esempio di serial in quanto formato da quattro parti, per la regia di Ram Patankar.


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    L’anno successivo appare un altro filmato di soggetto religioso, Bilwamangal, anche questo per la regia di Dotiwale. Nel 1920 la Madan propone ancora una storia epico-religiosa tratta dal Mahabharata, Nala Damayanti, affidando la regia all’italiano Eugenio De Liguoro. Tuttavia, sempre nel Bengala, iniziano ad apparire film meno “convenzionali”, come Bilet Pherat (1921) di Nitish Lahiri, una satira sociale sugli indiani che imitavano le abitudini inglesi. Bilet Pherat vede per protagonista Dhiren Ganguly (1893-1978), autore, nel 1922, di Razia Begum, che pur essendo di genere storico, tratta per la prima volta dei rapporti conflittuali tra induisti e musulmani: il film fu censurato e ne fu proibita l’uscita nelle Sale. E’ ancora la Madan Theatres ad iniziare le coproduzioni, ed esattamente con la Cines di Roma. Savitri (1923) fu realizzato a Roma con attori italiani, sceneggiato e diretto da Giorgio Mannini, e tratto, si dice, da un’opera dell’indologo Angelo De Gubernatis, adattata per lo schermo da Ferdinando Paolini e Aldo De Benedetto.
    Nel Sud, il primo film, Keechaka vadhan, di R. Nataraja Mudaliar, giunge nelle sale nel 1916: anche in questo caso si tratta di una storia derivante dal Mahabharata. Un'altra opera notevole appare nel Sud nel 1921, Valli Thiru Manam di Whittacker.
    Altro Maestro dell’Era del Cinema Muto è Baburao Krishnarao Mestri (1890-1954), noto come Baburao Painter in quanto pittore e scultore professionista prima di intraprendere la carriera cinematografica. Dopo aver visto Raja Harishchandra, fonda la Kolhapur Maharashtra Film Company e realizza nel 1920 Sairandhri, come di consueto una storia tratta dal Mahabharata, ma con allusioni alla realtà del tempo. Nel 1923 e nel ’24 Baburao Painter si cimenta nel genere storico con le gesta di Shivaji, il re Maratha che si era opposto al potere Moghul nel XVIII secolo, realizzando Sinhagad e Kalyan Kazana, due film che possono essere considerati dei veri e propri Kolossal per quell’epoca e che inoltre alludono alla lotta per l’Indipendenza del popolo indiano. Sempre del 1924 Sati Padmini, altro film storico-patriottico sul suicidio di massa delle donne di Chittor dopo la conquista della fortezza rajput da parte dei Moghul. Ma l’opera più significativa di Baburao Painter è senza dubbio Savkari Pash (An Indian Shylock, lett. Il laccio dell’usuraio, 1925) considerato il primo film indiano realista e paragonato da tutti i critici a Greed (1924) di Erich von Stroheim. In questo caso Baburao introduce il tema del conflitto tra il contadino “buono” e il cittadino cinico privo di valori etici, un tema tuttora in auge presso una parte della cinematografia indiana. Inoltre, allo stresso maestro si deve il merito di aver migliorato il metodo di regia e le tecniche di ripresa, oltre ad aver introdotto l’uso delle luci per filmare gli interni.
    Alla fine dell’Era del Muto fa i suoi primi passi nel mondo del Cinema uno dei personaggi più significativi della cinematografia indiana: Himansu Rai (1892-1940), il futuro fondatore, nel 1934, della leggendaria Casa di Produzione Bombay Talkies. Laureato in Legge a Calcutta, Rai si trasferisce a Londra dove esercita la sua professione, dedicandosi però anche alla recitazione e alla consulenza per film di soggetto “orientale”. In tale veste riesce a concludere una vantaggiosa intesa di coproduzione con gli Emelka Studios di Monaco. Con Franz Osten realizza nel 1925 Prem Sanyas (The Light of Asia) da una sceneggiatura di Nirajan Pal, basata sul poema del 1861 di Edwin Arnold. Prem Sanyas, la vita del Buddha (interpretato da Rai) narrata da un sadhu (asceta) a dei turisti occidentali, riscosse un grande successo anche in Europa. Sempre con Osten alla regia, Rai realizza nel 1928 Shiraz, ispirato alla storia del Taj Mahal, e nel 1929 Prapancha Pash, da un episodio del Mahabharata, in cui furono utilizzate più di 10.000 comparse, grazie all’aiuto dei maharaja di Jaipur, Udaipur e Mysore.
    Intorno agli anni venti le produzioni indiane, concentrate come oggi a Bombay (Mumbai), Calcutta (Kolkata) e Madras (Chennai), erano diventate dei veri giganti che adottavano i metodi produttivi americani, comprendenti lo studio system e lo star system hollywoodiani. Tra le tante stelle amate dal pubblico dell’epoca, da menzionare: Sulochana (l’ebrea eurasiatica Ruby Myers) sempre in coppia con l’attore Dinshaw Bilimoria, Kayoum Mamajiwala Gohar, Zebunissa, le sorelle Sultana e Zubeida, a loro volta sorelle della produttrice, regista e attrice Fatma Begum, Sita Devi, l’anglo indiana Patience Cooper e Rajaram Vankudre Shantaram, il quale, con l’avvento del sonoro, diverrà anche regista e produttore.
    Il Cinema indiano ebbe quindi uno sviluppo straordinario: già nel 1926 si produssero più di cento film. I provvedimenti della Censura, istituita nel 1918 mediante l’Indian Cinematographic Act, favorirono, forse inconsapevolmente, questa crescita straordinaria. Infatti, furono proibiti quasi tutti i film occidentali perché accusati di proporre modelli di vita che avrebbero potuto corrompere i costumi tradizionali. La loro importazione fu ridotta ad una quota del 7,5 % dell’intera distribuzione nazionale. Recentemente il National Film Archive of India ha stimato in 1313 il numero di film prodotti in India nei 22 anni dell’Era del Cinema Muto, di cui ne sono sopravvissuti soltanto quindici. Tra di essi, una parte di Satiavadi Raja Harishchandra, le tre opere menzionate di Himansu Rai e Franz Osten e, unico film bengalese, Jamai Babu (Figlio innamorato, 1931), diretto da Kalipada Das, il quale interpreta un personaggio simile a Chaplin, ma in versione indiana.

    Per le notizie si ringrazia SITO UFFICIALE DELL' ENCICLOPEDIA TRECCANI

    Fine della prima parte! :woot: A domani per la seconda e interessantissima parteù!!! ;)

    Edited by shinji80 - 30/9/2007, 22:37
     
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  2. LARETTA
     
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    Confesso che non lo conosco per niente il cinema indiano : meno male che abbiamo il nostro shinji :festa:
     
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    neanch' io sinceramente :D bè ci sono molte cose che non conosciamo ;)
     
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    Ecco la seconda parte della nostra panoramica sul cinema indiano, si va!! :P :P

    Il sonoro e l’inizio del colore - PARTE PRIMA



    Il primo esperimento per ottenere una pellicola cinematografica sonora risalgono già al 1899 con il Microcronografo di von Geyr. Dal 1905 in poi ulteriori tentativi e perfezionamenti furono portati avanti da numerosi altri inventori finché, nel 1927, la Warner fu in grado di produrre il primo film parzialmente sonoro: The Jazz Singer, di Alan Crossland. The Jazz Singer fu visto a New York nel 1929 dal grande produttore e distributore J.F. Madan, il quale, nello stesso anno, organizzò all’Elphistone Palace di Calcutta la proiezione di Melody of Love di A.B. Heath, realizzato dalla Universal. Poco tempo dopo, fece la sua comparsa in India anche il celebre musical Showboat.
    Dal 1930 si cominciò quindi a sperimentare le possibilità della nuova tecnica del suono. Tra queste prove pionieristiche, da menzionare le riprese di alcuni dei discorsi tenuti in pubblico da Gandhi, da sua moglie Kasturba e da altri eminenti leader del movimento indipendentista. il filmato includeva una danza eseguita da Sulochana in Madhuri (1928), un film di Rama Shankar Choudhury (1903-1972), questa volta sincronizzata con la musica. Una scelta singolare quest’ultima, se si pensa che il Mahatma era assolutamente contrario al Cinema – che aveva icasticamente definito “tecnologia peccaminosa” – anche se, per quanto se ne sappia, nel corso della sua vita vide, controvoglia, soltanto delle bevi sequenze di Ramrajya (1943) di Vijay Bhatt.
    La corsa al cinema sonoro era dunque iniziata.

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    Nell’aprile del 1931, i Madan Theatres proiettano un filmato composto da canzoni e coreografie, mentre a Bombay, la Krishnatone, propone nelle sale uno spettacolo che comprendeva sketch musicali, canti del Gujarat, bengalesi ed arabi, il tutto unito ad una breve commedia: Nakli Tansen.
    La “competizione” per realizzare il primo lungometraggio sonoro fu vinta dalla Casa di Produzione Imperial Movietone che proietta il 14 marzo 1931 al Majestic Theatre di Bombay Alam Ara (Bellezza del Mondo), realizzato da Ardeshir Irani.
    Alam Ara, nome dell’eroina interpretata da Zubeida, era una trasposizione cinematografica di una pièce del teatro parsi di Joseph David. Ambientata in un’astratta antichità, tratta della rivalità fra due regine. Una delle due, Navbahar, sta per dare un erede al re di Kumarpur. La sua rivale, Dilbahar, trascurata dal marito, tenta di sedurre Adil, generale del re, il quale, però, rimane fedele al suo signore. Dilbahar con false accuse lo fa arrestare, mentre la moglie del generale, in attesa di un figlio, riesce a fuggire dalla reggia. Alam Ara, figlia di Adil, cresce insieme ad una tribù di nomadi e, una volta adulta, tenta, con l’aiuto dei suoi amici nomadi, di liberare il padre, proprio mentre questi sta per essere ucciso dalla malvagia Dilbahar. Lieto fine con intervento risolutivo del re e relative nozze della fanciulla con l’erede al trono. Oltre a Zubeida il cast comprendeva altri nomi prestigiosi: Master Vithal e Prithviraj Kapoor.
    Nessuna copia di Alam Ara è giunta integra fino ai nostri giorni, quindi non è possibile stabilire quante canzoni contenesse, si pensa da un minimo di sette ad un massimo di 55.
    Comunque, ciò che importa è che con questo primo film sonoro – e con le altre pellicole sue contemporanee – si stabilisce una delle regole base del cinema indiano: lo spettacolo, qualunque sia la trama e il genere, deve contenere canzoni e numeri di danza. Questo non significa che ogni film sia assimilabile a ciò che in Occidente viene definito musical: la ragione di tale regola è di natura strettamente culturale. Infatti, dal teatro classico sanscrito fino alle varie forme recitative regionali, nella narrativa indiana canto e danza hanno avuto un ruolo fondamentale - e non come “accompagnamento” o “intermezzo” della storia, ma come elementi drammaturgici veri e propri - in quanto si riteneva che certe situazioni, azioni e sentimenti si potessero esprimere più efficacemente mediante quelle forme di arte.
    Il film dell’Imperial precede di poche settimane Jamai Sasthi di Amar Choudhury, che appare a Calcutta, e da un altro prodotto bengalese dei Madan Theatres: Shirin aur Farhad di J.J. Madan, che ebbe maggiore successo del film proiettato a Bombay.
    A questo film che narrava il tragico amore dello scultore Shirin per la regina persiana Farhad, una storia tratta dallo Shah Nama (il Libro dei Re) del poeta lirico afghano Firdusi (935-1020), partecipò il duo canoro più famoso del Bengala Jahan Ara Kajjan e Nissar.


    Altro aspetto fondamentale della “seconda nascita” del cinema indiano, grazie al sonoro, fu lo sviluppo di diverse cinematografie regionali, a causa del gran numero di idiomi parlati nel subcontinente (secondo un censimento sarebbero, tra lingue e dialetti, 1652, di cui attualmente 18 ufficiali e altre trenta accettate).
    Nel 1931 furono prodotti 28 film sonori, tra cui: Ghar ki Lakshmi di Kanjibhai Rathod, realizzato dalla Krishnatone e il primo film parlato in lingua tamil, Kalidas, sul leggendario poeta sanscrito del terzo secolo, diretto da Hanumappa M. Reddy.
    Sempre Reddy fu autore nello stesso anno del primo film in telegu: Bhakta Prahlada, tratto dal Vishnu Purana. il primo film in malayalam (la lingua del Kerala), fu Martanda Verma, sul fondatore dello stato di Travancore nel XVII secolo, diretto da P.V. Rao.
    E’ solo nel 1935 che nell’Assam viene realizzata una pellicola cinematografica che coincide con il primo film parlato in assamese: Joymati, diretto da Joiti Prasad Agarwala (1903-1951). Elemento di spicco del movimento per l’indipendenza, Agarwala, detto Rupkonwar, fu autore di due soli film, il secondo, un melodramma: Indramalota del 1939.
    Agarwala fu comunque un intellettuale estremamente versatile che coltivò molteplici interessi, dalla poesia alla musica dalla saggistica all’arte drammatica. Studiò in Inghilterra e in Germania, dove si perfezionò in cinematografia, per poi tornare in Assam e fondare la sua Casa di Produzione con cui appunto realizzò Joymati, un film storico, pervenutoci solo parzialmente, a tratti quasi documentaristico, sulla dinastia Ahom regnante sull’Assam nel XVII secolo. Agarwala si ispirò figurativamente al realismo sovietico e fece adottare ai suoi attori una recitazione altrettanto realistica. Oggi Joymoti è considerato una pietra miliare della cinematografia indiana.
    La lingua utilizzata prevalentemente nel Nord e nel Nord-Ovest del paese, era ed è, la hindi, un adattamento dell’antico sanscrito.
    A sua volta la hindi, nella sua variante persiana, si trasforma in urdu. L’unione delle due lingue viene chiamata hindustani ed è questo l’idioma con cui si esprimeva la cinematografia di Bombay.
    A Calcutta i film erano girati in bengali, ma spesso si producevano anche le versioni in hindi. Nel Sud tutte le regioni hanno dei linguaggi che non hanno nulla a che vedere con il sanscrito, ma hanno una base comune nelle antiche lingue dravidiche. Pertanto i loro film erano, e sono girati nelle lingue autoctone.
    A causa di questa grande varietà di idiomi, oggi si preferisce la dizione “cinematografie indiane”, piuttosto che quella di “cinema indiano” .

    generi rimasero quelli già stabiliti nell’era del muto, con l’ovvia aggiunta di quelli musicali veri e propri, delle commedie e dei “drammi sociali”. Inoltre la Wadia Movietone si era specializzata in un tipo particolare di film d’azione, in voga fino agli anni ’60 e oltre, tutti interpretati dall’atletica Nadia, la ballerina e acrobata australiana Mary Evans che, sempre negli anni ’60, sposò il produttore Homi Wadia.
    il cinema sonoro si sviluppò in un periodo storico molto travagliato in cui si intensifica la lotta per affrancarsi dal dominio coloniale. È quindi naturale che molti film, anche di genere storico-mitologico, diventino delle metafore per lanciare messaggi patriottici.
    Nello stesso tempo, guardando al futuro, il popolo indiano si interroga sulla propria identità culturale. Alcuni autori affrontano problemi sociali a volte estremamente scottanti, retaggio di un’antichissima tradizione socio-religiosa ormai non più accettabile: in particolare quello della divisione della società in caste e quello degli “intoccabili”, gli arijan (i figli di dio) del Mahatma.

    Uno dei registi più significativi ed innovativi degli anni Trenta è Rajaram Vankudre Shantaram (1901-1990). Formatosi nella Casa di Produzione di Baburao Painter, fu influenzato stilisticamente da Phalke.
    Già noto come attore nel periodo del muto, nel 1929 fonderà a Kolhapur, con Damle, Fattelal e altri tre soci, la Prabhat Film Company, per molto tempo ritenuta la casa di produzione più attenta alla qualità formale e ai contenuti culturali dei film.
    Nel 1932 Shantaram dirige non solo il suo primo film parlato, ma anche il primo film in marathi, la lingua dello stato del Maharasthra: Ayodhyecha Raj (il re di Ayodhya) che ebbe anche una versione in hindi. In questo caso il regista-produttore narra nuovamente la celebre storia già portata sullo schermo nel 1913 da Phalke in Raja Harishchandra. il ruolo femminile fu affidato alla quasi esordiente Durga Khote [1905-91] una delle prime donne di famiglia tradizionale hindu a dedicarsi alla carriera cinematografica e destinata a diventare fra le più famose attrici dell’india, nonché regista e produttrice.
    L’anno successivo Shantaram dirige un altro remake: Sinhagad di Baburao Painter, sulla vita dell’eroe Maratha luogotenente di Shivaji. Nel 1934, con una sceneggiatura del celebre romanziere Narayan Hari Apte, realizza Amrit Manthan [il frullamento dell’oceano] che sebbene appartenente al genere mitologico – la lotta tra dei e demoni per la conquista dell’amrita, il nettare dell’immortalità - è soprattutto una denuncia della concezione spietata e puramente cerimoniale della religione a favore di una visione umanistica del sentimento religioso.
    Il film, figurativamente legato all’espressionismo tedesco, è infatti la storia di un re convertitosi al buddhismo il quale, avendo bandito dal regno i sacrifici di ogni essere vivente, attira su di sé le ire del fanatico sommo sacerdote.
    L’anno successivo Shantaram affronterà un tema simile con Dharmatma (il Pio): qui assistiamo alla lotta di Eknath [1533-99] santo e poeta del Maharashtra, contro l’ortodossia brahmanica, in sostegno dei fuori casta. Anche questo film - a rigore di genere “devozionale”- va inteso come film politico, in quanto la figura di Eknath in quel momento era paragonata senza alcun dubbio a quella di Gandhi.
    Shantaram continua la sua critica sociale questa volta con un film d’avventura. In Amar Jyoti (La Fiamma Immortale, 1936) – presentato a Venezia, primo film indiano a partecipare ad un festival all’estero- la regina Saudamini, Durga Khote nella migliore delle sue interpretazioni, si scontra con le leggi patriarcali del suo regno che le negano la custodia del figlio ancora bambino. La regina non si rassegna e, dopo essersi impadronita di una nave, dichiara guerra al suo stato, riuscendo a catturare il ministro della giustizia.
    È sempre a Shantaram che l’anno successivo, si deve il primo film di condanna della condizione femminile. In Kunku (nella versione hindi Duniya na Mane, ossia: “il mondo non lo accetta”) una ragazza, interpretata magistralmente dalla nota cantante e attrice Shanta Apte, è costretta dalla famiglia a sposare un anziano avvocato. La ragazza si rifiuterà di consumare il matrimonio e troverà un alleato proprio nel marito progressista che, in punto di morte le fa promettere che si risposerà. il coraggioso Shantaram con questo film aggredisce due tabù profondamente radicati in India: la consuetudine dei matrimoni combinati e la proibizione per le vedove hindu di risposarsi.
    Ma non basta, il regista in Aanush (Aadmi nella versione hindi) si scaglia contro i pregiudizi moralistici: in questo film un integerrimo poliziotto si innamora di una cortigiana, che lo conquista con le sua qualità umane.
    Un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Shantaram interpreta il ruolo principale in uno dei più noti film indiani: Dr. Kotnis ki Amar Kahani (il Viaggio Immortale Del Dott. Kotnis) tratto da una storia di K. A. Abbas, “And one did not come back” a sua volta ispirata a fatti realmente accaduti. Dworkanath Kotnis era infatti un medico che si recò in Cina per combattere contro i giapponesi e prestare il suo aiuto alla popolazione. il medico, sposatosi con una cinese, morì eroicamente. il film è il più significativo esempio della retorica nazionalista del periodo.
    Per decenni Shantaram continuerà senza sosta la sua attività di regista impegnato. Firma la sua quarantaduesima ed ultima opera Jhanijhar, nel 1986 all’età di 85 anni.

    Nel 1937 esce nelle sale il primo film a colori indiano: Kisan Kaniya (La giovane contadina) di Moti G. Gidvani, anche se quattro anni prima Shantaram in Sairandhri aveva tentato un esperimento in tal senso con un sistema a due colori.
    Nel Sud il cinema si sviluppa più lentamente. La prima casa di produzione la General Pictures Corporation, è fondata a Madras nel 1929.
    Il sonoro appare solo nel 1934 con Srinivasana Kalyanam (il matrimonio di Srninivasana) di A. Narayan [1900-39].
    Rispetto ad altre zone dell’India, il cinema del Sud è quello che si affida maggiormente alla musica: un film contiene in media ben 50 canzoni.
    Si ritiene che il più grande regista del periodo sia stato Krishnaswamy Subramanyam [1904-71] di cui sono notevoli i film politici quali Balayogini [1936] in cui recita una autentica vedova brahmana che nella finzione narrativa trova rifugio tra gli intoccabili. Segue Thyagabhumi (La Terra del Sacrificio, 1938) melodramma patriottico di ispirazione Gandhiana, che descrive le ingiustizie contro gli intoccabili.
    È da sottolineare che Subramanyam è doppiamente encomiabile non solo per i temi trattati, ma anche perché era nato nella casta brahmana.

    L’opera cinematografica più nota sulla “vita dei santi”, che rispecchia la tradizione della bhakti – la devozione a un dio personale contrapposta al ritualismo brahmanico - è senza dubbio Sant Tukaram [1936] interpretato da Vishnupant Pagnis [1892-1943] e diretto da Vishnupant Govind Damle [1892-1945] e Sheikh Fatehal [1897-1964] due dei soci di Shantaram che li influenza sia ideologicamente che stilisticamente. il film, in lingua marathi, narra della persecuzione da parte del brahmano Salomalo di un mistico del 17° secolo ancora molto venerato nel Maharashtra. il brahmano si attribuisce la paternità degli abhang (canti devozionali) composti dall’umile santo-poeta. Ma Tukaram, nonostante le usurpazioni e le sopraffazioni dell’avversario, diventerà agli occhi delle masse un eroe e un maestro spirituale.
    Il film che deve la sua fama soprattutto agli abhang di Shantaram Athavale, alla splendida colonna sonora di Keshavrao Bhole e ai sorprendenti effetti ottici delle scene dei miracoli, fu accolto con grande successo anche all’estero. Nel 1937 fu la prima pellicola indiana ad ottenere un premio al festival di Venezia.

    Nel frattempo, nel ’36, era nata un’altra casa di produzione leggendaria: la Bombay Talkies, di Himansu Rai.

    Tra i film più noti prodotti da Rai da segnalare: Achhut Kanya (La fanciulla fuori casta), dallo script “The Level Crossing” di Niranjan Pal, lo sceneggiatore di fiducia di Rai. il film, diretto da Franz Osten, ha una struttura narrativa assai complessa che si svolge in maniera circolare e in flashback. il nucleo della storia è costituito dall’amore impossibile dell’intoccabile Kasturi per il giovane brahmano Pratap. Kasturi era interpretata da Devika Rani, già architetto e scenografa, pronipote del grande poeta e premio Nobel Tagore, in seguito moglie di Himansu Rai e destinata a divenire una delle più grandi star del tempo. Rai desiderava intensamente che il film fosse visto dal Mahatma Gandhi, ma questi si rifiutò. In compenso Achhut Kanya fu lodato dal Pandit Nehru.


    Il sonoro e l’inizio del colore - PARTE SECONDA



    A Calcutta erano nati nel 1931 i New Theatres di Birendra Nath Sircar (1901-80), una Casa di Produzione equivalente per qualità alla Prabhat. Sircar, un produttore illuminato, aveva radunato intorno a sé i migliori tecnici del tempo e i più brillanti talenti creativi del Bengala.
    Uno dei registi più prestigiosi dei New Theatres, Debaki Bose (1898-1971), firmò l’adattamento di un musical del 1926 di Aparesh Chandra Mukherjee: Chandidas (1932). Il film narra la vita di un santo vaishnava (devoto del dio Vishnu) del XVI secolo. Qui il malvagio di turno non è il solito bramano ma un avido vaishya (bottegaio) che cerca di impedire l’amore nato tra Chandidas e Rami, una lavandaia fuori casta.
    Il film fu uno dei maggiori successi dei New Theatres ed ebbe come direttore della fotografia Nitin Bose (1897-1986), cugino di Satyajit Ray e maestro di Bimal Roy, il quale passò alla regia nel ’34 rifacendo proprio Chandidas.

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    Inoltre proprio a Nitin Bose si dovrà nel 1961 il maggior successo cinematografico dell’India indipendente, Ganga Jumna.
    Ma il più noto ed emblematico regista dei New Theatres fu Pramatesh Chandra Barua (1903-1951), il cui nome è legato a uno dei maggiori cult movie dell’India: Devdas.
    Il soggetto di Devdas è tratto dall’omonima novella del 1917 del celebre autore bengalese Sarat Chandra Chatterjee (1876-1938) un verista fortemente sentimentale.
    Devdas (servo di Dio) è figlio di un potente zamindar, ossia un proprietario terriero feudale. Egli vorrebbe sposare l’amore della sua infanzia, Parvati (Paro), figlia di un suo vicino. Un matrimonio impossibile in quanto la ragazza appartiene a una condizione sociale e a una casta inferiori alla sua. Devdas, in contrasto con la sua famiglia ma incapace di ribellarsi, si trasferisce a Calcutta dove conduce una vita dissipata, istigato dal corrotto Chunni Babu. Nella sua “discesa agli inferi” Devdas frequenta e trova sostegno in Chandramukhi, una splendida tawaif, ossia una danzatrice-cortigiana. Nonostante la devozione di questa tawaif dal cuore d’oro, Devdas in un crescendo autodistruttivo, si darà all’alcool ed infine, dopo un lungo viaggio in treno – in cui simbolicamente cerca di sfuggire a sé stesso – morirà sulla soglia della casa dove vive Paro, ormai moglie di un ricco e anziano vedovo.
    La storia di Devdas è una delle più amate dal cinema indiano ed è apparsa sullo schermo non meno di quindici volte, sempre con ottimi risultati artistici e facendo piangere intere generazioni. La novella di Chatterjee fu portata sullo schermo per la prima volta nel 1928 da Naresh Chandra Mitra (1888-1968) ma divenne un grande successo nel 1935 grazie a Barua che realizzò la pellicola in bengali recitando il ruolo del protagonista e avvalendosi delle splendide musiche di Timir Baran, Rai Chand Boral, Puntai Mullick e dei testi di Kidar Sharm.
    Barua girò anche un’edizione in hindi. Si dice che il regista, figlio del maharaja di Gauripur, uno dei regni dell’Assam, abbia concepito il suo Devdas come una velata autobiografia.
    Il ruolo principale del film in hindi, fu affidato a Kudan Lal Saigal, divo della canzone che collaborò con Baran e creò il modello, seguito per molto tempo, di come dovesse essere interpretata una canzone in un contesto melodrammatico.
    Tra i film più noti del periodo, ve ne è uno particolare del genere storico: Sikander (Alessandro, 1941) realizzato nella fase più cruciale della Seconda guerra mondiale.
    In questo vero e proprio kolossal, lo scontro delle armate di Alessandro Magno nel 326 a.c. contro l’esercito di Poro re dei Paurava, sono estremamente spettacolari. I dialoghi in urdu tra i due re, in un primo tempo contendenti, ma che poi diverranno amici, derivano direttamente da quelli aulici e magniloquenti di tipo shakespeariano del teatro parsi. Alessandro Magno è interpretato da Prithvi Raji Kapoor e Poro da Sohrab Modi che è anche il regista del film.

    L’Età dell’oro – PARTE PRIMA



    confini di quella che si ritiene sia stata la stagione più felice della Cinematografia indiana - definita per consuetudine Età dell’Oro - sono delimitati, per convenzione storica, da due date precise, il 1950 ed il 1960, anche se una datazione così rigida non può rispecchiare né l’esatto evolversi degli avvenimenti né la loro complessa interdipendenza. Infatti, se è vero che l’apoteosi di quella età memorabile può essere circoscritta in quei dieci anni, è anche ovvio che i suoi prodromi siano apparsi prima - verso la metà degli anni Quaranta - così come è altrettanto naturale che i suoi effetti si siano fatti sentire fino alla fine degli anni Sessanta.
    Osservando gli avvenimenti storici, si può dire che se gli anni Trenta erano stati turbolenti, gli anni Quaranta furono drammatici. Innanzitutto, a causa dello stato di guerra in cui l’India si trovò ad essere coinvolta indirettamente. Infatti, fu proprio la Seconda guerra mondiale a determinare la terribile carestia del ’43 nel Bengala: le leggi sulle “restrizioni economiche di guerra”, a cui seguirono il mancato funzionamento degli aiuti alla popolazione e le relative speculazioni degli affaristi, provocarono tre milioni di morti. A ciò si aggiungano i primi conflitti su vasta scala tra estremisti musulmani ed induisti. Scontri che, man mano che si procedeva faticosamente verso l’Indipendenza, si intensificarono sempre più. L’intolleranza religiosa esplose infine in massacri indiscriminati proprio quando il subcontinente asiatico, sebbene fosse stato costretto a smembrarsi in due Nazioni, era ormai libero dal dominio coloniale. Si calcola che i profughi dall’una e dall’altra parte – India e Pakistan – siano stati 15 milioni e che durante questo esodo, senza precedenti nella storia, si sia perpetrato lo sterminio di più di un milione di fuggiaschi. E l’ultima vittima di questa follia fu “La Grande Anima”: Gandhi, accusato di aver favorito i musulmani durante la Partition, fu assassinato da un fanatico hindu il 30 gennaio del 1948, cinque mesi dopo la proclamazione d’Indipendenza.

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    Nonostante questo scenario tragico, come ebbe a dire il critico Sanjit Narwekar - che parafrasava la descrizione della Londra ottocentesca di Charles Dickens - quelli furono per il cinema indiano gli anni peggiori e ad un tempo i migliori. Ad esempio, durante la guerra sorsero, mediante la formazione di associazioni culturali, iniziative con propositi sociali. Fra tali organizzazioni, la più rilevante fu la IPTA (Indian Peoples’ Theatre Association) che fu fondata a Calcutta nel 1943 come movimento antifascista e che riuscì a riunire intorno a sé i migliori professionisti del teatro e del cinema. Inoltre, la IPTA contribuì alla realizzazione di alcune delle più significative opere cinematografiche del periodo. E ancora, con l’esodo dovuto alla Partition, un gran numero di talenti, soprattutto in campo musicale, confluì dal Pakistan e dal Bengala Orientale a Bombay e a Calcutta, rinvigorendo quei centri di produzione. Un nuovo fenomeno, dovuto in parte anche a questa migrazione, fu l’ingresso nel mondo del cinema di persone di cultura molto elevata.
    Sul versante negativo, è da notare che nel dopoguerra molti arricchiti grazie al mercato nero impiegarono i loro guadagni nel finanziamento dei film, avendo capito che erano investimenti che avrebbero fatto ottenere profitti veloci. Tuttavia, l’ingresso nel mondo della celluloide di questi poco stimabili produttori indipendenti consentì alla cinematografia indiana non solo di sopravvivere ma addirittura di diventare una industria sempre più prospera e potente. Infatti, alla vigilia della guerra mondiale la produzione cinematografica indiana aveva raggiunto una solida posizione di attività industriale, ma la guerra aveva sconvolto lo Studio System. Tutte le più importanti Case cinematografiche, che adottavano il sistema americano (registi, sceneggiatori, attori, musicisti, cantanti e personale tecnico a contratto fisso), avevano subito ingenti perdite e avevano dovuto cambiare metodi di produzione, basandosi sul mercato libero e sul potenziamento e l’esaltazione dello Star system. Il risultato fu che per accaparrarsi i divi più acclamati dal pubblico i costi si innalzarono a livelli vertiginosi: un attore, che negli anni Trenta riceveva uno stipendio mensile massimo di 6000 rupie, adesso poteva chiedere per la sua partecipazione fino a 100.000 rupie. Lo stesso accadeva con gli altri artisti. Alla lunga, alcune delle Major “storiche” dovettero cessare la loro attività: nel 1952 chiuse i battenti la Bombay Talkies, nel 1953 la Prabhat e nel ’54 i New Theatres.
    Anche nel campo creativo ci furono molti cambiamenti. Per quanto riguarda gli attori, quelli più in voga (Dilip Kumar, Dev Anand e Raj Kapoor) avevano stabilito all’incirca nella metà degli anni Quaranta un tipo di recitazione che durerà per decenni. Nel frattempo era nata una nuova figura, il cantante in play back, anche se questo espediente era già noto poiché era stato utilizzato già nel 1935 in Bhagya Chakra di Nitin Bose dal grande compositore Raychand Boral.
    Agli inizi del cinema sonoro erano gli stessi attori a cantare, adesso il playback singer cominciava ad avere una importanza pari a quella degli interpreti principali di un film. Tra i più noti si possono segnalare: Kishore Kumar, Mohamed Rafi, Mukesh e Naushad Ali, e tra le cantanti Lata Mageshkar e la sorella Asha Bhosle - figlie del cantante e compositore Dinanath Mangeshkar - Shamsad Begum, Zeenat Begum, Zohrabai e Geeta Roy Dutt. Altrettanta importanza avevano i numerosissimi e geniali compositori e direttori d’orchestra dell’epoca, quali: Ghulam Mohammed, Ghulam Haider, Sajjad Hussain, C. Ramchandra, Anil Biswas, Sanchin Dev Burman, Madan Mohan, il duo Shanker-Jaikishen, Naushad Ali, Manna Dey, Salil Choudhury, il duo Kalianji-Anandji, Chitragupta, O.P. Narayan, Ravi, Vasant Desai e tanti altri ancora. Lo stesso può dirsi per gli autori dei testi, spesso degli autentici poeti come Kaifi Azmi, Hasrat Jaipuri, Shailendra e Majrooh Sultanpuri.
    Alle armonie e ai versi di questi inventivi compositori e poeti, e alle voci melodiose dei cantanti, faceva da cassa di risonanza l’AIR (All India Radio) che diffondeva in continuazione i filmi geet (canzoni dei film) i quali assumevano una parte quantitativamente sempre più rilevante nei prodotti cinematografici più popolari, anche se il record – settantuno canzoni - pare fosse già detenuto da una pellicola del 1932, Indrasabha di J.J. Madan, tratta da un’opera scritta nel 1843 da Sayed Aga Hasan per la corte di Lucknow.
    Comunque, con l’euforia dell’Indipendenza e l’ottimismo suscitato dai programmi varati dal Governo di Jawaharlal Nehru per lo sviluppo e la modernizzazione del Paese, nuove idee e nuovi valori si fecero strada, senza però ignorare una caratteristica di fondo della cinematografia indiana: la combinazione di antico e moderno. Negli anni Cinquanta fu definitivamente messa a punto la formula per ottenere un successo sicuro: molte coreografie con canzoni e danze, e scene spettacolari realizzate con grande fantasia. I film erano quindi ben confezionati, con tutti gli ingredienti giusti per intrattenere un pubblico che chiedeva soltanto di divertirsi. Nello stesso tempo, fu riconosciuto al Cinema il suo ruolo di strumento significativo per la critica sociale. I generi rimasero gli stessi, ma con una drastica flessione di quelli mitologici e di quelli sulle vite dei santi, che si ridussero al solo 10% della produzione totale, mentre si accentuò l’interesse per i film d’ambientazione moderna e urbana aventi come temi i cosìdetti “drammi familiari e/o sociali” che furono determinanti per l’evoluzione del cinema popolare. Molto richiesti erano anche i film storici, preferibilmente con sottofondo patriottico, realizzati in stile “fantasie orientali”. Tutti questi tipi di prodotti cinematografici, capaci di coinvolgere emotivamente ogni cittadino dell’India, costituirono ciò che un eminente critico indiano, Chidananda DasGupta, ha definito All India Film.
    Anche le istituzioni iniziarono gradualmente a prendere sul serio il mondo del Cinema e a guardarlo con serietà e attenzione. Nel 1952 si istituì il primo Festival Internazionale a Bombay, con proiezioni anche a Calcutta e Madras. I cineasti indiani ebbero così la possibilità di avere un vasto panorama del cinema mondiale. Tutti, in particolare i registi del Bengala, rimasero impressionati dai maestri del Neorealismo italiano, le cui opere ebbero una notevole influenza per la successiva cinematografia indiana. Nel 1960 venne costituita la FFC (Film Finance Corporation), per agevolare la produzione di film non commerciali, e l’FTII (Film and Television Institute of India), una scuola per formare professionalmente i futuri cineasti. Nel 1963 nacque l’IMPEC (Indian Motion Picture Export Corporation) e nel 1964 fu fondato a Pune il National Archive of India, la Cineteca Nazionale. Già da tempo erano editate pubblicazioni specialistiche sul Cinema che non si occupavano solo di critica ma anche di gossip sulle star del momento, che in India erano ormai venerate come delle vere e proprie divinità. La produzione aveva intanto ripreso la sua corsa, tanto che nel 1960 furono realizzati ben 318 film in tredici lingue del Paese. L’India era ormai al secondo posto nella produzione mondiale: undici anni dopo avrebbe superato il Giappone, fino a quel momento il maggiore produttore di film al mondo.
    Una delle opere più significative del periodo è Kismet (1943), di Gayan Mukherjee. Film d’ambientazione moderna e dal tessuto narrativo ingarbugliato e ridondante, è uno dei primi esempi di un tipo di soggetto melodrammatico, appartenente al genere “dramma familiare”, che si diffonderà ampiamente nei decenni successivi: i membri di una famiglia, ingiustamente separati, dopo molte traversie riescono a riconoscersi e a riunirsi felicemente.
    Di diverso valore artistico alcuni film che furono realizzati con l’apporto della IPTA. Khwaja Ahmed Abbas (1914-1987), sceneggiatore (per Shantaram e Raj Kapoor), critico e scrittore, esordì nella regia con Dharti ke Lal (I Figli della Terra, 1946), un intenso film sulla carestia del ’43, adattamento cinematografico di Nabanna, famosa novella del ’44 di Bijon Bhattacharya. Ad Abbas, intellettuale politicamente impegnato, si deve un film del tutto privo di canzoni e danze (il secondo del genere), Munna (Il Bambino Smarrito, 1954). Naturalmente, Munna non ebbe alcun successo in patria, ma fu apprezzato dalla critica e premiato al Festival di Edimburgo. Abbas fu anche il primo cineasta indiano a varare le coproduzioni con l’Unione Sovietica con Pardesi (Il Viaggiatore, 1957), di cui firmò la regia insieme a Vassili M. Pronin. Inoltre, Abbas è il primo regista ad aver notato l’attore che sarebbe diventato la più grande star del Cinema commerciale indiano, Amitabh Bachchan, il quale esordì in un suo film del 1969, Saat Hindustani.
    Oltre a Dharti ke Lal e al già menzionato Dr. Kotnis di Shantaram, nello stesso anno 1946 la IPTA contribuì alla produzione di Neecha Nagar di Chetan Anand (1915-1997), un film sempre d’ambientazione moderna e di genere “sociale”, ispirato a un racconto di Gorky su un ricco latifondista, arroccato su una montagna, e sui suoi poveri contadini che vivono in un misero villaggio nella valle sottostante. Questo film, prima opera indiana ad ottenere un premio al Festival di Cannes, segna, insieme al contemporaneo Dharti ke Lal, il debutto come compositore di Ravi Shankar. L’opera seconda di Chetan Anand, Afsar (1950), conferma l’interesse di questo regista per la letteratura russa, in quanto si tratta di un libero adattamento della novella L’Ispettore Generale di Gogol.
    Un film molto particolare e di rara bellezza, che si discosta da quelli di genere, è Kalpana (Immaginazione, 1948) di Uday Shankar – fratello di Ravi Shankar – girato nei prestigiosi teatri di posa della Gemini di Madras. Entro un racconto cornice - la descrizione di uno sceneggiatore ad un produttore del film che vorrebbe realizzare - si svolge la storia di due artisti che sognano di creare un centro d’arte, il Kalakendra, che è l’equivalente del reale India Cultural Centre di Almora, fondato dallo stesso Shankar, che è anche l’interprete principale del film. Per la preparazione e le riprese della stupefacente scena di danza, centro focale del film, occorsero quattro anni.
    Il famoso CID (1956) di Raj Khosla appartiene alla tradizione dei film sulla malavita. L’ispettore di polizia Shekhar (Dev Anand) indaga sulla morte di un editore: un caso misterioso che prima della soluzione lo vedrà coinvolto in mille peripezie. Il film è dominato dalla presenza misteriosa e affascinante di Waheeda Rehman, di lì a poco stella di prima grandezza del Cinema indiano.
    Altro film memorabile è Ganga Jumna (1961) di Nitin Bose, una storia di dacoit (banditi) in cui si ritrova il binomio dei fratelli contrapposti che era gia apparso in Mother India (di cui si dirà in seguito), un tema che sarà ripreso e sviluppato con successo in molti film degli anni Settanta e Ottanta. In questo caso vi sono sicuri riferimenti ai film d’azione americani, sia western che di gangster. Ganga (Dilip Kumar), divenuto criminale per colpa di un proprietario terriero, torna nel villaggio natale insieme alla sua donna, Dhanno (Vyjayanthimala), che è in attesa di un figlio. Troverà ad attenderlo il fratello Jumna (Nasir Khan, che nella realtà era il fratello di Dilip Kumar), il quale nel frattempo è diventato un integerrimo poliziotto. Jumna sarà costretto ad uccidere il fratello fuorilegge nel tentativo di consegnarlo alla giustizia. Le canzoni del film, con musiche di Naushad ed eseguite da Lata Mangeshkar e Mohammed Rafi, ebbero un successo enorme.
    Da segnalare infine un’altra pellicola molto amata dagli spettatori dell’epoca, Sangam (1964) di Raj Kapoor, un film in ogni caso importante, in quanto inaugura la consuetudine, molto diffusa nell’odierno cinema di Bollywood, delle location all’estero. In Sangam alcune scene furono realizzate in Svizzera e a Parigi.
    I film storico-avventurosi furono numerosi quanto i film d’ambientazione moderna. Ricavati spesso da opere letterarie, antiche e moderne, avevano la caratteristica di avere quasi sempre come personaggio principale una donna. Tra i primi del genere, è da menzionare Shakuntala (1943) di V. Shantaram, adattamento della notissima opera in sanscrito di Kalidasa (IV-V secolo d.C.).
    Uno degli esempi più emblematici fra i film storici è senza dubbio il kolossal in hindi e tamil, prodotto dalla Gemini, Chandralekha (1948), diretto da S.S. Vasan (1903-1969). Un successo clamoroso e senza precedenti in tutto il Paese che però fu definito dal suo stesso autore “una sagra paesana”. Paragonato spesso al Prigioniero di Zenda (1922 e 1937), Chandralekha fu iniziato nel 1943 con la regia di T.G. Raghavacharya e si pensa fosse ispirato alla novella del 1848 di G.M.W. Reynolds Robert Macaire, or The French Bandit in England. Film d’avventura, ambientato in un passato indefinito, narra della rivalità fra due fratelli in lotta per un regno, Veer Singh, il personaggio positivo della storia, e il malvagio Shashank. Oltre al potere, i due si contendono l’amore di Chandralekha, la “bella” del villaggio. Dopo innumerevoli e tumultuose traversie, il principe virtuoso e la leggiadra Chandralekha diventeranno artisti di un circo. Ad un certo momento, però, la ragazza sarà catturata da Shashank, il quale vuole costringerla a sposarlo. La fanciulla, per guadagnare tempo, acconsentirà alle nozze a patto che le sia concesso di eseguire, insieme ai suoi amici artisti itineranti, una danza spettacolare su degli enormi tamburi. La danza si rivelerà essere un vero cavallo di Troia: infatti, dall’interno dei giganteschi strumenti sbucheranno in armi i fedeli sostenitori di Veer Singh, che ingaggeranno una strenua battaglia contro gli scherani di Shashank. In conclusione, ci sarà lo scontro risolutivo fra i due pretendenti al trono e si assisterà al duello più lungo della storia del Cinema indiano. Anche la stupefacente coreografia della danza dei tamburi è rimasta negli annali della storia del cinema mondiale, una danza che aveva avuto un antecedente e un riferimento in quella di Kalpana, film girato nel medesimo anno e negli stessi studi della Gemini. Una particolarità interessante della danza dei tamburi è la sua musica: anticipando di più di quaranta anni le innovazioni di Bollywood, per accompagnare quella stravagante coreografia fu composta una musica inusuale e ibrida in cui si riconoscono motivi tradizionali delle varie regioni dell’India, ritmi sudamericani e perfino il valzer di Strauss.
    In controtendenza con quanto accadeva a Bombay o a Calcutta, nel Sud erano ancora frequenti i film sulla vita dei santi. Un film di culto di questo tipo, simbolo dell’orgoglio culturale dravidico, fu realizzato nel 1953 sempre dalla Gemini: Avvaiyar diretto da S.S. Vasan. Il film, un connubio ben riuscito tra genere musicale e “devozionale”, si basava sulla vita di Avvaiyar, santa e poetessa shaiva (seguace del dio Shiva) della scuola del Sangam (100 a.C.-250 d.C.), identificata con la “Grande Madre” Tamil. Con effetti spettacolari e splendide canzoni, Avvaiyar rappresentava la rinnovata identità politica ottenuta grazie all’Indipendenza.
    Un avvenimento storico realmente accaduto fu proposto nel 1953 da uno specialista del settore, Sohrab Modi. Jhansi ki Rani, un film molto spettacolare con intenti patriottici, era una biografia romanzata di Lakshmibai - interpretata da Mehtab, moglie del regista – la regina di Jhansi che combattè contro gli inglesi durante la rivolta dei sepoy del 1857 e che morì eroicamente nell’assedio di Gwalior.
    Da ricordare inoltre Anarkali, sempre del 1953, di Nandlal Jaswantlal. Tratto da una novella del 1922 di Imtiaz Ali Taj, il film, ambientato durante l’impero Moghul, narra dell’amore impossibile del principe Salim, figlio dell’imperatore Akbar, per la schiava Anarkali. La storia era già stata portata sugli schermi nel 1928 per la regia di Prafulla Roy e Charu Roy e nel 1935 da R.S. Choudhury, ma continuò ad appassionare gli spettatori in numerosi altri film. Infatti, nel 1960 con Mughal-e-Azam si riportò in vita la stessa romantica storia. Il film, uno dei più celebri dell’India, fu diretto da Karimuddin Asif (1924-1971), autore poco prolifico (solo quattro film, di cui due postumi), noto soprattutto per il suo interesse nel trattare tematiche musulmane, come in Phool (1944), tratto da un dramma di Kamal Amrodi. Mughal-e-Azam fu girato parzialmente a colori nel corso di nove anni (quattordici secondo alcune fonti), e si avvaleva della recitazione di alcuni dei più prestigiosi attori del tempo: Prithviraj Kapoor, Dilip Kumar, Durga Khote e Madhubala (Begum Mumtaz Jehan, 1933-1969) nel ruolo di Anarkali. La sua danza all’interno dello Sheesh Mahal (Palazzo degli Specchi) è una delle scene più famose del Cinema indiano. Le musiche furono composte da Naushad, uno dei più virtuosi maestri dell’epoca, mentre le melodie erano cantate da Lata Mangeshkar, considerata fino ai nostri giorni la voce più armoniosa dell’India.
    E infine non si può non ricordare un altro opulento film storico dell’Età dell’Oro: Chitraleka (1964) di Kidar Sharma che aveva realizzato lo stesso film nel 1941. Ambientato nel periodo Gupta (240-535 d.C.), fu interpretato da Ashok Kumar e Meena Kumari, nella parte dell’eroina della storia, la danzatrice di corte Chitraleka.
    In ogni caso, tutti i critici sono concordi nell’affermare che lo spirito del tempo sia rappresentato da quattro figure carismatiche: Mehboob Khan, Bimal Roy, Raj Kapoor e Guru Dutt, definiti unanimemente i “I Quattro Grandi dell’Età dell’Oro”.

    L’Età dell’oro – PARTE SECONDA



    L’Età dell’Oro è stata caratterizzata dall’attività di quattro registi straordinari: Mehboob Khan, Bimal Roy, Raj Kapoor e Guru Dutt. Autori diversi per personalità, tematiche e linguaggio artistico, i “quattro grandi” sono tuttavia legati da alcune caratteristiche di fondo che si ritrovano costantemente nelle loro opere migliori. Innanzi tutto, uno spiccato senso umanistico, manifestazione della loro sensibilità per la grande povertà e per l’ineguaglianza a quei tempi ancora ampiamente diffuse presso la popolazione indiana. In secondo luogo, li accomuna una profonda consapevolezza della cultura passata e presente del proprio Paese, sia nelle forme auliche che negli aspetti popolari. Un terzo dato in comune è una certa idealizzazione dei contadini - benché si riconosca che la città sia l’unico luogo dove poter risolvere ogni arretratezza - e infine, la loro grande maestria nel divulgare le proprie idee, al fine di incoraggiare le masse a un cambiamento radicale.
    La figura di Mehboob Khan (Ramjan Khan, 1906-1964) è leggendaria, fu soprannominato «il Cecil B. De Mille dell’India» per il suo stile melodrammatico e spettacolare. Proveniente da una famiglia povera del Gujarat, fece il suo ingresso nel mondo del cinema nel 1927 come comparsa e factotum,per poi diventare attore. Finalmente, nel 1935, ottenne la sua prima regia.
    Temperamento tenace e versatile, uno dei suoi primi lavori di rilievo è Roti (Il pane, 1942), figurativamente simile a un prodotto dell’Espressionismo tedesco. Nel film si mettono a confronto due modelli di vita: il mondo libero e con valori senza tempo di una coppia di adivasi (aborigeni tribali) e il nuovo stile “cittadino”, rappresentato da un milionario. Dopo un frustrante soggiorno nella grande città, i due contadini torneranno nella loro terra, dove saranno raggiunti dal milionario, il quale avendo subito un irreparabile dissesto finanziario, cerca salvezza in quella sorta di paradiso perduto.
    In un periodo in cui fra gli estremisti indiani dilagava la violenza, Mehboob realizzò Humayun (1945), una biografia romanzata dell’imperatore poeta figlio di Babur, il Moghul che nel XVI secolo aveva conquistato l’India. Il regista in questo kolossal, interpretato da Ashok Kumar e Nargis (“Narciso”, Fatima Rashid), intendeva indicare ai suoi contemporanei un esempio da seguire. Un modello proveniente dal lontano passato, quando per musulmani e induisti era stato possibile vivere insieme pacificamente, grazie a una reciproca tolleranza. Il film fu apprezzato da De Mille che in una lettera lo descrisse come “un capolavoro per l’uso delle luci e la composizione delle scene”.

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    Il melodramma Andaz (Stile, A Matter of Style o Beau Monde, 1949) è incentrato, come Roti, sulla contrapposizione degli stili di vita. Nita (Nargis), una ereditiera occidentalizzata, con il suo comportamento moderno e disinvolto fa credere all’amico Dilip (Dilip Kumar) di essere innamorata di lui. Nita lo ucciderà per dimostrare al marito Rajan (Raj Kapoor) di essersi ravveduta e pagherà con la prigione l’essersi comportata in maniera non tradizionale. Il film è particolarmente notevole per i testi delle canzoni di Majrooh Sultanpuri e per le musiche di Naushad.
    Nel 1952, Mehboob fu autore di Aan (Onore), il primo kolossal indiano in Tecnicolor (che fu distribuito in Inghilterra con il titolo Savage Princess e in Francia con quello di Mangala, Fille des Indes, nonché mostrato ad Hollywood proprio a De Mille). La storia, ambientata in epoca moderna, narra di un coraggioso e fedele capo clan Rajput che difende il suo maharaja dai tentativi di usurpazione messi in atto da uno dei figli del re.
    La sua opera più nota è Bharat Mata (Madre India), un remake del 1957 del suo precedente Aurat (Donna, 1940). Bharat Mata è forse il film più famoso e acclamato della storia del cinema indiano, il corrispettivo asiatico di Gone with the Wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming. Analizzato fin nei minimi dettagli da tutti i critici, questo film viene generalmente etichettato come il massimo esempio di quell’ “epica nazionale” nata all’indomani dell’Indipendenza. La vecchia contadina Radha, assurta quasi a simbolo della Nazione Indiana, ricorda la sua vita di moglie e di madre e l’indomita lotta per la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia, oppressa da Sukhilala, l’usuraio del villaggio. Dopo molte traversie, un giorno viene abbandonata dal marito, che ha perso entrambe le braccia in un incidente di lavoro, poi dovrà subire la violenza di Sukhilala e perderà uno dei figli, Ram, durante un’alluvione. Infine, per un innato senso di giustizia, ucciderà il figlio ribelle, Birju, pur essendo il suo preferito, che ha assassinato l’usuraio e ne ha sedotto per vendetta la figlia. Radha, una idealizzazione della figura femminile, il cui ruolo tradizionale è quello di assicurare la stabilità della famiglia, diventerà per gli abitanti del suo villaggio un modello da imitare, appunto perché con la sua fiducia nel futuro incarna i concetti di equilibrio e continuità. Bharat Mata, che come linguaggio cinematografico si rifà in parte ad Aleksandr Dovženko, per alcuni critici è una grande sintesi di temi psicoanalitici e di simbolismi che rimandano anche alle antiche religioni dell’India (Radha è ad un tempo la Dea-Madre e Kali). Per altri, è lo studio di una cultura in conflitto con se stessa. Ad alcuni Bharat Mata potrebbe sembrare un film po’ retorico, anzi i suoi detrattori lo accusano di esaltare gli aspetti più retrivi della società indiana, ma per capirlo bene bisogna inserirlo nella giusta prospettiva storica. Grazie ad una perfetta ambientazione, alle splendide musiche di Naushad, alle spettacolari coreografie e alle capacità recitative degli attori - in primo luogo Nargis, che per questo film ottenne una nomination all’Oscar e il premio come migliore attrice al Festival di Karlovy Vary - Bharat Mata rimane ancora oggi un vero capolavoro del cinema ed è il film che sintetizza tutta l’opera di Mehboob.

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    Il secondo Maestro, Bimal Roy (1909-1966), nacque a Dacca in una famiglia di zamindar ed esordì a Calcutta come direttore della fotografia. Fra i “quattro grandi” è considerato il più “umanista” e, nello stesso tempo, il più “riformista”, in quanto nelle sue opere usa toni sempre misurati e non scivola mai nel sentimentalismo di maniera, anche quando affronta temi melodrammatici. Si ritiene che sia stata la sua prima regia, Udayer Pathey (Verso la Luce, 1945), ad aver indicato la strada verso il neorealismo, una strada seguita successivamente da quasi tutto il cinema bengalese. Trasferitosi a Bombay, realizzò Do Bigha Zamin (Due acri di terra, 1953), vincitore del Premio Internazionale della Critica al Festival di Cannes. Fin dagli anni Trenta la storia di Due acri di terra non era certo nuova per il cinema indiano, essendo il tema di fondo del film il consueto contrasto tra i contadini e i proprietari terrieri. In questo caso, però, oltre a un sicuro riferimento al neorealismo italiano, vi è una sobrietà narrativa e un equilibrio formale che ne fanno un vero capolavoro. Ma tutti i film di Roy sono artisticamente notevoli, qualunque sia il loro genere.
    Come già sappiamo, uno dei soggetti che maggiormente hanno interessato il cinema indiano è Devdas. Un magistrale rifacimento - un’opera per molti critici addirittura superiore a quella di Barua - è il remake del 1955 di Bimal Roy. Essendo stato direttore della fotografia del mitico filmdel 1935, Roy dedicò la sua personale interpretazione di Devdas a Barua e a Kundan Lal Saigal, protagonista della versione in hindi. Come già sappiamo, il soggetto, fortemente sentimentale, tipico della letteratura del Bengala, ha per tema centrale il conflitto tra l’individuo e il conservatorismo della società in cui vive. Abbiamo detto, però, che Bimal Roy è considerato l’artefice, con Due acri di terra, di quel rinnovamento, in senso realista, che in seguito si verificherà in una parte del cinema indiano. E infatti, anche un grande melodramma come la novella di Chatterjee non lo fa scivolare nell’affettazione intimista. Roy coglie aspetti psicologici della storia prima inesplorati o ne propone di nuovi, si veda ad esempio quanto spazio del racconto e quanta cura è dedicata ai personaggi principali ancora bambini, oppure al pungente sarcasmo che caratterizza l’ “eroe perdente”. Anche in questo caso, interpreti d’eccezione: Dilip Kumar, il primo attore veramente naturalista del cinema indiano, Suchitra Sen e Vyjayanthimala.
    Altro tema apparso più volte sugli schermi indiani era quello degli intoccabili, basti pensare a Achhut Kanya. In Sujata (1960) Roy affronta lo stesso argomento in tono apparentemente più lieve. Nel suo film, infatti, la protagonista, Sujata, non sa di essere una “fuori casta”, essendo stata adottata da bambina da una famiglia brahmana. L’evolversi drammaturgico della storia, per nulla banale, avrà per conseguenza un lieto fine.
    Altro film drammatico, ispirato a una storia realmente accaduta, è Bandini (La detenuta, 1963). Ambientato negli anni Trenta, cruciali per l’Indipendenza indiana, narra di una donna, accusata di omicidio, che attende serenamente la sua condanna. La storia, in flashback, ci fa conoscere i motivi della sua detenzione. Per salvare un nazionalista, la donna aveva dichiarato di essere la sua sposa. Il padre di Kalyani - la protagonista, interpretata splendidamente da Nutan - insiste, per il buon nome della famiglia, che la figlia lo sposi davvero. Quando la ragazza scoprirà che il terrorista è già sposato e che ha anche abbandonato la moglie, per salvare l’onore, la troverà e la ucciderà. Il film fu definito tecnicamente perfetto da tutti i critici.
    Il realismo di Roy si era però bruscamente interrotto anni prima con un film inusuale, Madhumati (1958), la storia di una reincarnazione. Dato l’argomento, caro agli spettatori indiani, e grazie all’interpretazione di Dilip Kumar e della splendida Vyjayanthimala, alle canzoni di Shailendra e alle musiche di Salil Choudhury, Madhumati fu il maggiore successo di Roy. In ogni caso, benché apparentemente sia un soggetto estraneo alla poetica “sociale” del regista – la sceneggiatura in effetti è di Ritwik Ghatak, uno dei più grandi autori del Bengala – il risultato artistico è egualmente eccellente.
    Nello stesso anno uscì nelle sale un altro film singolare firmato da Roy: Yehudi (L’Ebreo), una sorta di remake di Yehudi ki Ladki (La Figlia dell’Ebreo, 1933) dello scrittore bengalese Premankur Atorthy (1890-1964). Si tratta di un dramma storico che, sebbene “indianizzato”, si occupa di un tema molto raro e apparso, fino ad oggi, solo quattro volte nel Cinema indiano: l’oppressione degli ebrei da parte dei romani. Bimal Roy fu anche un grande documentarista e in questo settore sono almeno due i titoli da citare. Il primo è Bengal Famine (La carestia del Bengala), girato nel 1943, in cui si documenta, con sensibilità, umana partecipazione e indignazione sociale, l’immane e assurda tragedia che si stava compiendo nella sua terra natale. Di notevole interesse e di alta qualità visiva, Images of Kumbh Mela (Immagini del Kumbh Mela). Il film, postumo, è stato completato nel 1999 dal figlio del regista, Joy, il quale ha dato una coerenza narrativa alle scene che il padre aveva girato nel 1960 ad Allahbad e ad Hardwar, in occasione della celebrazione della più importante e spettacolare festa dell’induismo. Si riteneva che tale materiale fosse andato disperso, poi furono ritrovati 78 minuti di quei sopralluoghi filmati. Bimal Roy, infatti, intendeva realizzare su tale soggetto un film (che non andò in porto), Amrit Kumbh ki Khoj, tratto dal racconto Amrita Kumbher Sandhaney di Samaresh Bose. Le bellissime sequenze di Bimal Roy hanno permesso al figlio di costruire un piccolo gioiello. Nonostante la sua brevità (undici minuti) e la mancanza di commento (solo immagini e musica), Images of Kumbh Mela riesce a far comprendere allo spettatore alcuni degli aspetti più significativi di quel grande evento religioso, coinvolgendolo nell’atmosfera fuori dal tempo della «Festa del Vaso».


    L’Età dell’oro – PARTE TERZA



    Produttore, regista e attore di cinema e di teatro tra i più acclamati, Raj (Ranbinrraj) Kapoor (1924-1988) è considerato, proprio per la sua multiforme personalità, l’esponente più illustre della sua già celebre famiglia. Infatti, era figlio di Prithviraj Kapoor, uno degli attori di maggior talento tra gli anni Trenta e Sessanta, e fratello di Shammi e Shashi, rispettivamente attore e produttore e regista oltre che attore, appartenente quindi a una di quelle film family - grandi clan composti da cineasti che ripropongono la joint family indiana - ancora oggi presenti sulla ribalta del Cinema dell’India.
    Nel 1948 inaugura con Aag (Fuoco) la sua Casa di Produzione, la R.K. Films, e debutta come regista. Interprete principale del filmcon Nargis, che lo affiancherà sullo schermo per altre 11 volte, affida al fratello Shashi la parte del protagonista da adolescente. In Aag, Kewal è un giovane contadino in conflitto con il padre, uomo dalle idee ristrette che lo scaccia via da casa. Ossessionato dal ricordo di un amore d’infanzia perduto (un riferimento a Devdas), Kewal è divorato da un fuoco interiore: sogna di dirigere un teatro. Alla fine il giovane contadino realizzerà le sue aspirazioni: avrà il suo teatro, dove Nimmi (Nargis) diventerà la prima attrice. Secondo le parole di Raj Kapoor, Aag voleva ritrarre la personalità di un uomo “consumato dal desiderio di una vita più intensa e felice”.
    Il film più famoso di questo regista è Awara (Il vagabondo, 1951), che ha per base una sceneggiatura di K.A. Abbas in cui si pone una domanda ad un tempo sociologica e genetica (e forse metafisica). Di fatto, è un’analisi dell’alienazione dell’individuo nella metropoli, sviluppando un quesito ambizioso, ossia se le azioni dell’uomo siano determinate dall’ineluttabilità del fato o non dipendano, invece, da fattori ambientali esterni. In pratica, sembrerebbe una verifica della veridicità della teoria del karma, uno dei pilastri delle credenze dell’induismo, con l’ottica della scienza moderna. Ed ecco la dimostrazione di questo singolare teorema. Il giudice Raghunat (Prithviraj Kapoor) condanna il bandito Jagga, solo perché il padre di quest’ultimo era a sua volta un criminale. Jagga riesce a fuggire, rapisce Bharti (Leela Chitnis), moglie del magistrato, e ne alleva il figlio con lo scopo di dimostrare che il figlio di un uomo di legge può diventare un delinquente. Da adulto, il figlio del giudice, Raju (Raj Kapoor), avendo scoperto ciò che era accaduto alla madre, uccide Jagga per vendicarla e tenta anche di assassinare il padre. Al processo, la sentenza di colpevolezza di Raju sarà pronunciata proprio da Raghunat il quale, però, avendo capito di essere stato fuorviato dai suoi pregiudizi, accetterà Raju come figlio, pronto ad accoglierlo nella sua casa una volta scontata la pena. Lo attenderà anche Rita (Nargis), l’amore della sua infanzia, che aveva sempre cercato di redimerlo.
    Meno intellettualistico e più riuscito artisticamente, Shri 420 (Il Signor 420, essendo il 420 il numero dell’articolo del Codice Penale indiano per la frode), realizzato nel 1955 e interpretato dallo stesso Raj Kapoor, che si ispirò a Chaplin. Raju, un giovane e ingenuo campagnolo, cerca fortuna nella grande città dove si innamora dell’insegnante Vidya (Conoscenza). Ma Raju viene sedotto da una famme fatale dal nome altrettanto significativo, Maya (Illusione) che lo introduce nel mondo della malavita. I suoi nuovi “amici” gli chiedono di raggirare i diseredati fra cui vive. Ma Raju si ribella e, insieme alla sua innamorata, decide di abbandonare quella città corrotta e brutale. Il film ebbe un grande successo commerciale grazie ad alcune sequenze particolarmente gradite al pubblico – ad esempio, il duetto dei protagonisti sotto la pioggia e il suggestivo lieto fine – e alle splendide canzoni cantate da Lata Mangeshkar e Mukesh.
    L’ultimo Maestro dell’Età dell’Oro è Guru Dutt (1925-1964), ossia Gurudatta Shivashankara Padukone, nato nel Sud dell’India a Bangalore, che riuscì a infondere, come nessun altro cineasta indiano aveva mai fatto - eccezion fatta per Ritwik Ghatak - un profondo lirismo in tutti i film da lui diretti, anche in quelli più commerciali. Educato a Calcutta presso la scuola di Uday Shankar, iniziò la sua carriera come coreografo ed aiuto regista. Attore, regista e produttore, sposato con la celebre cantante Geeta Roy, ha realizzato nella sua breve vita - morì suicida - solo otto film.
    I primi, Baazi (La partita, 1951), Jaal (La rete, 1952), Baaz (Il falco, 1953) e Mr. And Mrs. 55 (1955) – una intelligente commedia moderna sulla tradizione dei matrimoni combinati, interpretato dallo stesso Guru Dutt e dalla stella di prima grandezza Madhubala - sono tutti di ambientazione urbana e mostrano una grande maestria figurativa.
    Poi, quasi improvvisamente, si verificò una trasformazione radicale nel pensiero di Guru Dutt. Nel suo animo si insinuò un pessimismo senza speranze, un malessere da cui nacque una trilogia di indiscussi capolavori: Pyaasa (L’assetato), Kaagaz ke Phool (Fiori di carta) e Sahib, Bibi aur Ghulam (Il Signore, la Signora e il Servo).


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    Il tema centrale di Pyaasa (1957) è la sete insaziabile che tormenta ogni artista per essere riconosciuto tale. Un desiderio che si scontra drammaticamente con una società priva di sentimenti, in cui imperano soltanto la regola del profitto economico e gli intrighi di potere. Un giovane sognatore, Vijay, interpretato dallo stesso Guru Dutt, viene scacciato dai fratelli maggiori in quanto “improduttivo”: i manoscritti delle sue poesie sono venduti come carta straccia ad un rigattiere. Una notte, il poeta riuscirà a ritrovarle, ascoltandole per caso da una ragazza che le declama rapita: le ha comprate per pochi spiccioli da uno straccivendolo. Il fatto sorprendente è che quella fanciulla così sensibile è una donna di strada. Il ruolo della prostituta è recitato da Waheeda Rehman, una grande attrice la cui delicata bellezza esteriorizza perfettamente la nobiltà d’animo di Gulabo, un personaggio in cui si è voluto vedere una sorta di citazione della Chandramukhi di Devdas, ma che lo sceneggiatore Alvi affermò essere invece una donna reale - il cui nome era proprio Gulabo - da lui conosciuta casualmente. Poi Vijay riuscirà ad ottenere un lavoro con cui poter campare: sarà assunto come factotum (in pratica come cameriere) da Mr. Ghosh, potente editore, marito della sua ex innamorata Meena, che evidentemente aveva preferito la sicurezza economica alla poesia. Tuttavia, incapace di sopportare quella vita umiliante, Vijay decide di suicidarsi. Prima di togliersi la vita, dona la sua giacca ad un barbone. Il mendicante tenterà di salvarlo dal treno che sta per travolgerlo, ma morirà in sua vece, mentre il sopravvissuto si allontana in stato di shock. Poiché il cadavere è irriconoscibile e ha i documenti del poeta dentro la giacca, per la società Vijay risulta essere morto. Gulabo non si rassegna all’idea che le bellissime poesie del suo innamorato non siano conosciute dal mondo. Riesce a farle pubblicare, ovviamente a sue spese, da Mr. Ghosh. Il successo editoriale è inaspettatamente clamoroso. Tutti, eccetto Gulabo, si spartiscono allegramente il ricco bottino. Vijay riprenderà conoscenza nell’ospedale dove è ricoverato, ascoltando proprio una delle sue poesie, letta da una infermiera. Riacquista la memoria, va a reclamare i suoi diritti. Viene accolto tutt’altro che trionfalmente. Anzi, editore, parenti e amici fanno finta di vederlo per la prima volta nella loro vita: si sa che un artista morto rende più di uno vivo. Infine, sarà riconosciuto come autore di quei capolavori durante una commemorazione del “grande poeta scomparso”, cioè di se stesso. Ma Vijay è ormai disgustato dalla meschinità della gente. Sconfesserà la sua opera artistica, negherà la sua identità e insieme a Gulabo si allontanerà da quel mondo a cui non vuole chiedere più nulla. Pyaasa, ispirato alla novella Srikanta di Sarat Chandra Chatterjee, è un grande melodramma romantico (severamente vietato ai cinici) in cui le belle sequenze girate da V.K. Murthy, il direttore della fotografia quasi sempre al fianco di Guru Dutt, si fondono perfettamente con le musiche di Sanchin Dev Burman, lo stesso compositore del Devdas di Roy, e i ghazal (forma di canto poetico in urdu del XIII secolo) di Sahid Ludhianvi. Pyaasa è certamente il capolavoro di Guru Dutt ed è anche il suo manifesto artistico e umano.
    Il regista continua nella sua visione pessimistica realizzando nel 1959 Kaagaz ke Phool, un film quasi autobiografico. Paragonato a Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Orson Welles, è stato interpretato come un inno al Cinema e, nello stesso tempo, come un ammonimento contro il suo potere artificiale e distruttivo, un potere che non può creare la vita ma solo effimeri «fiori di carta». La trama, dalla struttura assai complessa, si svolge in una continua alternanza di presente e passato. Suresh Sinha, una volta grande regista, rivisita gli Studios che gli avevano dato la fama. Vede tutta la sua vita scorrergli sotto gli occhi, da artista acclamato ad uomo fallito. Il giorno successivo, viene ritrovato morto nell’immenso spazio vuoto del teatro di posa: seduto sulla sua sedia di regista. Fiori di carta è il primo film indiano in Cinemascope, vi è una inventiva ricerca formale con un significativo contrappunto di spazi pieni e vuoti, si avvale della splendida musica di Burman, con testi del celebre poeta Kaifi Azmi, è recitato magnificamente da Guru Dutt e Waheeda Rehman, ma, al contrario di Pyaasa che riscosse un enorme successo, fu un fiasco completo. Da quel momento, Guru Dutt non volle più firmare nessun film.
    Ambientato nel XIX secolo e tratto dall’omonima novella del 1952 di Bimal Chitra, Sahib, Bibi aur Ghulam (1962) è stato definito uno dei gioielli del Cinema indiano. La regia reca la firma dello sceneggiatore Abrar Alvi, ma non c’è alcun dubbio che il vero autore sia stato Guru Dutt, che si teneva nell’ombra perché temeva un nuovo insuccesso. Il film è un affresco a fosche tinte della lenta decadenza, fisica e morale, di un casato aristocratico bengalese e in questo senso è paragonabile a Jalsaghar (La Sala della Musica, 1958) di Satiajit Ray. Bhoothnath, (Guru Dutt), un giovane di bassa casta ma ben istruito, proveniente da un villaggio, che lavora in un’azienda di Calcutta, soggiorna nell’haveli di uno zamindar. Divenuto confidente di Chhoti Bahu (Meena Kumari, la migliore attrice drammatica del tempo), moglie infelice del feudatario, Bhoothnath funge da narratore degli ultimi 30 anni di quella famiglia in estinzione. Il giovane, sebbene fidanzato con la radiosa Jaba (Waheeda Rehman), figlia del proprietario della fabbrica in cui lavora, è affascinato da quella donna disperata e vorrebbe aiutarla, ma la sventurata, durante un tentativo di fuga, viene assassinata perché sospettata di adulterio. Anni dopo, Bhoothnath, diventato architetto, presiederà alla demolizione dell’antica dimora dello zamindar, ormai in rovina. L’intera storia del film è narrata in flashback. Per ironia della sorte, Sahib, Bibi aur Ghulam non solo ebbe un grande successo nelle sale ma vinse numerosi premi, tra cui quello per la regia.
    Forse qualcuno potrebbe chiedersi, a conclusione della breve panoramica sui “quattro grandi”, perché nessuno di essi, nonostante la loro inventiva, il loro carisma e la loro capacità di comunicare con un vasto pubblico (ciò che oggi si definisce “intrattenimento”), cercò di sovvertire le regole ormai consolidate del Cinema Hindi. La risposta è che in quegli anni non vi era differenza - forse a ragione - tra cinematografa popolare e film d’arte. La distinzione fra prodotti commerciali e cinema d’autore, già esistente in Occidente, apparirà in India soltanto negli anni Settanta.

    Si ringrazia il sito ufficiale dell' enciclopedia TRECCANI
    ;)

    A domani con l' interessantissima terza parte di questo megaspecialone sul cinema indiano! :woot: :festa:


     
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  5. LARETTA
     
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    Ottimo e Abbondante :festa: :vojo:
     
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    ci mancano solo le indiane e siamo al completo! :-/
     
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    si mò metto le foto di ragazze indiane, problemi? :mad: :mad:
     
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  9. LARETTA
     
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    HA HA HA : tu e Alias siete sempre in lotta sulle "etnie" :prr: :faride:
     
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    Bene, passiamolo alla terza parte del nostro "documentario" sul cinema indiano! :P


    CAPITOLO 3: IL BENGALA



    Per comprendere meglio la cinematografia bengalese - che alcuni occidentali hanno ritenuto per molto tempo essere l’unica espressione di Cinema d’Arte esistente in India - sarà utile delineare un sintetico panorama del patrimonio socio-culturale del Bengala: una eredità storica che lo contraddistingue da ogni altra realtà presente nella Nazione indiana.
    Già nei primi anni del Seicento, gli inglesi individuarono nel Bengala la zona ottimale da cui intraprendere scambi commerciali nel subcontinente e in altri paesi dell’Oriente. Calcutta - l’antica Kalakata, da Kali Khota (Il villaggio di Kali), oggi Kolkata - fondata nel 1698 (sui tre villaggi di Kalakata, Sutanati e Gobindapur) intorno alla fattoria fortificata eretta dal capitano Job Charnock nel 1690, divenne, dal 1757 (ufficialmente dal 1772), la base centrale della East India Company.
    In breve tempo, nella nuova città si concentrò una élite autoctona di commercianti, proprietari terrieri e professionisti, ossia di una “classe media”, la cui esistenza ed eterogeneità era anche dovuta ad un sistema di casta meno rigido rispetto a quello vigente nelle altre parti dell’India.
    Dal 1858, con l’esautorazione del potere della Compagnia e l’annessione dell’India alla corona inglese, Calcutta divenne la capitale del British Raj e quella classe media, costituita da bhadralok (“gente istruita”) e babu (gentiluomini) formatasi nei College istituiti dagli inglesi, era entusiasta della modernizzazione e propensa ad adottare una parziale “occidentalizzazione” del Paese. Molti bhadralok, infatti, facevano parte della stessa amministrazione britannica.
    Per importanza, la “Città dei Palazzi”, così era definita Calcutta per la bellezza delle sue architetture vittoriane, era considerata la seconda città dell’Impero britannico. Frequentata da un gran numero di viaggiatori europei, ricchi ed eruditi, offriva agli abitanti e ai visitatori una vita culturale e mondana vivace e stimolante. Ovviamente, per motivi amministrativi, militari ed economici - la sede centrale della Compagnia delle Indie si trovava proprio a Calcutta - i residenti inglesi erano numerosi. Le occasioni d’incontro fra le due culture, quella occidentale e quella orientale, erano quindi frequenti, maggiori di quelle che si potevano avere in altre grandi città coloniali, quali Bombay e Madras che, comunque, si svilupparono in un periodo successivo. E’ nella capitale del British Raj che si realizzarono le prime iniziative culturali moderne - ad esempio la costituzione dell’Asian Society, nel 1784, e la costruzione dell’Indian Museum nel 1875 – e dove vennero pubblicati in inglese i primi quotidiani (Sambad Prabhakar) e le prime riviste (Vividartha Sangraha, Samachar Darpan) del subcontinente. Fu soprattutto a Calcutta, quindi, che gli indiani ebbero modo di conoscere da vicino e a fondo il pensiero, le abitudini e la cultura degli europei, di cui non poterono non apprezzare l’efficiente pragmatismo ed alcuni principi democratici.

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    Tuttavia, nonostante tanta ammirazione e interesse verso l’Occidente, il primo discorso nazionalista fu tenuto proprio da un professore dell’Hindu College di Calcutta (fondato dagli inglesi nel 1816), il filosofo e poeta indo-portoghese Henry Louis Vivian Derozio (1809-1831), il quale aveva fondato un’associazione, la Young Bengal, che si opponeva all’autorità dell’amministrazione inglese e a quella dell’induismo conservatore. Infatti, anche in campo religioso, il Bengala – che da secoli non seguiva più il rigore ritualistico brahmanico, bensì la fede shaiva (del dio Shiva), il bhakti marga (via della devozione), tributato a Krishna, e le credenze sulle varie manifestazioni della divinità femminile primitiva (la Shakti, in primo luogo nel suo aspetto di Kali) – negli stessi anni riesaminò i propri principi teologici, alla luce anche del pensiero occidentale, dando l’avvio con il bramano Ram Mohan Roy (1772-1833), funzionario della Compagnia delle Indie dal 1804 al 1815, alla grande riforma del 1828 del Brahmo Samaj (“Società dei credenti nel Brahman”). Roy proponeva una versione monoteista dell’induismo, priva di culti cerimoniali e di caste, basata, come l’antico Advaita Vedanta, esclusivamente sui Veda, i più antichi e venerati testi sacri dell’India.
    Anche successivamente, altri riformatori religiosi, quali Ramakrishna Paramahansa (1836-11886) e il suo discepolo Swami Vivekananda (1862-1902), sebbene partissero da esperienze e principi diversi, furono interessati in una certa misura al cristianesimo e, nel caso di Vivekananda, si propugnò la sintesi tra la spiritualità indiana con il sapere scientifico e il progresso materiale dell’Occidente, un sincretismo che avrebbe potuto ricostituire una identità nazionale dell’India. Quindi, nell’Ottocento sorge nel Bengala quello che viene definito il Revival bengalese o, in senso più lato, il Risorgimento indiano, che fece di Calcutta anche la capitale intellettuale dell’India. Furono sempre i pensatori bengalesi, soprattutto i numerosi scrittori, ad iniziare a formulare un’elaborazione concettuale della tradizione indiana, avendo come obiettivo una definizione dell’India come Nazione.


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    Notoriamente, la personalità di maggior spicco fra questi innovatori è quella di Rabindranath Tagore (1861-1941), nipote del filosofo Dvarkanath (1794-1846), uno dei fondatori del Brahmo Samaji, e figlio di Debendranath (1817-1905), a sua volta filosofo e fondatore di una società religiosa che confluì nel Brahmo Samaji. Da parte sua, Tagore, primo artista asiatico ad essere stato insignito nel 1913 del premio Nobel per la Letteratura, nel 1901 fondò a Shantiniketan (100 km. a Nord di Calcutta), la Vishva Bharati, una scuola ed una università modello che si basavano sulla tradizione indiana, ma che tenevano conto della cultura occidentale.
    Dal nostro punto di vista, Tagore è anche importante per l’interesse mostrato verso il Cinema, che riteneva fosse un mezzo d’espressione artistico pari alle altre arti, anche se ammoniva che avrebbe dovuto svilupparsi autonomamente, senza legami con la Letteratura. In effetti, le parole di Tagore non sembra siano state ascoltate: i film tratti dai suoi scritti si contano a centinaia e, per quanto riguarda il cinema bengalese, c’è da dire che un gran numero dei suoi prodotti sono adattamenti cinematografici di opere letterarie.
    Oggi è universalmente accettato che la caratteristica dominante del cinema bengalese sia la sua forte connotazione sociale e politica. Ed anche in questo caso vi sono ragioni storiche, basti ricordare che il vero e proprio risorgimento indiano nasce ufficialmente nel 1876 a Calcutta, con la costituzione dell’Indian Association da parte di un bhadralok, l’ex funzionario dell’Indian Civil Service Surendranath Banerjea (1848-1925). Tale società doveva essere, secondo le parole del suo ideatore: “il centro di un movimento pan indiano, basato sulla concezione di un’India unita”. Sempre a Calcutta, lo stesso Banerjea creò, nel 1885, il Congress Party, il movimento indipendentista che portò alla liberazione dell’India, cui aderivano Gandhi e Nehru. Ed è ancora nella stessa città che nel 1905 sorse il più volte menzionato movimento Swadeshi, in reazione alla divisione del Bengala voluta da Lord George Curzon. La decisione del Vicerè fu revocata, ma dal 1911 la capitale dell’India britannica fu trasferita dalla turbolenta Calcutta alla pacifica Delhi. In ogni caso, Calcutta continuò ad essere, fino all’Indipendenza, la capitale morale e culturale dell’India. In seguito, fu sempre nel Bengala, e proprio per il suo particolare passato storico, che si svilupparono i movimenti politici o artistici più progressisti.
    Tornando a quanto ci riguarda direttamente, possiamo dire che già intorno agli anni Trenta la produzione cinematografica bengalese iniziò a differenziarsi da quella delle altre regioni, poiché a Calcutta si realizzavano quasi sempre film di soggetto contemporaneo, sotto la spinta del movimento letterario modernista e realista Kallol (“L’Onda Ruggente”), nato nel 1923. Nello stesso tempo, il Bengala diventava il centro di diffusione, nel settore artistico e in quello politico, di certe forme radicali che interagivano fra loro. Dell’importanza culturale dei Madan Theatres, dei New Theatres, fondati da B. Sircar nel 1931, e dell’Indian Peoples Theatre Association, nata a Londra nel 1935 e successivamente trasferita a Calcutta nel 1943, si è già parlato. In questa sede, è da segnalare la creazione di altre importanti istituzioni: nel 1936 la Bengal Motion Picture Association e gli studidi Tollygunge, sorti nei pressi di Calcutta, teatri di posa dotati di ogni genere di attrezzatura tecnica.
    Di regola, le trame dei lungometraggi avevano come riferimento il teatro moderno bengalese, derivante da quello eroico-melodrammatico vittoriano, e la letteratura in genere. Da osservare, inoltre, che anche i film più commerciali non raggiungevano mai gli eccessi, per numero di canzoni, musiche e danze, dei corrispettivi prodotti confezionati a Bombay e Madras. Da notare, infine, che fin dai suoi esordi la cinematografia bengalese ha sempre potuto contare sull’apporto recitativo di ottimi attori, quasi tutti provenienti dal teatro, e che è sempre stata caratterizzata, sia per quantità che per qualità, da una rilevante produzione di documentari.
    Tra i tanti autori di qualità, che a volte si cimentavano nel genere popolare, si possono menzionare: Charu Ray - notevole il suo Bangali (1936), un’indagine attenta e pacata su una famiglia del ceto medio – Madhu Bose, trasferitosi a Bombay ma educato a Shantiniketan, infatti molti dei suoi film derivano da novelle di Tagore – tra le sue opere migliori Ali Baba (1937), una divertente e misurata fantasia musicale, e Raj Nartaki (La Danzatrice di Corte, 1941), in bengali, hindi e inglese in quanto fu il primo film indiano ad essere proiettato negli Stati Uniti – il più volte citato Nitin Bose – in questo contesto, oltre al già accennato Ganga Jumna (1961), due i film da segnalare: Desher Mati (La terra Madre, 1938), stilisticamente affine a Dovzhenko, sulla crisi causata da un tentativo di rivoluzione tecnologica in un’area rurale, e l’altrettanto impegnato socialmente Jiban Maran (1939) – Sailajananda Mukherji – tra i suoi film, Shahar Theke Dooray (Lontano dalla città, 1943), sul consueto tema del contrasto fra la metropoli e la campagna, e Mane na Mana (Il cuore non è d’accordo, 1945), in cui si esaltano le gioie di una famiglia unita.
    Fra i registi operanti nel periodo immediatamente successivo all’Indipendenza, sono da rammentare: Hemen Gupta – si vedano, ad esempio, 1942 (girato nel 1949), un film anticolonialista, e Taksaal (La Menta, 1956), melodramma contro il potere corruttore del denaro - Nemai Ghosh – autore del celebre Chinnamul (Gli Sradicati, 1950), sui rifugiati del 1947, ispirato dalla tradizione del verismo umanistico, che alcuni critici ritengono sia stato il primo film bengalese autenticamente realista, alla cui sceneggiatura pare abbia partecipato Satyajit Ray (molto amico di Nemai Ghosh) e che annoverava fra i suoi interpreti Ritwik Ghatak – e Nirmal Dey che nel 1953 realizzò una commedia sentimentale di enorme successo: Sharey Chuattar (Settantaquattro e mezzo).
    Proseguendo cronologicamente, si possono ancora menzionare: Asit Sen – da ricordare il notevole Deep Jwaley Jai (Le Lampade continuano ad ardere, 1959), un film psicologico in cui un’infermiera, per assistere i malati di mente, si sostituisce alla figura materna, di cui il regista fece un noto remake in hindi, interpretato da Waheeda Rehman, Khamoshi (Il Silenzio, 1969), dove la protagonista si innamora di un suo paziente - Rajen Tarafdar, il cui The River Ganga (1961) fu presentato al Festival di Venezia, e Ajoy Kar di cui ricordiamo Saptapadi (1961), storia complessa di uno studente induista che diventa gesuita perché il padre non acconsente al suo matrimonio con una ragazza anglo-indiana, e Saat Pake Bandha (Sette passi per il matrimonio, 1963), un dramma sull’incomunicabilità nel matrimonio.
    Giungendo a tempi più recenti, sono da segnalare: Arundhati Devi, attrice e musicista, i cui film più significativi sono Chhuti (La Vacanza, 1967), un delicato melodramma familiare, e la fiaba per bambini Padi Pishir Barmi Baksha (La Scatola di Burma della Zia Padi, 1972), Tarun Majumdar, il cui lavoro più ambizioso è Ganadevata (Gente, 1978), adattamento di una novella bengalese di successo sulla Seconda Guerra Mondiale, e Nabyendu Chatterjee - i cui film hanno spesso per soggetto la decadenza dei valori familiari presso la classe media bengalese e l’oppressione delle donne nelle zone rurali – autore di due interessanti opere sulla carestia del ’43, Aaj Kaal Prashur Galpa (Oggi, domani e il giorno dopo, 1981) e Shilpi (Il Sognatore, 1993).
    Il più noto fra questi autori è, però, Tapan Sinha, un eccellente professionista attivo fino alla metà degli anni ‘90 che realizzò anche numerosi film per bambini, i cui lavori furono quasi sempre ispirati a opere letterarie, soprattutto a quelle di Tagore. A questo proposito, sono da segnalare Kabuliwallah (Il venditore ambulante di Kabul, 1956), una bella storia sull’amicizia di un venditore di spezie, che sarà arrestato per omicidio involontario, e una bambina che gli ricorda la figlia lasciata in Afghanistan, premiato con l’Orso d’Argento al Festival di Berlino del 1957 per le musiche composte da Ravi Shankar, e Athithi (L’Ospite, 1965), che narra di un ragazzo nato in uno sperduto villaggio che vuole scoprire il mondo, film quest’ultimo che fece ottenere al regista un certificato di merito al Festival di Venezia.


    Ok, adesso inzieremo ad esaminare e a conoscere più fondo alcuni registi indiani, che secondo noi, hanno rappresentato il simbolo e l' evoluzione del cinema indiano soprattutto nei primi anni della sua formazione, e della sua affermazione ^_^

    Satyajit Ray – PARTE PRIMA



    Satyajit Ray (1921-1992) è senza dubbio l’autore indiano più ammirato dal pubblico e dalla critica internazionale. Lo stesso regista era stupito dall’essere diventato un’icona e firmava scherzosamente con il soprannome che a causa delle sue molteplici doti artistiche i suoi amici gli avevano conferito fin da ragazzo: Manik o Manikda («Il Gioiello»). Forse, una cosa da sottolineare immediatamente è che in Asia una personalità artistica del suo livello, capace di spaziare in ogni settore dell’arte e tra culture così diverse quali l’orientale e l’occidentale, è riscontrabile, in campo cinematografico, solo in Akira Kurosawa, pure lui afflitto da un soprannome altisonante, impostogli dai suoi devoti ammiratori: Tenno (L’Imperatore).
    Nell’opera artistica di Ray sembra siano confluiti tutti quei principi ideali che, nel corso di un secolo, erano stati elaborati dai grandi innovatori del Bengala. Non a caso, lo si è spesso paragonato, in parte a ragione, a Rabindranath Tagore. Anche Ray proveniva da un’antica dinastia di proprietari terrieri feudali (nel XVI secolo il nome della famiglia era Deo), che si era sempre distinta negli studi, nelle lettere e nella musica. Il padre, Sukumar, era un bravo scrittore e disegnatore di racconti sul genere di Lewis Carrol, il nonno, Upendrakishore, musicista, compositore di canti e inni, pioniere dell’arte dell’incisione e scrittore e illustratratore di libri per bambini. La famiglia Ray era in stretto contatto con quella dei Tagore, in primo luogo perché appartenente dal 1880 al Brahmo Samaji, tra i cui fondatori e direttori vi era stato Devendranath, padre del grande poeta, e inoltre perché lo stesso Rabindranath era molto amico sia di Upendrakishore che di Sukumar. Di conseguenza, Satyajit, spinto dalla madre e su richiesta dello stesso Tagore, dal 1940 al 1942 studiò pittura, sotto la guida di Nandal Bose, a Shantiniketan. Ma Ray preferì interrompere gli studi per trovare un lavoro come grafico presso l’agenzia pubblicitaria Keymer di Calcutta. Intanto, era nata in lui la passione per il Cinema, anche grazie al fatto che poteva frequentare i New Theatres durante le riprese del cugino Nitin Bose. Poco tempo dopo, nel 1947, insieme a Chidananda Das Gupta, che diventerà uno dei più eminenti critici cinematografici dell’India, fondò la Calcutta Film Society, ed ebbe così modo di studiare la cinematografia mondiale. Già dal 1946 aveva cominciato a scrivere sceneggiature, senza avere la possibilità di concretizzarle. Tre anni dopo ebbe modo di frequentare Jean Renoir, di cui fu uno dei collaboratori principali nella ricerca dei luoghi dove realizzare The River. Altra tappa fondamentale del suo apprendistato nell’arte cinematografica fu il suo viaggio a Londra nel 1950, insieme alla moglie Bijoya, per frequentare un corso di specializzazione. Durante il loro soggiorno fecero una vera scorpacciata di film: circa un centinaio in cinque mesi.


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    Preparatoria alla futura attività di regista fu anche la sua intensa attività di critico e l’aver seguito con grande interesse il primo International Film Festival dell’India, organizzato nel 1952 dalla Films Division, dove fu colpito, come del resto molti altri registi indiani, dal linguaggio cinematografico del neo-realismo italiano, in particolare da come veniva esplicitato nei film di Vittorio De Sica. E finalmente Ray si sentì pronto per realizzare la sua prima opera tratta dalla novella Pather Panchali di Bibhuti Bushan Bannerjee, cui seguirono altri due film, ricavati da Aparajito, altra novella dello stesso autore, che insieme costituiscono la così detta “Trilogia di Apu”.
    Il primo episodio della “Trilogia ”, una metafora poetica delle vicende umane in cui si percorrono le varie tappe della vita di un uomo, è Pather Panchali (Il canto del sentiero, 1955). Siamo nel 1910 e Apu, il personaggio principale, è ancora un bambino di sei anni, nato in una famiglia povera di casta brahmana, che vive nello sperduto villaggio di Nishintapur. Il bambino e la sorella maggiore, Durga, trascorrono le giornate spensierati, ascoltando le fiabe narrate dalla zia e osservando, con curiosità e timore, realtà a loro sconosciute: i pali telegrafici e il treno che passa in lontananza, diretto verso il resto del mondo. Spinto dalla povertà, il padre, Harihar Roy, emigra a Varanasi, la città più sacra dell’India, dove un brahmano dovrebbe avere più opportunità di lavoro. La famiglia, rimasta a vivere nel villaggio, si impoverisce sempre più e la zia e Durga muoiono durante la stagione dei monsoni. Il padre decide allora di portare con se nella città santa Apu e la moglie, Sarbajiaya, sperando in un futuro migliore.
    L’opera prima di Ray ebbe un percorso produttivo molto accidentato. Il neo regista riuscì ad ogni modo ad ultimare il suo film - le cui prime sequenze furono lodate da John Huston, di passaggio a Calcutta - grazie agli aiuti del Museum of Modern Art di New York e ai fondi messigli a disposizione dal governo del Bengala. E infine, Pather Panchali ottenne il meritato successo al Festival di Cannes del 1956, ottenendo un premio come “miglior documento umano”, e riscuotendo in tutto il mondo il consenso della critica e degli spettatori. Pather Panchali è infatti un’opera di grande respiro, dai ritmi pacati, gli stessi che si sarebbero potuti percepire nelle campagne del Bengala agli inizi del secolo scorso, e procede con l’incedere modulato di un raga, la base della forma melodica della musica classica indiana.
    Aparajito (L’Invitto, 1956), Leone d’Oro al Festival di Venezia, più melodrammatico del precedente ma con una struttura narrativa più solida, si svolge dieci anni dopo. La situazione economica non è cambiata, Harihar si guadagna da vivere recitando versi sacri sui ghat, le scalinate che conducono al Gange, mentre la moglie lavora come cuoca. Ma Harihar muore e Sarbajiaya è costretta ad accettare la carità di uno zio, affinché Apu possa completare la sua educazione di brahmano. Madre e figlio abbandoneranno quindi Varanasi, per stabilirsi in un villaggio. Il ragazzo, però, non intende seguire le leggi della sua casta e inizia a frequentare una scuola normale, dove otterrà una borsa di studio che lo porterà a Calcutta. Al suo ritorno, Apu troverà la madre morta, annientata dalla solitudine e dal dolore.
    La parte conclusiva della trilogia, Apur Sansar (Il Mondo di Apu, 1959), è ambientata a Calcutta intorno agli anni ’30. Adesso Apu ha più di vent’anni, è laureato, senza un lavoro fisso, vive in una sorta di spelonca in compagnia di un flauto e dei suoi libri, e spera di potersi affermare, prima o poi, come scrittore. Pulu, un collega d’università, un giorno gli propone di accompagnarlo al matrimonio di sua cugina Aparna. Durante la cerimonia, si scopre che il futuro sposo non è del tutto sano di mente e che, purtroppo, Aparna, secondo la tradizione, non potrà più sposarsi se non lo farà nell’ora stabilita dagli oroscopi: cioè quello stesso giorno. Apu, allora, accetta di prenderla in moglie e, una volta rientrati a Calcutta, darà una svolta alla sua vita trovando un impiego stabile. In attesa di un figlio, Aparna, sempre in base alla consuetudine induista, si trasferisce nel villaggio natale dove darà alla luce Kajal, ma subito dopo il parto morirà. Apu, disperato, sparisce per cinque anni, finché non viene rintracciato da Pulu in una miniera di carbone. L’amico lo convincerà a riaffrontare la vita. Apu si recherà nel villaggio dove vive il bambino e, in una scena memorabile, senza rivelargli la sua identità, lo prenderà a cavalcioni sulle spalle per portarlo con se a Calcutta.
    La trilogia di Apu è una rappresentazione di un certo tipo di realtà indiana, ma contiene nello stesso tempo valori universali comprensibili dal pubblico di tutto il mondo. Il grande successo dei tre film fu anche dovuto alla splendida colonna sonora di Ravi Shankar. Pervasa dall’umanesimo di Tagore - con temi narrativi e configurazioni visive legate al neo-realismo italiano – la trilogia di Apu apre la strada, in India, all’autentico Cinema d’arte e consacra Ray, fin dal suo esordio, come uno dei più significativi registi della Storia del Cinema. E’ ancora merito di Ray, sempre grazie alla trilogia di Apu, di aver scoperto un gran numero di talenti: il direttore della fotografia Subrata Mitra, lo scenografo Bansi Chandragupta, Soumitra Chatterjee, che sarà l’interprete principale di altri 15 film di Ray e diventerà uno degli attori più richiesti dal cinema bengalese, e la splendida Sharmila Tagore, pronipote del grande poeta, di lì a poco star in opere d’autore e in film spettacolari in hindi.
    L’anno prima della realizzazione di Apur Sansar, Ray aveva concretizzato un altro capolavoro, Jalsaghar (La sala della Musica,1958), trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Tarashankar Bannerjee, un ritratto malinconico di un aristocratico bengalese che vede crollare i suoi antichi valori sotto la spinta della nascente borghesia.
    Biswambhar Roy, anziano zamindar, un tempo mecenate delle arti e della musica, vive isolato dal mondo nella sua monumentale dimora neo classica. L’antico palazzo è ormai diroccato e il solitario zamindar è accudito come un malato da due fedeli servitori. Come segno della passata grandezza, possiede ancora un elefante, Moti, ed un cavallo, Tufan: due animali che in India simboleggiano la regalità. Un giorno, la sua apatia è scossa dal frastuono causato dai preparativi dell’upanayana (cerimonia per l’investitura del cordone sacro) del figlio del vicino, l’usuraio Mahim Ganguly. Imitando gli antichi usi nobiliari, lo spregiudicato “uomo d’affari” intende offrire agli ospiti un jalsa, ossia una sontuosa serata musicale. In flashback, vediamo l’analoga cerimonia per il figlio del feudatario, seguita da una fastosa jalsa per celebrare il nuovo anno bengalese. E’ proprio in quell’occasione che avviene la tragica morte della moglie e dell’unico figlio di Roy, travolti dal fiume Padma durante una tempesta causata dai monsoni. Da quel momento, lo zamindar si chiuderà in se stesso.
    Roy si rifiuta di partecipare al jalsa di Ganguly ma, punto sul vivo, vende gli ultimi oggetti di valore per poter organizzare uno spettacolo ancor più memorabile, cui inviterà anche il nouveau riche, per impartirgli una lezione di stile e ristabilire così “le giuste distanze”. Il mattino seguente, il vecchio zamindar, mentre semi ubriaco vaneggia della passata grandezza della sua stirpe di fronte ai ritratti degli antenati, vede spegnersi, una dopo l’altra, le candele che illuminano la Sala della Musica ormai vuota. Avendo presagito la sua fine da quella lugubre premonizione, monterà su Tufan e si lancerà in un galoppo disperato. Morirà disarcionato dal cavallo, imbizzarritosi di fronte al relitto della barca che aveva trasportato nel loro ultimo viaggio la sua famiglia.
    Si dice cheJalsaghar, ad eccezione di Devi (1960), sia l’unico film di Ray in cui il personaggio principale, prigioniero del suo passato, sia incapace di cambiare e sia infine distrutto dalla sua stessa intransigenza. Quando il film uscì nelle sale cinematografiche, gran parte della critica rimproverò a Ray di aver tratteggiato con eccessiva simpatia la figura dell’aristocratico decaduto. La replica di Manik fu secca: «Il film cerca di mostrare come un vecchio sistema sia sostituito inevitabilmente da un altro, ma questo non significa che il nuovo sistema sia necessariamente migliore del precedente». Un soggetto melodrammatico quindi, ma diretto con estrema maestria, realizzato fotograficamente da Subrata Mitra con un esemplare uso espressionistico della luce ed interpretato con grande credibilità da Chhabi Biswas (1900-1962). Un film importante anche per gli appassionati di musica e danza del Nord dell’India, in quanto Ray scritturò gli artisti di maggior talento dell’epoca: per la colonna sonora Ustad Vilayat Khan, Salamat Ali Khan per il khayal (nome urdu di un canto originario della Persia), la cantante Akhtar Kumari per il thumri (canto sviluppatosi nel XVIII secolo, combinazione del khayal e del tappa), la straordinaria danzatrice di kathak (danza di corte fiorita nel periodo Moghul) Roshan Kumari, accompagnata dalla musica dei fratelli Vilayat e Imrat Khan, nonché Bismillah Khan allo shehnai (una sorta di oboe) ed il cantante Waheed Khan.
    Nella produzione di Ray degli anni ’60 si assiste ad un susseguirsi di opere magistrali o quanto meno interessanti. Tra esse, Devi (La Dea, 1960), un film tratto da un racconto del 1899 di Prabhat Kumar Mukherjee, derivato a sua volta da un’idea di Tagore. Il tema di fondo di Devi, ambientato nel 1860, è il conflitto tra razionalità e superstizione. Un ricco brahmano, Kalikinkar Roy, adoratore di Kali, dopo una “visione” si persuade che la nuora, Doyamoyee, è un avatar (incarnazione, letteralmente “discesa”) della dea. Per soggezione alla figura del suocero, Doyamoyee non si oppone alle assurdità di Kalinkar, anzi alla lunga si convincerà di avere i poteri soprannaturali della Devi. Il marito, Umaprasad, un libero pensatore che studia a Calcutta, cerca inutilmente di farli rinsavire da quella pericolosa follia. Un giorno, Doyamoyees, ormai deificata, con le sue presunte capacità taumaturgiche “guarisce” un bambino in fin di vita. Lo stesso miracolo non le riuscirà però con il proprio figlio Kokha, il quale, privo di cure mediche, morirà: la madre perderà completamente la ragione. La scena conclusiva ci potrebbe illuminare sul pensiero di Ray. Una statuina di Kali, abbozzata nell’argilla, sembra attendere di essere vestita e decorata per il culto: forse sono gli esseri umani a creare gli dei, ed è sempre la mente dell’uomo a decidere se essi devono essere usati per il bene o per il male. Devi, recitato da Chhabi Biswas, Soumitra Chatterjee e Sharmila Tagore e con musiche di Ali Akbar Khan, fu attaccato violentemente dagli induisti più intransigenti, ma fu premiato con la Medaglia d’Oro del Presidente.
    Teen Kanya (Tre ragazze, 1961) - insieme al documentario Rabindranath Tagore, realizzato da Ray quello stesso anno - è un tributo al grande pensatore bengalese, in occasione del centenario della sua nascita. Teen Kanya è infatti l’adattamento per lo schermo di tre racconti brevi, tre ritratti di donne, che appartengono a generi letterari assai diversi fra loro. Nel primo delicato e malinconico episodio, The Postmaster, Ratan, una bambina orfana di dieci anni, accudisce con devozione il suo padrone, direttore dell’ufficio postale del luogo. Quando il funzionario dovrà fare ritorno a Calcutta, perché si è ammalato di malaria, la ragazzina rifiuterà con sdegno il danaro che le viene offerto ma lo implorerà tra le lacrime di portarla con se. Le sue preghiere non saranno ascoltate. Solo quando si troverà nella grande città il postmaster sentirà la sua mancanza, rendendosi conto che la piccola Ratan, che viveva solo per lui, forse lo considerava come un padre. Nella seconda parte, Monihara (I Gioielli perduti), una storia di fantasmi, Manimalika, moglie trascurata di un uomo molto ricco, è ossessionata dalla smania di accumulare gioielli, una compensazione al fatto che non può avere figli. Anche da morta, infatti, tornerà nella sua casa per recuperare i suoi amati tesori. Nell’ultimo episodio, Samapti (La Conclusione), una commedia comica, Mrinamoyee - interpretata dall’allora debuttante Aparna, figlia del critico Das Gupta, allora sedicenne e che diventerà un’importante regista del New Cinema – è una ragazza estroversa e ribelle, per nulla simile all’immagine convenzionale della sposa indiana, che dà parecchio filo da torcere al marito.
    Kanchenjungha (1962) è un film psicologico assai complesso, una sorta di psicodramma, che ha per spunto il soggiorno di alcune famiglie di ricchi turisti di Calcutta in una stazione climatica del Darjeeling ai piedi del monte Kanchenjungha.
    Nello stesso anno Ray realizzò Abhijan (La Spedizione), ambientato al confine tra Bengala e Bihar. Narsingh, un autista di origine rajput, giunge, insieme al suo fedele assistente Rama, in un villaggio sperduto. Quì incontra il mercante marwari Sakhanram e la sua “protetta” Gulabi, la consueta prostituta dal cuore d’oro, cara alla cinematografia indiana, interpretata, forse non a caso, da Waheeda Rehman, che aveva avuto lo stesso nome e un ruolo simile in Pyaasa di Guru Dutt. Nel villaggio c’è un’altra presenza femminile interessante, la riservata insegnante cattolica Neeli. Narsingh è attratto da Neeli e nello stesso tempo, essendo a corto di denaro, fa da corriere al marwari, il quale in realtà è un trafficante d’oppio. Alla fine Narsingh, che non è riuscito ad ottenere l’amore di Neeli, già promessa ad un altro uomo, si riscatterà liberando se stesso e Gulabi dall’influsso negativo di Sakhanram.
    In Mahanagar (La grande città, 1963), assistiamo alla lotta della parte più povera della classe media di Calcutta con la realtà indiana contemporanea. Si tratta dello scontro dei valori della vecchia generazione, che richiedono che le donne seguano lo stile di vita tradizionale all’interno delle mura domestiche, contro quelli della nuova generazione che reclamano invece, sia per ragioni sociali che economiche, un radicale cambiamento di costumi.
    Un altro capolavoro di quel periodo è Charulata (1964), il film favorito da Ray e probabilmente quello più noto in Occidente.Nella storia del cinema mondiale,Charulata - rifiutato al Festival di Cannes ma in seguito premiato per la migliore regia a quello di Berlino - è considerato uno dei più bei ritratti femminili mai apparsi sullo schermo. Ray, autore anche della colonna sonora, adattò la novella del 1901 Nastanirh («Il nido infranto») di Rabindranath Tagore.
    Interpretato da Soumitra Chatterjee e da un’intensa Madhabi Mukherjee, la storia di Charulatasi svolge nel 1879-80, negli ambienti dell’alta società di Calcutta, tra la borghesia progressista, e in parte occidentalizzata, che diede il maggiore impulso al nascente nazionalismo. Bhupati Dutta (un riferimento alla figura di Bankim Chandra Chatterjee, uno degli artefici della rinascita letteraria e politica del Bengala, a cui Tagore dedicò Nastanirh), uomo politico e editore del The Sentinel, un settimanale nazionalista, a causa del suo gravoso lavoro trascura la moglie. Charulata, benché dotata di una cultura raffinata e abbia voglia di condurre un’esistenza attiva - e nonostante le idee moderne del marito - è costretta ad adattarsi al ruolo tradizionale della brava moglie indiana. Di fatto, vive passivamente tutto il giorno dentro casa, accontentandosi di guardare il mondo dalle sue finestre, con un binocolo da teatro. Per alleviare la sua solitudine, Bhupati inviterà nella loro grande residenza vittoriana il fratello maggiore con la moglie; ma entrambi si riveleranno essere degli individui dozzinali. Charulata sarà invece attratta da Amal, cugino del marito che è venuto a trovarli per qualche giorno, con cui condivide interessi musicali e letterari e la cui amicizia sembra farla rinascere. Il rapporto tra i due sembra trasformarsi in qualcosa di più complesso e profondo, anche perché Amal spinge Charulata a scrivere: un fatto che si trasformerà poi in un successo. Amal tuttavia, da uomo leale, si costringe ad allontanarsi, congedandosi con una lettera. Solo allora Bhupati capirà lo stato d’animo della moglie dalle sue reazioni emotive. Charulata e Bhupati si riuniranno in un finale che a molti critici sembra ricordare Les Quatre Cents Coups (I quattrocento colpi, 1959) di François Truffaut, una conclusione che fa comunque presagire un futuro migliore per entrambi.
    L’anno successivo Ray diresse un film intimista, Kapurush (Il codardo), tratto dall’opera di un autore moderno del Bengala, Premendra Mitra, che fu presentato al Festival di Venezia di quello stesso anno. Uno sceneggiatore, rimasto in panne con la macchina durante dei sopraluoghi, viene accolto nella casa del proprietario di una piantagione di tè, dove scoprirà che la moglie del suo ospite è la donna che anni prima si era rifiutato di sposare. L’uomo tenterà, invano, di rimediare alla sua vigliaccheria.
    Nayak (L’Eroe, 1966), premio della Critica al Festival di Berlino, è un film singolare. E’ il ritratto psicologico di un divo del cinema commerciale, interpretato da un’autentica star di Bombay, Uttam Kumar, mediante l’intervista di una giornalista (Sharmila Tagore) nel corso di un viaggio in treno da Bombay a Delhi, dove l’”eroe” delle platee indiane va a ritirare un premio.
    Aranyer din Ratri (Giorni e Notti nella Foresta, 1969), tratto liberamente da una novella di Sunil Gangopadhyay, è considerata dai critici l’opera più “europea” di Ray. Il film narra del soggiorno di quattro amici, provenienti dalla grande città, nella foresta di Palamau. Quì i i giovani cittadini scopriranno una realtà ben diversa da quella estremamente occidentalizzata cui sono abituati.
    Fin qui sembrerebbe che Ray si sia occupato soltanto di temi molto seri, ma non è così in quanto era dotato di un notevole senso dell’umorismo, era un appassionato lettore di detective stories e scriveva racconti per i ragazzi. Infatti, nel 1958 e nel 1965 girò le commedie satiriche Parash Patar (La Pietra Filosofale) e Mahapurush (Il Santo). Nel 1967, nel 1974 e nel 1978 realizzò Chiriakhana (Lo Zoo), Sonar Kella (La Fortezza Dorata ) e Joi Baba Felunath (Il Dio Elefante), veri e propri film gialli, e nel 1968 e nel 1980 Goopy Gyne Bagha Byne (Le Avventure di Goopy e Bagha) e Hirak Rajar Dese (Il Regno dei Diamanti), dei film musicali e d’avventura destinati prevalentemente all’infanzia. Di queste opere, che sono definite minori, fanno parte anche i due cortometraggi Two (1964) e Pikoo (1980), entrambi storie su bambini.


    Satyajit Ray – PARTE SECONDA



    Ray ha anche composto una sorta di trilogia su Calcutta: Pratidwandi (L’Avversario, 1970), Seemabaddha (Società a responsabilità limitata, 1971) e Jana Aranya (Il Mediatore, 1975). Questi film appartengono al periodo in cui il grande maestro affronta più da vicino tematiche cittadine a sfondo sociale, che hanno in comune il tema della corruzione e che cercano di farci cogliere l’essenza di un’epoca tormentata che in quel momento vedeva la repressione sanguinosa messa in atto dalle forze governative contro gli aderenti al movimento terrorista di estrema sinistra dei Naxaliti.
    Della trilogia il più provocatorio è Pratidwandi, mentre il più ironico e amaro è Jana Aranya, il cui protagonista, Somnath, è un ragazzo che non trova lavoro finché non riesce a mettersi in società con il cinico mediatore Bishuda. «Mediatore», dadal in bengali, significa tuttavia anche ruffiano e infatti Somnath sarà costretto a setacciare i quartieri malfamati di Bombay per trovare un soggetto femminile adatto a “convincere” un cliente un po’ refrattario ad acquistare una fabbrica.
    Con lo stessa prospettiva di critica sociale, appare nel 1973 Asani Sanket (Un Tuono Lontano), ricavato da una novella sulla carestia del 1943 di Bibhuti Bhushan Bannerjee, che fu premiato al Festival di Berlino.
    Shatranj ke Khilari (I Giocatori di Scacchi, 1977) è l’unica opera di Ray che non affronti temi inerenti alla società e alla cultura del Bengala. Girato a colori in urdu e in hindi, tratta del crepuscolo della civiltà indo-musulmana, o meglio, dello scontro tra due forze negative: il feudalesimo Moghul e il colonialismo inglese. Shatranj ke Khilari, il film più costoso e tra i più rarefatti di quelli realizzati da Ray, descrive l’annessione nel 1856 del regno di Awadh (l’attuale Uttar Pradesh) da parte degli inglesi, ed è un libero adattamento di una novella degli inizi degli anni Venti di Prem Chand (1880-1936), corroborato dalla dettagliata ricostruzione storica contenuta nel libro di Abdul Alim Sharar, Lucknow: The Last Phase of an Oriental Culture. Shatranj ke Khilari ha un prologo storico di tipo documentaristico, con la voce narrante di Amitabh Bachchan, e si sviluppa, subito dopo, da un lato sulle interminabili (e per gli spettatori alquanto tediose) partite di scacchi di due nobili della corte di Lucknow, Mirza Sajjed Ali e Mir Roshan Ali - che non sono interessati né alle loro mogli né a quanto sta accadendo intorno a loro - dall’altro, quasi in simmetria con le loro partite, alle manovre degli inglesi per dare scacco matto a Wajid Ali Shah, sovrano dell’Awadh, interessato, a sua volta, solo alla poesia, alla musica e alla danza. Tuttavia, piuttosto che diventare un re fantoccio in mani straniere, il nawab di Lucknow preferisce abdicare e andare in esilio. Per questo film Ray scelse degli ottimi attori del cinema commerciale di Bombay: Sanjeev Kumar, Said Jaffrey e Amjad Khan, nonché una delle più affascinanti attrici del New Cinema, Shabana Azmi, figlia del noto poeta urdu Kaifi Azmi e dell’attrice teatrale Shaukat. La parte del generale James Outram, pronto ad espugnare Lucknow anche con la forza, è interpretata da Richard Attenborough.


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    Sadgati (Liberazione, 1981), basato su un racconto del 1931 di Prem Chand, è la seconda opera di Ray in hindi. Di breve durata, 55 minuti, è “un film di profonda rabbia” - secondo le parole del regista - e di grande pessimismo. Il personaggio principale è Dukhi, un chamar (conciatore di pelli), cioè un “intoccabile”, schiavizzato a tal punto dal brahmano del villaggio, Ghashiram, che alla fine morirà di stenti. Essendo un fuori casta, nessuno vuole sporcarsi le mani con i suoi funerali. Ghashiram, allora, è costretto a trascinare il cadavere di Dukhi con una corda, per poterlo gettare in una fossa, insieme alle carcasse degli animali. Ormai impuro, il devoto brahmano, che paradossalmente si ritiene una vittima, deve celebrare un rito di purificazione per potersi “liberare” da quell’orribile contaminazione. Questo film durissimo, censurato dal Ministero delle Informazioni indiano, fu interpretato da due grandi attori del New Cinema: Om Puri nella parte del chamar e Smita Patil (1955-1986) in quella di sua moglie Jhuria.
    Nel 1984 il regista riuscì a concretizzare un suo antico progetto, Ghare Baire (La Casa e il Mondo). Ray, infatti, aveva in mente da decenni di realizzare un film dall’omonimo romanzo del 1915 di Tagore sulla divisione del Bengala voluta da Curzon nel 1905. Simile per ambientazione e psicologia dei personaggi a Charulata, il film dovrebbe sintetizzare l’intero percorso intellettuale seguito da Ray nelle sue opere. A Cannes, però, Ghare Baire fu accolto dalla critica con molta freddezza.
    Si è già accennato all’opera documentaristica di Ray, i cui filmati - a parte Sikkim (1971), eseguito su commissione, appartenente pertanto al genere istituzionale, e ripudiato dallo stesso regista - sono in parte basati su ricostruzioni di finzione narrativa, come è il caso del suo primo documentario del 1961 su Rabindranath Tagore, di cui si è gia detto. Nel 1972 Ray realizzò The Inner Eye, su Binode Bihari Mukherjee, un grande pittore divenuto cieco che il regista aveva conosciuto a Shantiniketan, nel 1976 Bala, sulla vita di Balasarawati, una delle più grandi danzatrici dell’India di Baratha Natyam, la danza templare e classica, e nel 1987 una biografia su suo padre, Sukumar Ray.
    Le sue ultime opere - tutte portate a termine grazie all’aiuto del figlio Sandip - lucide, austere e pessimiste, sembrano voler ammonire l’umanità dei pericoli insiti nella realtà contemporanea: i disastri ecologici che minacciano il mondo e il disfacimento dei principi di onestà, giustizia e ordine sociale.
    Ganashatru (Un nemico del popolo, 1989), è un adattamento alla realtà bengalese dell’omonima opera del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen. L’immaginaria Chandipur è una cittadina prospera grazie all’afflusso di un gran numero di turisti e di devoti che si recano in pellegrinaggio al suo tempio. Un medico, insospettito dal dilagare di malattie infettive tra gli abitanti che vivono nei pressi del luogo sacro, scopre che la causa di quelle epidemie è dovuta alle acque inquinate che fuoriescono dalle tubazioni difettose del tempio. La sua denuncia è boicottata sia dalle autorità religiose che da quelle sanitarie, anzi, il medico sarà stigmatizzato come “nemico del popolo” perché vorrebbe ostacolare il “progresso” e il “benessere” della città.
    Shakha Proshakha (I rami e i ramoscelli, 1990), da un racconto dello stesso Ray pubblicato sulla rivista Ek Shan, è una storia sull’incomunicabilità e la solitudine che può esserci in una famiglia benestante, apparentemente normale e unita.
    L’ultimo film di Ray, Agantuk (Lo Straniero, 1991), può essere considerato il suo testamento spirituale. Al cospetto di una famiglia della buona borghesia di Calcutta, si presenta, come un fulmine a ciel sereno, uno zio che non dava notizie da trentacinque anni. L’inquietante straniero insospettisce i componenti del clan, i quali temono una sua eventuale pretesa sulla cospicua eredità del nonno. Secondo i racconti di quell’uomo misterioso, tutti quegli anni li avrebbe trascorsi presso gli indios del Sud America, popolazioni che ritiene più civili delle così dette società progredite. Poi il singolare personaggio scompare di nuovo. I parenti diffidenti scopriranno che è andato a vivere lontano dalla città, in un villaggio tribale, nuovamente a contatto con la natura incontaminata.
    Nel corso della sua eclettica carriera artistica, Ray realizzò dunque 31 film, 24 dei quali con musiche originali dello stesso regista, e cinque documentari, di cui quattro con musiche da lui composte. Collaborò, inoltre, a due serie televisive, “Satyajit Ray Presents”, dirette dal figlio Sandip, scrisse quattro sceneggiature per altri registi e compose le colonne sonore di sei opere cinematografiche non sue. Purtroppo, rimasero nel suo cassetto tre ambiziosi progetti: Mahabharata, A Passage to India e The Alien. Tra saggi sul cinema, romanzi, novelle e storie per ragazzi, la sua attività letteraria ammonta a circa 35 volumi. A ciò si aggiunga l’imponente quantitativo di materiale pittorico e grafico. Tralasciando, per ovvi motivi, le monografie e gli innumerevoli saggi critici che analizzano la sua arte, ricordiamo che gli sono stati dedicati nove documentari, di cui almeno tre da menzionare: Creative Artists of India: Satyajit Ray (1963) di B.D. Garga, Satyajit Ray (1984) di Shyam Benegal e Ray (1998) di Goutam Ghose.
    E’ solo in punto di morte che quest’uomo straordinario fu insignito dell’Oscar alla carriera con la seguente motivazione: “La rara maestria dell’arte cinematografica di Ray e la sua profonda visione umanistica hanno lasciato un’impressione incancellabile sui registi e sul pubblico del mondo intero”.

    Si ringrazia per le immagini e le informazioni dettagliate il SITO UFFICIALE dell' enciclopedia TRECCANI! ^_^ ;)

    Domani nella quarta parte esamineremo altri registi storici e parleremo delle nuove generazione bengalesi, a domani aMICI del TRICICLO!!!
     
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    Stasera continuiamo con la rassegna di presentazione di altri registi che hanno fatto la storia del cinema indiano :D

    Ritwik Kumar Ghatak (1925-1976)



    Ritwik Ghatak si considerava il primo regista “moderno” del Bengala e solo da poco più di un decennio è stato riscoperto e riconosciuto come uno dei più grandi autori cinematografici dell’India. Nato a Dacca e trasferitosi a Calcutta dopo la Partition, era desiderio del padre che divenisse un esattore fiscale. Ma Ritwik preferì laurearsi in Letteratura inglese e dedicarsi alla poesia per poi passare alla narrativa e al teatro, fino ad approdare al cinema, nella continua ricerca di un mezzo artistico capace di raggiungere il maggior numero possibile di persone. Nel 1948 si unì all’Indian People’s Theatre Association (IPTA), svolgendovi le attività di scrittore (Dalil, Jawala e Sanko), regista e attore - ad esempio, nel 1948 per Nabanna di Bijon Bhattacharya (1917-1978) - produttore (memorabile il suo allestimento del Birshajian di Tagore) e organizzatore di gruppi teatrali (Natyachakra Theatre Group e Bohurupee Group). Il tutto sempre con successo, fino al 1954, anno in cui fu espulso e in cui costituì una sua compagnia teatrale, il Group Theatre. L’anno successivo, fu allontanato anche dal Partito comunista, di cui era attivista dal 1946. Un carattere individualista, quindi, che non accettava dogmi e compromessi, un ribelle che amava definirsi un “cane randagio”. I suoi primi passi nel mondo del cinema furono compiuti sotto la guida di autori bengalesi trasferitisi a Bombay. Nel 1950 fu assistente alla regia in Tathapi, sceneggiato da Bimal Roy e diretto da Manoj Bhattachaya, e attore e co-sceneggiatore in Chinnamul di Nemai Gosh. In seguito sarà co-sceneggiatore di Musafir (Il Viaggiatore, 1957) di Hrishikesh Mukherjee e, come già detto precedentemente, scrisse per Bimal Roy la sceneggiatura di Madhumati (1958). Ma i suoi modelli furono Sergei Eisenstein e Konstantin Stanislawsky, mentre, per quanto riguarda l’apprendimento delle tecniche cinematografiche, pare siano state di grande importanza le conoscenze trasmessegli da uno dei suoi fratelli, direttore della fotografia in Inghilterra per sei anni. Anche se di frequente la critica ha affermato che la sua estetica è simile a quella dello scrittore bengalese marxista Manik Bandyopadhyaya Banerjee (1908-1956), l’arte di Ghatak è in effetti personalissima e fuori da ogni tipo di convenzione: un miscuglio eterogeneo e filosoficamente stridente. Nelle sue opere sono costretti a coabitare Marx, Jung, la spiritualità induista e, in una certa misura, anche il cattolicesimo. Se da un lato Ghatak era dotato di una notevole cultura cinematografica e capiva il tipo di sensibilità occidentale, nello stesso tempo era affascinato dai drammi del teatro sanscrito, dal melodramma - così come lo era stato Barua, di cui Ghatak era un grande ammiratore, tanto da voler proporre un remake di Devdas (1935) - ma soprattutto dagli archetipi e tra questi in particolar modo da quello della Grande Madre. In ogni caso, Ghatak era interessato alla cultura più antica dell’India, da quella delle popolazioni tribali a quella della tradizione dei villaggi, espressa dai Baul (lett. “Folli”, Bardai in hindi, induisti non ortodossi e cantori itineranti di poemi religiosi) e nei Kirtaniya (riunioni pubbliche in cui si recitano i testi sacri). I suoi punti di riferimento erano pertanto troppo complessi e confusi per il pubblico. Ghatak, però, si rivela veramente grande quando riesce a far prevalere la sua maggiore qualità, quella di essere un visionario. Non a caso, uno dei suoi registi preferiti era Luis Buñuel. Il suo campo di osservazione specifico è comunque la modernità. Infatti, il tema ricorrente di molti dei suoi film è stato quello del problema dei rifugiati provenienti dal Bengala Orientale, che è un’occasione morale, mai politica, per denunciare una condizione umana drammatica, una situazione che aveva vissuto personalmente e che gli aveva inferto una ferita indelebile. Fra le sue opere letterarie vi sono Swaralipi (1961), Kumari Mon (1962), Dwiper Nam Tiya Rang (1963) e Raja Kanya (1965), nonché un grandissimo numero di racconti brevi, che furono pubblicati dalle riviste più prestigiose del Bengala (quali, ad esempio, Desh, Parichay, Shanibarer e Chithi). Inoltre, adattò in bengali opere di Gogol e Brecht (Vita di Galileo e Il Cerchio di Gesso del Caucaso) e fu autore di sessanta saggi sul Cinema. Dati i continui insuccessi al box office, l’alcolismo che lo affliggeva e l’aggravarsi della tubercolosi, che lo ucciderà a soli 51 anni, è probabile che il periodo più felice di Ghatak sia stato quello trascorso a Pune dal 1966 al 1967 come Vice Direttore e professore all’FTII. Infatti, in quei cinque mesi di insegnamento fu circondato dalla stima e dall’ammirazione dei suoi studenti, che di lì a poco diventeranno tra gli autori più prestigiosi del samanantar sinema (il cinema “parallelo”) ossia del New Cinema, e tra di essi da ricordare in particolar modo Mani Kaul e Kumar Shahani, il suo allievo preferito. Perfino durante una sua degenza in un ospedale psichiatrico, nel 1969, la sua voglia di comunicare e la sua vitalità artistica non si arrestarono: mise in scena una commedia che aveva composto mentre era ricoverato, Sei Meye, e la fece interpretare a medici e pazienti.


    La sua filmografia comprende 26 opere: 12 lungometraggi, di cui quattro incompleti, 6 cortometraggi, 7 documentari (compresi due non finiti e uno non accreditato) e un filmato pubblicitario.
    Il primo film (completo), Nagarik (Il Cittadino, 1952), proiettato nelle sale dopo la scomparsa del regista, narra delle traversie di una famiglia di rifugiati del Bengala Orientale. Il maggiore dei figli, Ramu, interpretato dal grande attore teatrale Kali Banerjee, dopo essere stato costretto dalle circostanze avverse ad abbandonare ogni aspirazione di realizzazione individuale, si rifugia nella lotta politica.

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    Il personaggio principale di Ajantrik (Il Viaggiatore, altri titoli: Non conforme alle regole meccaniche, Patetico Inganno o L’Uomo Meccanico, 1957) è Bimal, un tassista stravagante innamorato della sua automobile, Jagaddal, una Chrevrolet degli anni Trenta che ritiene sia un essere vivente. Il film si svolge intorno ad otto episodi riguardanti le vicende di altrettanti passeggeri di Bimal. Comunque, il vero nucleo del film è costituito dall’unico piacere di questo singolare conducente di taxi - “un pazzo, oppure un bambino o un primitivo” a detta del regista - che è quello di girovagare nella valle incontaminata di Chotanagpur, nel Bihar, e di partecipare alle feste e ai riti ancestrali degli Oraon, gli adivasi (lett. “abitanti originari”, aborigeni) di quella terra. L’industrializzazione, però, avanza velocemente, distruggendo la natura e la vita dei tribali. E anche la povera vecchia Jagaddal, alla fine, esalerà l’ultimo respiro e dovrà essere demolita. Ajantrik, un sogno accarezzato per dodici anni prima di poter essere realizzato, era uno dei film preferiti dal suo autore, il quale riteneva di aver raggiunto in quest’opera una notevole sintesi espressiva.
    Bari theke Paliye (lett. Scappato da casa, ossia Il Fuggitivo, 1959), considerato un film in parte autobiografico, è ispirato da un racconto per ragazzi. Kanchan, un bambino che vive sulle rive di un fiume, sogna l’avventura. Fuggito dal suo villaggio, raggiunge Calcutta. Dopo aver sperimentato gli aspetti positivi, ma soprattutto quelli negativi, della metropoli, Kanchan, consigliato da Haridas, un maestro disoccupato con cui ha fatto amicizia, tornerà dai suoi genitori, senza alcun rimpianto per le meraviglie della grande città.
    Il film che dà inizio alle tre opere che si occupano con maggiore profondità della Partition, Meghe Dhaka Tara (Una Stella Nascosta dalle Nuvole, 1960), deve il suo titolo all’omonimo poema di Shakespeare La storia è incentrata su due modelli femminili: Neeta, il personaggio positivo che si sacrifica per il bene dei suoi familiari - vuole a tutti i costi che il fratello Shankar studi canto classico, e vi riuscirà - e la sorella minore Geeta, bella e superficiale, che sposerà Sanat, amato da Neeta, con l’aiuto della madre opportunista e avida che vede nella figlia maggiore soltanto un sostegno economico per l’intera famiglia, profuga del Bengala Orientale. Neeta avrà un solo attimo di gioia, prima di morire tragicamente di tubercolosi, quando troverà una lettera di Sanat in cui la paragona a “una stella nascosta dalle nuvole”. Neeta - tra tutti i personaggi da lui creati quello preferito da Ghatak, - è stata paragonata spesso alle analoghe figure femminili di Mizoguchi, ma anche in questo caso il riferimento è mitologico: la dea Durga ed anche Ufa, moglie del “Signore della Distruzione”, che da sempre è stata l’archetipo di tutte le figlie e le mogli delle famiglie del Bengala. In alcuni casi Meghe Dhaka Tara è stato criticato (anche dallo stesso Ghatak, sebbene a volte lo ritenesse il suo film migliore) per il suo eccesso di sentimentalismo e per l’esasperazione delle situazioni drammatiche. Tuttavia, in questo melodramma vi è una qualità straordinaria delle immagini ed uno stupefacente uso del suono, degli effetti sonori e della musica.
    La seconda parte della trilogia, Komal Gandhar (Mi bemolle, 1961), è ambientata negli anni Cinquanta e può essere interpretata come una critica all’ideologia dell’IPTA. Due associazioni teatrali una volta unite, allusione alla divisione del Bengala, si fronteggiano: una, guidata da Bhrigu, è boicottata dal capo dell’altro gruppo, Shanta, la cui nipote, l’attrice Ansuya, si innamora di Bhrigu. Le due compagnie rivali infine si riuniscono per mettere in scena il dramma in sanscrito Shakuntala (simbolo del Bengala, per Ghatak), la cui versione di Tagore, Prachin Sahitya, è un costante riferimento all’interno del film. Inoltre, Bhrigu e Ansuya scopriranno di essere entrambi rifugiati del Bengala Orientale. Sebbene la ragazza sia già promessa ad un altro uomo e debba partire per la Francia, deciderà di rimanere accanto a Bhrigu. Mi bemolle, caratterizzato da una splendida interazione tra immagini e musica, era un film molto amato da Ghatak poiché il regista pensava di aver infranto in questo caso la convenzionale linearità narrativa e di essere stato capace di proporre una storia che si sviluppava contemporaneamente su quattro livelli di lettura.
    La conclusione della trilogia, Subarnarekha (1962, uscito nelle sale nel 1965), fu definita dall’ autore il suo film “più filosofico” ed è considerata dalla critica l’opera più complessa, poetica ed aspra di Ghatak. Siamo nel 1948 a Calcutta, dove Ishwar Chacraborty e la sorella minore Sita lottano per la sopravvivenza in una colonia di rifugiati. Nonostante l’estrema povertà, Ishwar accoglie nella famiglia Abhiram, un bambino fuori casta coetaneo di Sita, la cui madre è stata rapita. Fortunatamente, accade che un vecchio compagno di College di Ishwar gli offra un lavoro come contabile a Chatimpur, una cittadina mineraria sulle rive del fiume Subarnarekha. Anni dopo, Abhiram partirà per compiere i suoi studi. Quando tornerà, fuggirà con Sita a Calcutta, in quanto Ishwar si oppone al loro matrimonio. I due avranno un figlio, Binu, ma Abhiram morirà in un incidente e Sita per sopravvivere sarà costretta a prostituirsi. Un giorno, Ishwar e Hariprasad, il suo migliore amico, per sfuggire alle loro frustrazioni si recano a Calcutta in cerca di facili divertimenti, finché completamente sbronzi si ritrovano in un bordello: lo stesso in cui si trova Sita. Ishwar, tra i fumi dell’alcol e senza occhiali, non riconosce la sorella, la quale, inorridita, si uccide, in preda alla disperazione e alla vergogna. Dopo essersi accusato della morte di Sita ed essere stato assolto, Ishwar tornerà sul fiume Subarnarekha, portando con se il piccolo Binu. Il film - che sembrerebbe una sintesi dell’opera di Ghatak per il tipo di soggetto melodrammatico, i luoghi descritti, le allusioni simboliche, le musiche, gli effetti sonori e il linguaggio cinematografico - è anche un continuo susseguirsi di citazioni letterarie, visive e musicali che spaziano da The Waste Land di T.S. Eliot a La Dolce Vita di Federico Fellini.
    Il film preferito di Ghatak - e a ragione, secondo alcuni critici che lo ritengono il suo più grande capolavoro - era Titash Ekti Nadir Naam (Un Fiume di Nome Titash, 1973), adattamento cinematografico di una celebre novella di Advaita Malla Burman. Un Fiume di Nome Titash, prodotto dal Bangladesh poco dopo la sua scissione dal Pakistan, è un’allegoria sulla vita e la morte di una comunità di pescatori, i Mallo, incalzati dal progresso che farà sì che il fiume si inaridisca in modo da poterlo sfruttare per la più redditizia coltivazione del riso. Berlanti, moglie del pescatore Kishore, viene rapita dai pirati del fiume. Sfuggita ai suoi assalitori, è ospitata dai pescatori di un villaggio vicino, presso cui vivrà per alcuni anni, allevando il suo bambino. Il marito, impazzito perché la credeva morta, al suo ritorno non la riconoscerà. Né la stessa Berlanti riconoscerà lui, avendolo visto soltanto una volta: il giorno delle nozze. I due sposi scopriranno la verità solo poco prima della loro morte. Il loro bambino viene allevato da Basanti, il personaggio centrale del film, coscienza e memoria storica dell’intera comunità, che sogna la possibilità di una nuova vita. Per il regista Titash Ekti Nadir Naam, un film di rara bellezza visiva che in alcune sequenze ricorda le composizioni dell’antica scultura templare indiana, rappresentava un saggio sulla liricità delle campagne del Bengala e un’indagine sull’umanità dei suoi abitanti.
    L’ultima opera completa di Ghatak, Jukti, Takko ar Gappo (Un Ragionamento, Una Discussione e Una Storia, 1974), è certamente il film più autobiografico del regista, un testamento simbolico, amaro e pessimista. Il film, interpretato con grande ironia dallo stesso Ghatak, narra del viaggio nel Bengala di uno scrittore alcolizzato che vorrebbe riconciliarsi con la moglie. L’intellettuale, dal significativo nome di Nilkanta (“gola blu”) - uno degli epiteti di Shiva che aveva salvato l’umanità bevendo il veleno halahala,emerso durante il Rimestamento dell’Oceano (Samudramanthana), un nome che è quindi un simbolo della compassione del dio verso il mondo - durante le sue peregrinazioni si imbatte in diversi personaggi emblematici, con cui, di volta in volta, intavolerà discussioni sui temi più importanti che riguardano la vita di ogni individuo. Infine, Nilkanta sarà ucciso, per sua scelta, dal fuoco incrociato della polizia e degli studenti rivoluzionari naxaliti. Morendo, Ghatak-Nilkanta esclama “Uno deve fare qualcosa”, citando il titolo di un racconto di Manik Bandyopadhyay in cui un tessitore senza lavoro fa girare la spola vuota, illudendosi così di “fare qualcosa”.
    Questo grande artista - che non credeva nel Cinema come Arte ma come mezzo per poter comunicare con la gente - incarnazione dello spirito del Bengala, secondo il suo grande ammiratore Satyajit Ray, è stato finalmente riconosciuto come uno dei più significativi Maestri del Cinema indiano e come antesignano del “cinema parallelo”. Nel 1997 il New York Film Festival gli tributò un omaggio entusiasta, proiettando la sua intera produzione cinematografica.


    Mrinal Sen (1923)



    Alla limpidezza cristallina e all’umanesimo classico di Ray, ispirato da Tagore, si è soliti contrapporre il trasgressivo Mrinal Sen, il regista che ha voluto rompere maggiormente con il passato. Noto all’estero quanto Ray, è considerato il più moderno e, almeno per un certo periodo della sua vita, il più politicizzato dei cineasti indiani. Nato nel 1923 a Faridpur (nell’odierno Bangladesh), il padre aderiva al movimento swadeshi, era consigliere di difesa per i membri delle società segrete anticolonialiste ed era solito dare asilo agli attivisti del Congress Party. Mrinal Sen crebbe quindi in un ambiente fortemente influenzato da ideali politici libertari, in una casa dove le incursioni della polizia erano all’ordine del giorno. Laureato in fisica a Calcutta, dopo esperienze teatrali - aderì all’IPTA - e nella critica - nel 1950 fu il curatore, con Chidananda Das Gupta, del primo libro sul cinema indiano, Chalachitra, e nel 1951 scrisse una monografia su Charlie Chaplin - dal 1956 si dedicò al Cinema, avendo per modelli diretti, secondo le sue parole, Eisenstein, Dziga Vertov, Fellini, Visconti, Truffaut, Godard e Bresson, a cui, nel corso del tempo, si aggiungeranno Glauber Rocha, Fernando Solanas e Nagisa Oshima. La sua maturazione artistica, ossia lo sviluppo di tematiche ed estetiche proprie, è stata più lenta e discontinua rispetto agli altri due maestri bengalesi, Ray e Ghatak. E’ certo, però, che subito dopo il suo esordio nella regia abbia cominciato a odiare i film pieni di “buone intenzioni” che, a parere di Sen, forniscono un alibi per mettere in scena il solito melodramma, tanto amato sia dal cinema bengalese d’autore che da quello commerciale. Sen prova altrettanta avversione per il genere epico, sia che sia ambientato nell’antichità sia che si manifesti nel mondo contemporaneo. E’ impossibile, infatti, poter identificare un qualunque personaggio dei suoi film con un eroe. Se la componente emotiva che caratterizzava le opere di Ghatak era stato il dolore per la Partition, Sen nei suoi film tratta con medesima indignazione la carestia del 1943, che ritiene sia stato un avvenimento maggiormente scandaloso della divisione del territorio indiano. Inoltre, una peculiarità che lo contraddistingue dagli altri due Maestri bengalesi è la sua noncuranza per la lingua. Sen ha infatti realizzato numerosi film in hindi, in telegu e in oriya. La sua produzione artistica è stata segnata dalle sue convinzioni marxiste, ma dagli anni ’80 i suoi film sono più interessati alle indagini psicologiche dei personaggi, con un registro narrativo più tradizionale. Autore, nel 1966, di due sceneggiature (Joradighir Choudhury Paribar per Ajit Lahiri e Kankh Kata Hirey per Ajoy Kar), di tre saggi sul Cinema (Chalachitra Bhut Bartaman Bhabhishya, del 1977, Views on Cinema, dello stesso anno, e Cinema, Adhunikata, del 1992), la sua filmografia, fino ad oggi, comprende 34 opere di cui due per la televisione e tre documentari.
    Il suo esordio nella regia fu deludente. Raat Bhore (L’Alba della notte, 1956) è un film in stile neo realista sull’abusato tema del contadino dall’animo puro costretto a vivere nella grande città viziosa. Il neo regista ebbe invece un discreto successo con Neel Akasher Neechey (Sotto il cielo blu, 1958), ambientato a Calcutta negli anni ’30 e con riprese in Cina, in cui si narra dell’amicizia tra una attivista indiana e una cinese fuggita dalla sua patria occupata dai giapponesi. Sen ebbe maggiori consensi con Bhaishey Shravan (Il 22 di Shravan – mese del calendario indiano tra luglio e agosto – o Il Giorno delle Nozze, 1960), il primo film in cui questo regista si sia occupato della carestia del ’43. Seguono altri cinque film – di cui tre di notevole interesse: Punashcha (1961), Akash Kusum (1965) e Matir Manisha (1966) – un documentario e una pausa di riflessione che si concluse con un’opera fondamentale nella storia del Cinema indiano, Bhuvan Shome (Il Signor Shome, 1969). Bhuvan Shome, insieme a Uski Roti (Il Suo Pane) di Mani Kaul e Sara Akash (L’intero cielo) di Basu Chatterjee, tutti e tre realizzati nello stesso anno e finanziati dalla Film Finance Corporation, inaugura ufficialmente la nascita del New Indian Cinema o New Wave Indian Cinema, comunemente detto “cinema parallelo”, in opposizione a quello commerciale definito in genere mainstream cinema.
    Il Signor Shome è un alto funzionario delle ferrovie (interpretato da Utpal Dutt, uno degli attori più carismatici del teatro e del cinema bengalese), integerrimo e autoritario. Un uomo talmente inflessibile da licenziare non solo Yadav, un controllore un po’ truffaldino, ma addirittura anche il figlio perché lo ritiene uno scansafatiche. Recatosi ad una partita di caccia nel Gujarat, l’irreprensibile burocrate incontra Gauri (impersonata dalla bella Suhasini Mulay, nipote di Kamal Haasan, moglie di Mani Rathnam, che diventerà una nota documentarista impegnata politicamente e che nel 1995 dirigerà il lungometraggio Indira), una ragazza di un villaggio, promessa sposa di Yadav. Gauri, un’anima libera che non si fa intimidire dalle convenzioni e dall’autorità, riuscirà ad ammorbidire il carattere del Signor Shome, il quale, una volta rientrato in sede, cambierà tutte le sue vecchie abitudini e chiuderà un occhio sull’inefficienza e sulle piccole ruberie dei suoi dipendenti, anzi le agevolerà. Bhuvan Shome, girato in hindi e con la voce narrante di Amitabh Bachchan, a detta dell’autore fu ispirato dai film di Jaques Tati. Il film non piacque affatto a Satyajit Ray - molto polemico e scettico sulla nouvelle vague indiana che definiva off-beat - che riassunse in sette parole il suo sarcastico giudizio: “Grande Burocrate Cattivo Redento da Bella Villanella”. Bhuvan Shome fu però premiato al Festival di Venezia.
    Durante il periodo turbolento delle rivolte dei naxaliti, Sen è autore di una trilogia su Calcutta costituita da The Interview (1970), Calcutta ‘71 (1972) e Padatik (Soldato di fanteria, 1973).
    The Interview descrive satiricamente i tentativi del giovane Raju di rendersi presentabile ad un colloquio di lavoro presso una società anglo-indiana. Sa che per ottenere il posto deve indossare un abito di foggia europea. Sfortunatamente, il suo unico vestito è in una lavanderia irrimediabilmente chiusa. Presentatosi con il costume tradizionale indiano, non sarà assunto. Raju sfogherà la sua rabbia distruggendo la vetrina di un negozio che espone un manichino con un elegante completo occidentale. In The Interview Sen voleva sottolineare la persistenza dei vecchi valori del periodo colonialista, nonostante l’India fosse indipendente da più di venti anni. Questo tipo di satira, derivante dalla letteratura Naksha della fine del XIX secolo, risale già all’Era del Cinema muto ed è visibile, ad esempio, nel film del 1921 Bilet Pherat (The England Returned), una presa in giro dei bhadralok che avevano soggiornato in Gran Bretagna. Nel 1972 Bilet Pherat sarà rivisitato, con lo stesso titolo, nell’unico lungometraggio realizzato dal noto critico Chidananda Das Gupta.
    Calcutta ’71, in cui Sen ha adottato la forma espressiva del «saggio cinematografico», riunisce cinque storie che si svolgono dal 1933 al 1971: Atmahatar di Manik Bandyopadhyay, Adhiak di Prabodh Sanyal, Akal di Samaresh Bose, Calcutta ’71 di Ajitesh Bannerjee e Interviewer Pare dello stesso Sen. Il filo conduttore del film, che include parti documentaristiche, è uno studente naxalita che dallo schermo incita gli spettatori alla rivolta e che in fine viene ucciso dalla polizia. Come esempio, menzioniamo uno degli episodi dove è evidente la capacità del regista di raccontare realtà difficili con un linguaggio sintetico, in cui è anche presente il gusto del paradosso ed una certa ironia. Dentro una piccola baracca fatiscente, uomini e donne dormono sotto lo scrosciare di una pioggia torrenziale. Il fatto singolare è che, nonostante il tetto sia ridotto come un colabrodo, quei poveracci riescono a riposare in relativa tranquillità, riparati dagli ombrelli o sdraiati sotto i letti. Ma ad un tratto qualcuno si sveglia e, oltre tutto, la pace domestica notturna viene disturbata dall’intrusione di un cane randagio che timidamente si è intrufolato in casa in cerca d’asilo. Il capo famiglia, per «proteggere» il territorio, bastona il povero animale, inutilmente difeso dalle donne. Ad ogni modo, la situazione è ormai insostenibile. L’acqua sta inondando la casupola e la famigliola è costretta ad avviarsi verso un riparo più sicuro. A questo punto, la levità e l’ironia del racconto svaniscono. Il gruppo giunge sulla soglia di un sotterraneo nel cui interno è ammassato un folto numero di persone (insieme al piccolo randagio). Sono altri diseredati che, come i protagonisti, hanno cercato scampo dall’infuriare dei monsoni. Ed ecco che il regista con un uso molto semplice ma estremamente efficace della macchina da presa, un’eloquente panoramica in cui si colgono gli sguardi di quella moltitudine di emarginati, riesce a far partecipe lo spettatore della drammaticità delle loro esistenze.
    Patadik è la storia intimista di un attivista naxalita che trova scampo dalla polizia presso una donna separata dal marito. Invece di essere preoccupato per la sorte del rifugiato, un membro del Partito Comunista protesterà vivacemente per la loro condotta immorale.
    Dopo il singolare esperimento di Chorus (1974), una sorta di fiaba mitologica con implicazioni moderne che unisce diversi stili visivi e narrativi, segue Mrigaya (La caccia, 1976), una splendida e paradossale storia allegorica sulla resistenza della cultura indiana all’oppressione e alla povertà. Il film, realizzato nel periodo culminante dello stato d’Emergenza decretato da Indira Gandhi, anche se ambientato in epoca coloniale è una chiara denuncia delle leggi speciali repressive degli anni Settanta. La trama, che allude alla rivolta dei Santhal del Nord del Bengala nel 1855-56, si svolge negli anni ’30 in un villaggio dell’Orissa. Il giovane tribale Ghinua, grande cacciatore, gode dell’amicizia dell’amministratore locale britannico, il quale è solito pagare una taglia per la testa di ogni bestia feroce abbattuta. E una taglia sarà messa anche sulla testa di un tribale che incita il suo popolo alla rivolta. Il ribelle sarà decapitato da un traditore del villaggio che riscuoterà il premio pattuito. In seguito, Dungri, moglie del cacciatore, viene rapita da Bhuban Sardar, un usuraio che vuole rifarsi di un debito insoluto. Il marito organizza una battuta di caccia per stanare il rapitore e, dopo averlo catturato, poiché lo considera il più pericoloso dei predatori della foresta, gli mozza la testa. Sicuro di poter riscuotere una taglia, consegna il suo macabro trofeo all’amico inglese. Ma, tra lo stupore generale dei tribali, Ghinua sarà invece impiccato per omicidio.


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    L’anno successivo con Oka Oorie Katha (Storia di un villaggio o Gli Emarginati della società), tratto dal racconto Qafan (Il sudario) di Munshi Premchand, Sen realizzò uno dei film più provocatori della cinematografia indiana. Due autentici anti-eroi, padre e figlio, lavorano quel minimo indispensabile per sopravvivere e per acquistare bevande alcoliche in abbondanza. Il loro stile di vita, a dir poco degradante ed eccentrico, è una protesta contro la società. Il figlio decide di prendere moglie, una donna che vorrebbe vivere decentemente e che per questo, sebbene in attesa di un figlio, lavora a tal punto da morire di fatica sotto lo sguardo indifferente dei due fannulloni nichilisti. Dopo aver fatto una colletta per i funerali, padre e figlio lasceranno marcire il suo corpo fuori dalla capanna, spendendo il poco denaro racimolato per concedersi una solenne bevuta.
    Segue Parashurama (Rama con la scure da guerra, 1978), derivato in parte dal lavoro teatrale Jagannath, tratto a sua volta da Ah Q di Lu Xun. E’ la storia di un giovane emigrato a Calcutta, inseparabile dalla sua ascia - da cui il suo scherzoso soprannome, Parashurama è infatti la settima incarnazione di Vishnu - che sogna una vita da eroe mitologico. Nella realtà è un disoccupato costretto a vivere in un cimitero affollato da reietti come lui. Come se non bastasse, impazzirà e sarà fatto sloggiare dal suo tetro rifugio dall’intervento brutale della polizia.
    Sen a questo punto focalizza il suo interesse sull’indagine della classe media di Calcutta - soggetto da sempre caro alla cinematografia bengalese - in Ek Din Pratidin (Un giorno come gli altri, 1979), Chaal Chitra (Caleidoscopio o Miniature, 1981) e Kharji (Respinto o Il caso è chiuso), premio speciale della Giuria al Festival di Cannes. Gli stessi temi saranno ripresi anni dopo con Ek Din Achanak (Un giorno improvvisamente, 1989).
    Akaler Sandhane (In cerca della carestia, 1980), vincitore del Loto d’Oro in India e dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino, è uno dei rari film indiani in cui si fa notare clamorosamente e con crudezza l’enorme differenza economica e socio-culturale esistente tra gli abitanti delle città e la gente dei villaggi, che costituisce la maggioranza della popolazione del subcontinente asiatico. In uno sperduto paesino del Bengala una troupe di idealisti sta girando un film “politicamente impegnato” sulla carestia del 1943. Ma le abitudini consumistiche dei cineasti creeranno lo scompiglio tra gli abitanti del luogo e anche una sorta di “piccola carestia”, con relativi tumulti e intervento della polizia. Le riprese del film dovranno essere interrotte. Akaler Sandhane è una evidente satira sui gruppi di sinistra che in quel periodo intendevano “risvegliare” la coscienza delle masse con i loro film.
    Un posto particolare nella filmografia di Sen è da riservare a Khandhar (Le rovine, 1983), un’opera di grande suggestione visiva - legata all’estetica di Bresson - con una sottile e delicata indagine della psicologia dei personaggi. Tratto dalla novella di Premendra Mitra Telenapota Abishkar (La scoperta del villaggio di Telenapota), Khandhar fu realizzato da Sen perché con questo film voleva liberarsi dalle regole formali e dai dogmi ideologici dell’IPTA.
    Come in Aryaner Din Ratri di Ray, anche qui tre giovani amici si lasciano alle spalle il caos cittadino per trascorrere un weekend in campagna, dove si imbattono nei ruderi di una dimora aristocratica, un tempo sontuosa. L’affascinante palazzo fatiscente è ancora abitato da una vecchia vedova paralizzata e dalla figlia Jamini (Shabana Azmi), che la accudisce con amore. L’anziana signora, ormai in fin di vita e in apprensione per le sorti della figlia, è in costante attesa del promesso sposo di Jamini, non sapendo che non vi è alcuna probabilità che costui si presenti, in quanto si è già sposato con un'altra ragazza. La donna scambia uno dei tre visitatori, il fotografo Subhash – interpretato da un’altra star del New Cinema, Naseeruddin Shah – per il futuro genero. Subhash, impietosito dalle condizioni fisiche e mentali della malata, la asseconda, ma così facendo accende le speranze della riservata, malinconica e bella Jamini. Terminate le vacanze, i tre amici devono tornare a Calcutta, lasciando nuovamente Jamini alla sua solitudine, circondata dalle splendide rovine dell’antico palazzo.
    Genesis (1986) è una grande coproduzione europea con un cast che riunisce tre grandi attori del New Cinema, Shabana Azmi, Naseeruddin Shah e Om Puri. In questo film Sen dichiara la sua visione filosofica della vita. La storia, ambientata in una dimensione atemporale, ipotizza la nascita e la distruzione di una utopistica società anticapitalista. Un’opera molto astratta, che infatti non fu ben accolta dal pubblico. Mahaprithibi (Il vasto mondo, 1991) è una riflessione generale sulle sorti del Comunismo, prendendo spunto dalla storia di una famiglia di Calcutta.
    Dei documentari di Sen almeno due sono da menzionare. Il primo, Calcutta, my El Dorado (1990), faceva parte di un progetto più ampio, City Life, che riuniva dodici lavori di altrettanti registi di diverse nazionalità. Le immagini di Sen sono prive di un testo di commento e sono accompagnate soltanto dalle musiche di Zbignew Preisner e dalla presa diretta: però, anche se intere sequenze sono concepite musicalmente, non troviamo alcuna atmosfera astratta né intenzioni puramente stilistiche. Con la consueta abilità e con lo sguardo attento di un grande Maestro, il regista presenta la sua personale visione del luogo in cui vive e lavora, un luogo amato e odiato nello stesso tempo. Sen mette in campo tutte quelle forze eterogenee, positive e negative, che convivono in un “organismo” tanto complesso e controverso quale è in realtà Calcutta.
    Il secondo documentario, Century of Cinema (1997), una produzione anglo-indiana, è importante non per motivi estetici ma storico critici. E’ la ricerca della realtà, nelle sue varie forme, che il Cinema indiano ha cercato di ritrarre nel corso del tempo.
    Antareen (La Reclusa o I Reclusi, 1993), cronaca di una relazione amorosa telefonica tra due sconosciuti che non si incontreranno mai (uno scrittore e una donna segregata dal suo amante in una casa lussuosa), sembrerebbe una parabola sull’incomunicabilità nella società moderna. Se da un punto di vista stilistico Antareen si collega al cinema francese, il nucleo del soggetto riconduce a La voce umana (primo episodio de L’amore, 1948) di Rossellini e ha dei riferimenti al racconto Kshudita Pashan di Tagore. Nell’ultimo film, realizzato nel 2002, Aamar Bhuvan (La mia Terra) Sen non sembra più essere “il Maestro dell’anticonformismo”. Ne La Mia Terra non c’è più alcuna traccia della sua proverbiale vena trasgressiva e polemica: è una semplice storia d’amore, incentrata su tre personaggi, che si svolge in un ambiente pacifico e sereno.


    Le nuove generazioni bengalesi – PARTE PRIMA



    Grazie al particolare retaggio culturale del Paese, alla tradizionale qualità del suo cinema, all’esempio di tre grandi Maestri (Ray, Ghatak e Sen), alle innovazioni tematiche e linguistiche apportate dal New Cinema, e in certi casi anche al supporto economico dello Stato per poter realizzare alcune opere considerate “difficili”, l’attuale panorama cinematografico del Bengala è affollato da un gran numero di talenti che nei loro film non utilizzano più soltanto il bengoli ma ogni altra lingua dell’India, compreso l’inglese. Per tale ragione, alcuni critici hanno coniato l’espressione Pan Indian New Cinema.
    Tra questi numerosi registi, uno dei più noti è Buddhadeb Dasgupta, nato ad Anara nel 1944, un autentico grande autore definito da molta parte della critica “un ideologo e un umanista”. Fin dal 1961 Dasgupta si era dedicato alla poesia - tra le sue antologie di versi, da ricordare: Arieley (1963), Coffin Kimba Suitcase (1972), Him Jug (1977), Chhata Kini (1981) e Roboter Gaan (1985) - per poi occuparsi anche di letteratura (fino ad oggi ha pubblicato quattro romanzi) e di musica. Laureato in Scienze economiche, tra il 1968 ed il 1976 ha insegnato tali materie in un College di Calcutta. Dasgupta iniziò la carriera cinematografica nel 1968 e le sue opere, basate quasi sempre sui suoi scritti, comprendono un gran numero di documentari, molti dei quali hanno per soggetto aspetti della cultura indiana sia antica che moderna, come è il caso di Ganesh Pyne (id. o Il Pittore dal silenzio eloquente, 1998), un'artista considerato dal pittore più anziano e carismatico dell’India, M.F. Husain, il più grande maestro vivente, secondo soltanto allo stesso Husain. L’esordio nella finzione narrativa di Dasgupta, Duratwa (La Distanza, 1978), ricorda, per alcuni versi, le opere su Calcutta realizzate da Ray negli anni ’70. Anche il film dell’anno successivo, Neem Annapurna (Un boccone amaro), è legato allo stile narrativo e formale utilizzato dallo stesso Maestro bengalese nelle sue prime opere, sia per l’accentuato realismo che per la cura dei dettagli, anche se alcune sequenze di Neem Annapurna sembrano ispirarsi a Godard. Nel 1982 Dasgupta realizza Grihajuddha (L’incrocio), vincitore del premio FIPRESCI al Festival di Venezia. Benché Satyajit Ray lo avesse definito “un film poetico e sensibile sulla Calcutta contemporanea”, il maggiore valore di questo film non sembra consistere nel lirismo che, in una certa misura, è comunque presente, ed in particolare in riferimento al personaggio femminile della storia. Nella quasi totalità delle sequenze i toni visivi de L’Incrocio sono aspri, mentre gli avvenimenti si succedono con un ritmo incalzante e asciutto, come si addice ad un thriller politico che ricorda le opere di Costa Gavras. La storia narrata da Dasgupta è quella della corruzione in un’industria dell’acciaio a Barrackpur, nei pressi di Calcutta, e dell’assassinio di un giornalista - interpretato da Goutam Ghose - che indaga su quei loschi traffici. Chi ha scoperto l’omicidio, e proseguirà l’inchiesta, nonché i loro familiari, subiranno minacce da parte dei killer e dalla stessa polizia. Una vicenda complessa, con altri assassini, ed una parte della trama che approfondisce le vicissitudini di Nirupama, sorella di una delle vittime. Ma il tema di fondo affrontato da Dasgupta, implicito anche nel titolo, è quello delle scelte personali dell’individuo. Altro film notevole è Andhi Gali (Vicolo cieco, 1984) che con Duratwa e Grihajuddha, dovrebbe formare, a parere della critica, una trilogia sulle delusioni esistenziali e sociali della classe media politicizzata di Calcutta. L’autore, però, non concorda con tale interpretazione e afferma di aver concepito ognuno di questi film come un unicum, ovvero, ciascuno di essi ha una sua logica ed un proprio stile. Seguono quattro lungometraggi - Phera (Il Ritorno, 1986), Bagh Bahadur (Il Danzatore Tigre, 1989), Tahader Katha (Le Loro Storie, 1992) e Charachar (Il Rifugio delle Ali, 1993), considerata una delle opere più poetiche del Cinema indiano degli ultimi anni - che trattano di individui che hanno fatto delle scelte di vita difficili e che per tale motivo sono ostacolati ed emarginati dalla società. Un altro tipo di tematica, la crisi familiare nelle coppie dell’alta borghesia di Calcutta, è visibile in Lal Darja (La Porta Rossa, 1996), una delle realizzazioni cinematografiche di Dasgupta più profonde per indagine psicologica e più raffinate dal punto di vista estetico. Nel 2000 Dasgupta vinse con Uttara and Her Wrestlers il premio per la regia al Festival di Venezia. In Uttara - della cui colonna sonora è autore lo stesso regista - due impiegati delle ferrovie, di stanza in un piccolo villaggio, sognano di essere assunti nel servizio di sorveglianza a bordo dei treni. Uno dei due sposa Uttara, una donna dotata di grande umanità, ed il suo amico se ne innamora. Ma il punto focale del film è rappresentato dall’assassinio di un sacerdote cristiano da parte di un fanatico dell’hindutva (lett. “induità”, termine che, in genere, si utilizza per denotare l’ideologia degli oltranzisti hindu), il quale brucia la chiesa del villaggio, mentre Uttara subisce la violenza dei componenti della sua banda. Uttara si basa su un fatto realmente accaduto in una piccola città dell’Orissa, dove un missionario australiano e i suoi figli furono bruciati vivi da alcuni seguaci dell’hindutva. Il film di Dasgupta è un ammonimento drammatico sul pericolo che l’India potrebbe correre a causa del diffondersi del fondamentalismo religioso. Mando Meyer Upakhyan (Diario di una cattiva ragazza, 2002) - un’opera splendida sia visivamente che come struttura narrativa - ha per nucleo centrale un racconto di Prafulla Roy, che si interseca con altre cinque storie, scritte dallo stesso regista: una ragazzina, figlia di una prostituta, seguendo i consigli di un suo insegnante, scappa da casa per non correre il rischio di dover ripercorrere le orme della madre, un gatto che si era smarrito torna felicemente dal suo padrone, in ansia per la sua sorte, una coppia di anziani malati è improvvisamente trasferita da un autobus su cui viaggiano in una macchina, con conseguente affannosa ricerca di un ospedale, e così via. Tutte storie semplici, in cui Dasgupta cerca di ampliare il suo campo di ricerca espressiva - il regista è anche uno studioso di Cinema ed è autore della raccolta di saggi Swapna Samay Cinema - dal consueto realismo a ciò che l’autore definisce un tipo di realismo magico, una strada che ha continuato a percorrere in altri film: Swapner Din (Inseguiti dai Sogni, 2004) e Kalpurush (Ricordi nella Nebbia, 2005), tratto dal suo ultimo romanzo America, America.

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    Anche Aparna Sen
    nata nel 1945, laureata in Letteratura inglese e, come già sappiamo, cresciuta nell’ambiente del Cinema grazie al padre (il più volte menzionato Chidananda Das Gupta), è considerata una delle migliori registe dell’India. Il suo modo di raccontare, semplice e diretto, privo di intellettualismi, spesso definito “classico”, è ben comprensibile anche da parte di un pubblico non indiano. Estranea all’impegno politico militante di molti dei suoi colleghi bengalesi, Aparna Sen propone un Cinema basato sui sentimenti interiori, in cui si analizzano caratteri e problematiche del mondo femminile, senza mai scadere nel femminismo di maniera. Alcuni critici ritengono che il suo cinema abbia subito degli influssi anche da James Ivory, con cui Aparna Sen lavorò come attrice in due dei film girati in India dal regista americano: The Guru (1968) e Bombay Talkie (Il Cinema di Bombay, 1970). Nonostante una brillante carriera come attrice, fu Satyajit Ray, dopo aver letto un suo racconto, ad incoraggiarla a dedicarsi alla regia. Questo racconto (un tributo della regista alla sua insegnante d’inglese), 36 Chowrighee Road - che ad alcuni ricorda La Vieille Dame Indigne (1965) di René Allio - divenuto film nel 1981, è la storia malinconica di una ex insegnante inglese, Violet Stoneham (interpretata da Jennifer Kendall, moglie dell’attore e regista Shashi Kapoor, fratello di Raj Kapoor, e produttore del film), che ha una predilezione quasi maniacale per Shakespeare. L’isolamento della donna è alleviato per un certo periodo di tempo dalla presenza di una sua ex allieva e del suo fidanzato aspirante scrittore. Però, quando i due giovani si sposeranno non frequenteranno più la casa di Chowringhee Road e Violet Stoneham si rassegnerà a rinchiudersi nel suo mondo popolato da ricordi. Il film, che fu immediatamente apprezzato dalla critica, è uno studio sulla solitudine e sulla forza interiore della protagonista.
    Paroma (1986) è uno dei film che ha suscitato maggiore clamore in India per il suo soggetto “scandaloso” (almeno per la morale indiana). Paroma, una donna modello, sposata e ormai matura, intreccia una relazione con un uomo molto più giovane di lei. Scoperta dal marito, dapprima tenterà il suicidio, ma poi, con il sostegno della figlia, e non provando alcun senso di colpa per il suo comportamento, è pronta ad affrontare una nuova vita. Uno dei film emotivamente più intensi di Aparna Sen è Sati (1989), ambientato nel 1829, proprio quando gli inglesi misero definitivamente fuori legge la sati - lett. “(donna)virtuosa”, il suicidio rituale delle vedove di alta casta sulla pira funeraria del marito, detto anche sahagamana - una tradizione barbara che fu condannata contemporaneamente anche dal Brahmo Samaj. Uma (Shabana Azmi), una ragazza brahmana orfana e sordomuta viene “data in sposa” ad un banyan (ficus bengalensis, uno degli alberi sacri dell’India, ber o bor in hindi) perché il suo oroscopo prevede la morte immediata di un suo eventuale marito. Sedotta dal maestro del villaggio, che non si curerà più della ragazza, Uma viene scacciata dalla comunità e troverà la morte abbracciata al suo sposo-albero, sradicato durante una tempesta nella stagione dei monsoni. Sempre con Shabana Azmi come interprete, l’anno successivo la regista realizza il film televisivo Picnic.
    In Yugant (La Fine di un’Era, 1996) una coppia professionalmente affermata, separata per motivi di lavoro, trascorre insieme un periodo di vacanza nella baia del Bengala. Un soggiorno che li riunirà ma che, tra le notizie televisive, le informazioni via computer di ciò che accade nel mondo ed i racconti degli antichi miti narrati ai due turisti dai pescatori del luogo, si trasforma anche in un confronto critico tra la vecchia e la nuova India. In Paromitar ek din (Un giorno di Paromita, 1999), la regista descrive il legame di grande amicizia che unisce la protagonista e la suocera, interpretata dalla stessa Aparna Sen. Un sentimento che si rafforza proprio quando Paromita si separa dal marito e che manifesterà tutta la sua profondità nel momento in cui la donna - ormai divorziata e risposata, e quindi non appartenente più a quella famiglia - assisterà con devozione filiale la suocera sul letto di morte.
    Mr. & Mrs. Iyer (2002), che fu presentato al 55° Festival di Locarno, è noto al pubblico italiano per aver vinto nel 2003 il premio Città di Roma della Rassegna Cinematografica Incontri con il Cinema asiatico, e per essere stato proiettato nello stesso anno al 3° River to River Florence Indian Film Festival di Firenze. Dal Sud dell’India Minakshi Iyer, con il figlioletto Santhanam, deve intraprendere un lungo viaggio per raggiungere Kolkata (Calcutta), dove vive il Signor Iyer. Prima della partenza, Minakshi viene presentata a Raj Chowdhary, un fotografo naturalista bengalese. L’interno dell’autobus su cui viaggiano sembra voler rappresentare uno spaccato che sintetizza tutta la complessità dell’India moderna: vi sono riunite le varie generazioni, con i loro diversi modi d’intendere la vita, le differenti classi sociali e le molteplici credenze religiose. La serenità del percorso è interrotta dalla notizia che nella regione sono scoppiati dei gravi disordini: un induista è stato ucciso da un musulmano ed una banda di kar sevak (lett. “volontari”, di fatto fondamentalisti hindu esaltati) si aggira nella zona per compiere vendetta. Di notte, un gruppo di questi fanatici fa incursione sull’autobus, trascinando via tutti quei passeggeri che sospettano essere di fede islamica. Raj Chowdhary è musulmano, il suo vero nome è Jehangir, mentre Minakshi è una induista ortodossa tamil, per di più di alta casta brahmana. Ma la ragazza non può approvare l’intolleranza religiosa e salva la vita al fotografo dichiarando agli assalitori di essere sua moglie: Raja e Minakshi sono una rispettabile coppia hindu, il Signore e la Signora Iyer. Da quel momento i due sono considerati a tutti gli effetti marito e moglie e come tali si dovranno comportare per non destare sospetti fra gli altri passeggeri. Prima di poter giungere sani e salvi a Kolkata, dovranno affrontare situazioni paradossali, umoristiche e drammatiche, come quando saranno testimoni della ritorsione cruenta dei musulmani contro gli induisti. Il viaggio di Minakshi e Jehangir si trasforma quindi in un viaggio interiore. Le differenze religiose che li dividono sono presto dimenticate, i due impareranno a conoscersi ed a capirsi, anche se una volta giunti a destinazione la loro separazione sarà inevitabile. Mr. & Mrs. Iyer, interpretato in maniera molto convincente dall’attore e regista Rahul Bose e da Konkona Sen Sharma, figlia dell’autrice, è stato girato in inglese e si è avvalso di un direttore della fotografia d’eccezione, Goutam Ghose, e del commento musicale del grande Zakir Hussain.
    In 15 Park Avenue (2005), ultimo film della Sen, Anjali (Shabana Azmi) accudisce, insieme all’anziana madre (Waheeda Reheman), la sorella minore Meethi (Konkona Sen Sharma), malata di schizofrenia. Le sue condizioni psichiche sono tali da costringere il fidanzato Joydeep (Rahul Bose) a lasciarla. Da quel momento, Anjali sacrifica la sua vita per stare accanto alla sorella. Undici anni dopo, Joydeep, sposato e con due figli, incontra casualmente Meethi. La donna sembra non riconoscerlo, ma ne diventa amica. Anzi, è proprio a Joydeep che rivela le proprie fantasie allucinatorie: è convinta di vivere in una splendida abitazione al numero 15 di Park Avenue, circondata dalla tenerezza del marito e dall’amore di cinque bei figli. Ma non c’è alcuna Park Avenue a Calcutta. Una storia con regia e recitazione impeccabili e, come spesso accade nei film di Aparna Sen (ad esempio in 36 Chowringhee Road e in Sati), con un finale poetico, in questo caso quasi magico. Accompagnata da Joydeep per le strade della città per rintracciare l’inesistente 15 Park Avenue, Meethi “trova”, finalmente, “la sua casa” e vi si rifugia, scomparendovi dentro. Lo spettatore può così vedere il mondo felice in cui la mente della ragazza vorrebbe vivere: il suo rassicurante ambiente domestico, i suoi bambini e suo marito, che la attendevano da tanto tempo e che ora la accolgono a braccia aperte. Ormai conscia della vita interiore di Meethi, anche Anjali, corsa alla ricerca della sorella, crede nell’esistenza di Park Avenue.
    Pure Utpalendu Chakraborthy, nato nel 1948 nel distretto di Pabna, nell’attuale Bangladesh, ha una solida formazione culturale: laureato in Storia Moderna, oltre che nella regia si distingue in numerose altre attività artistiche, quali la poesia, la musica e la letteratura (con lo pseudonimo di Swaranamitra ha pubblicato Prasab, un’antologia di novelle). Influenzato fin da piccolo dallo zio, il noto scrittore comunista Swarnakamal Bhattacharya, autore nel 1950 di Chinnamul e di Tathapi, di cui si è già discusso, rispetto agli altri autori bengalesi della sua generazione Chakraborthy è il più politicizzato, essendo un membro attivo del Partito Comunista Marxista-Leninista. Di conseguenza, le sue opere sono fortemente condizionate da tali idee. Inoltre, per un lungo periodo è stato insegnante volontario presso le popolazioni tribali del Bengala, del Bihar e dell’Orissa, esperienza che traspare nel suo primo film, Monya Tadanta (Postmortem, 1981). Ottimo documentarista, di questo settore della sua attività cinematografica sono da menzionare due prodotti particolarmente interessanti: Mukti Chai (Vogliamo la Libertà, 1977), sui prigionieri politici durante lo Stato d’Emergenza, e The Music of Satyajit Ray del 1984, dove risalta tutta la sua cultura musicale. Tra i lungometraggi, caratterizzati da tematiche molto dure ma non assimilabili al consueto genere “sociale”, dotati cioè di notevole originalità, da segnalare Chok (L’Occhio, 1982), basato su un fatto realmente accaduto sull’espianto delle cornee a due prigionieri impiccati in Andhra Pradesh durante lo Stato d’Emergenza, Debshisha (Il Bambino Dio, 1985), su un’infelice nato con tre teste che a scopo di lucro viene spacciato per l’incarnazione di una divinità ed esposto al pubblico, film che vinse il premio per la migliore regia al Festival di Locarno, e Chhandaneer (La Rete del Ritmo, 1989), un film apparentemente musicale - si tratta della storia di Seema, una danzatrice di Bharata Natyam - ma che è soprattutto una presa di posizione contro le contaminazioni di tipo commerciale a cui la musica classica indiana è sottoposta da parecchi anni.


    Le nuove generazioni bengalesi – PARTE SECONDA



    Goutam Ghose (anglicizzazione di Ghosh) è nato nel 1950 a Faridpur, la stessa città natale di Mrinal Sen. Laureato in economia, diviene fotoreporter, per poi occuparsi di animazione e regia presso diversi gruppi teatrali. Ghose è uno dei pochi cineasti indiani ad avere una certa notorietà anche in Occidente, molti dei suoi film sono stati infatti selezionati o premiati in importanti Festival, ad esempio: a Berlino, Cannes, Karlovy Vary, Locarno, Sydney ed a Venezia. Inoltre, è un autore piuttosto conosciuto in Italia, tanto che la prima retrospettiva europea delle sue opere fu presentata al Napoli Film Festival del 1997. Questo regista si è sempre professato, ed è considerato da molti, l’allievo ideale di Satyajit Ray. Un giudizio avvalorato da un’autentica vena di “realismo poetico” presente nei suoi film e dalla sua composita personalità artistica: come Ray, Ghose di solito cura oltre alla sceneggiatura le musiche, le riprese ed il montaggio. Però, il suo modo di fare cinema, caratterizzato da una forte tensione ideologica e morale, ha avuto origine anche dall’osservazione delle opere del suo primo Maestro ideale, il grande documentarista Joris Ivens (1898-1989), perché Ghose, tra i registi bengalesi (quasi tutti ottimi documentaristi) è quello che si è maggiormente occupato di questo aspetto del Cinema. Il suo primo lavoro di rilievo è infatti Hungy Autumn (1976), in cui si documenta con indignazione la carestia del 1974, un cortometraggio che vinse il primo premio all’Oberhausen Film Festival e fu «Premio al Merito» a Lipsia. Fino ad oggi Ghose ha realizzato una ventina di documentari e tra i più importanti sono da segnalare: Land of Sand Dunes (1986), A Tribute to Odissi, realizzato nello stesso anno, Sange Meel se Mulaqat (Incontro con una Pietra Miliare della Musica, 1989), su Ustad Bismillah Khan, il più grande virtuoso vivente di shehnai (uno strumento simile all’oboe), evento speciale a Cannes, Beyond the Himalaya. The Timeless Silk Roads (1996), un grande viaggio nella cultura antica e moderna dell’Asia centrale in cinque puntate realizzato per la televisione inglese e indiana, lo straordinario Ray (1999), che fu presentato a Venezia, Kalahandi (2002), sulle conseguenze della corruzione politica in un villaggio dell’Orissa, e Impermanence (2004), sul XIV Dalai Lama, prodotto proprio dall’Italia, dalla Indrapur Cinematographica.
    I primi film di Ghose sono esplicitamente impegnati politicamente, dal didascalico Maabhumi (Terra Madre, 1979), sulla rivolta dei contadini di Telengana (nell’attuale Andhra Pradesh) protrattasi dal 1944 al 1951, al più maturo Dakhal (L’Occupazione, 1981), Gran Premio della Giuria all’XI° Festival dei Diritti Umani di Strasburgo. Dakhal, basato su una storia reale, ha per temi l’emarginazione dei gruppi tribali, l’oppressione delle caste basse e lo strapotere dei proprietari terrieri. Andi, appartenente a una tribù i cui membri durante i loro vagabondaggi si guadagnano da vivere facendo gli spazzini (compito riservato solo alle caste inferiori), è sposata con Joga, un contadino di un altro gruppo etnico. Alla morte di Joga, il più potente dei proprietari terrieri locali, con la connivenza delle autorità e scatenandole contro la sua stessa tribù, cerca di appropriarsi della terra ereditata da Andi. La donna, nonostante l’invito dei suoi fratelli adivasi, che hanno scoperto il raggiro, di unirsi a loro, decide di rimanere e di lottare per difendere i suoi diritti.
    Seguono tre autentici capolavori. Nel primo, Paar (La Traversata, 1984), tratto da un racconto di Samaresh Bose, Paarhi dial, la denuncia sociale assume i toni di una metafora. Il contadino Naurangia (Naseeruddin Shah), uccide il fratello di un proprietario terriero che a sua volta aveva fatto assassinare il maestro progressista del villaggio. Naurangia con la moglie Durga (Shabana Azmi) fugge a Calcutta per non essere arrestato. Ma le condizioni di vita nella grande città sono talmente miserabili che i due accettano di traghettare da una sponda all’altra del Gange un branco di maiali per poter pagare il viaggio di ritorno al loro villaggio. Nonostante la storia sia drammatica, nel film appare a tratti un certo umorismo ed il finale fa intuire che per i fuggitivi ci sarà un futuro migliore. Naseeruddin Shah ottene il Leone d’Oro come miglior attore al Festival di Venezia e nella stessa Rassegna Paar fu insignito del premio UNESCO per i valori umani.
    Il secondo film, Antarjali Jatra/Maha Yatra (Il Viaggio al di là, nella versione in bengali, Il Grande Viaggio, nella versione in hindi, 1987), nella filmografia di Ghose occupa probabilmente il posto di maggior rilievo. Il film, basato su una nota novella del 1960 del bengalese Kamal Kumar Majumdar, è ambientato in un periodo successivo al 1829, anno in cui, come detto precedentemente, fu messo fuori legge la sati. Al vecchio brahmano Sitaram (Promode Ganguly), che sta per morire, viene predetto da un astrologo (Robi Ghosh) che otterrà la liberazione dal ciclo delle rinascite se la sua sposa diverrà una sati. Sitaram è vedovo, ma gli altri brahmani, felici di infrangere la legge per assecondare la loro superstizione, trovano facilmente un membro povero della loro stessa casta disposto a dare in moglie al moribondo la sua giovane figlia Yashobati (Shampa Ghosh), anzi il padre è orgoglioso che la figlia sia glorificata grazie alla celebrazione della sati. L’unico contrario al matrimonio è Baniju (interpretato da un ottimo attore del cinema commerciale di Bombay, Shatrugham Sinha), un fuori casta ubriacone e anticonformista che costruisce le pire funerarie nel campo di cremazione. Baniju cercherà di convincere Yashobati a fuggire e nella notte di plenilunio in cui l’astrologo aveva predetto che il vecchio sarebbe morto, avvolge Sitaram in una stuoia e tenta di gettarlo nel fiume. Ma la futura sati interviene in difesa del brahmano in fin di vita. Durante la (scandalosa) colluttazione con l’intoccabile, Yashobati viene trascinata insieme al marito nelle acque del Gange da un’improvvisa piena del fiume. Antarjali Jatra è un film sui sentimenti fondamentali degli esseri umani, con una forte intensità drammatica che non scade mai nel melodramma. Ambientato quasi in un'unica location, la riva desolata e fangosa del fiume, che ricorda un teatro antico con i suoi molteplici piani, Ghose ha usato in maniera magistrale la luce, lo spazio, il movimento e il colore per dare la forza di una tragedia greca alla sua storia.
    L’ultima opera di quel felice periodo creativo è Padma Nadir Mahji (Il barcaiolo del fiume Padma, 1992), adattamento cinematografico di una novella di Manik Bandhopadhyay, che ottenne il premio UNESCO per i valori umani a Cannes. La prima parte del film ritrae in modo quasi documentaristico la travagliata esistenza dei pescatori che vivono sulle rive del Padma, un grande fiume che confluisce nell’intricato, lussureggiante ma inquietante delta del Gange. Il proprietario di molti degli isolotti deserti del delta è un singolare commerciante di fede musulmana, Hussein Mian (Utpal Dutt), il quale sogna di fondare su una di quelle isole una repubblica utopistica in cui tutti possano vivere liberi e senza discordie religiose. A causa di una tempesta, le barche e le capanne degli abitanti del luogo vengono distrutte, allora il generoso Hussein presta loro il danaro necessario per poter riparare i danni. Tra questi pescatori, Kuber (interpretato da uno dei più noti attori del Bangladesh, Raisul Islam Asad), per ripagare il debito traghetta la nave da carico del suo benefattore verso Moyna, l’isola dove Hussein vorrebbe realizzare il suo paradiso terrestre. Accade poi che Kuber si innamori della cognata Kapila (Rupa Ganguly) e che il pretendente della donna accusi per vendetta il barcaiolo di un furto che non ha commesso. Per sfuggire alla cattura, Kuber, seguito da Kapila, si rifugia sull’isola di Hussain, con la speranza di poter iniziare una nuova vita. Questo film, di rara bellezza visiva e con chiare valenze simboliche - il Padma rappresenta il fiume della vita, mentre la figura femminile allude all’eterno mistero delle forze della natura - può essere considerato un fervido appello all’armonia tra hindu e musulmani: non a caso, fu realizzato mediante una co-produzione tra Bangladesh e lo Stato del Bengala.
    Patang (L’Aquilone, 1993), è un film con un titolo emblematico - come il volo degli aquiloni anche le aspirazioni umane verso valori elevati sono condizionate da casi fortuiti - ed è una denuncia della convivenza tra gruppi politici, polizia e criminalità. Far volare il suo aquilone è lo svago preferito di Somru (Syed Shafiqe, interprete nel 1988 di Salaam Bombay di Mira Nair), un ragazzino che vive una situazione familiare avvilente: la madre, la vedova Jinti (Shabana Azmi) è costretta a convivere con Mathura (Om Puri), capo di una piccola banda di malfattori. Mathura, per “migliorare” il futuro della gang, si allea con alcuni politici corrotti ed usa Somru per depistare l’attenzione degli impiegati ferroviari durante i suoi furti dai vagoni dei treni merce.

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    Gudia (La Bambola, 1997) è un film originale, con un’idea di base affascinante, ed è anche un omaggio alla tradizione del teatro popolare indiano, oltre che un’accusa, ma con i toni di una fiaba, della corruzione politica. Il giovane musicista Johnny lavora in un teatro, dove un vecchio attore ventriloquo si esibisce con una bambola “parlante”. La bellissima bambola a grandezza naturale ha il nome di una delle apsaras (lett. “essenza dell’acqua”, ninfe celesti), Urvashi, la protettrice degli amanti protagonista del celebre dramma di Kalidasa Vikramorvashi (L’Eroe e la Ninfa). In punto di morte, il ventriloquo, che ha trasmesso la sua arte al musicista, affida la preziosa Urvashi al suo allievo, il quale si trasferisce a Bombay. Qui Johnny viene coinvolto nelle trame di un losco politico che vorrebbe utilizzare Urvashi come richiamo per la sua campagna elettorale. Ma durante un Convegno, la bambola si rifiuta categoricamente di parlare a favore del politicante, di conseguenza viene fatta a pezzi dalle guardie del corpo di quest’ultimo. Dopo aver affidato alle acque della baia i resti di Urvashi, simbolo della donna ideale, Johnny si ricongiunge con la sua fidanzata.
    In Dheka (Percezioni, 2001), caratterizzato da una raffinata e innovativa ricerca formale, si ritraggono le speranze, le aspirazioni ed i fallimenti di un’intera generazione di uomini di cultura bengalesi, attraverso i ricordi di Shashibhushan, un vecchio poeta divenuto cieco (Soumitra Chatterjee), che vive insieme alla figlia del suo maestro in una vecchia casa aristocratica di Calcutta.
    Abar ariannye (Ancora nella Foresta, 2003) è l’opera concettualmente più laboriosa di Ghose. Da parecchio tempo il regista aveva in mente di girare un road movie, una storia cioè che si svolgesse intorno ad un viaggio, il simbolo più tangibile delle trasformazioni interiori. Come già accennato, nel 1999 Ghose realizzò uno splendido documentario sulla vita del Maestro bengalese. Visionando l’imponente opera di Manik rimase affascinato da Aranyer Din Ratri (Giorni e Notti nella Foresta, 1970). Ghose ha “continuato” il film di Ray chiedendosi come si sarebbero comportati in una situazione analoga e più di trent’anni dopo quegli stessi intellettuali, ormai inseriti in un mondo profondamente cambiato e con alle spalle i loro sogni di gioventù. Il film ha un breve prologo in cui sono presentati i personaggi - interpretati dagli stessi attori di Aranyer Din Ratri - visti attraverso brani tratti dal film del Maestro, intercalati e legati con le sequenze girate ai giorni nostri. Ghose ha “completato” alcune delle storie individuali che erano presenti nel film di Ray: ad esempio, i due attori principali, Ashim e Aparna, interpretati da Soumitra Chatterjee e Sharmila Tagore, nel frattempo si sono sposati ed hanno avuto due figli.
    Tre dei sopravvissuti del vecchio gruppo di idealisti decidono di ritornare nella foresta accompagnati adesso da mogli, figli, nuore e nipoti. Di fatto, è il viaggio di più generazioni che hanno elementi esterni comuni ed elementi discordanti a livello interiore. Infatti, per quanto riguarda la tessitura narrativa del suo film Ghose ha parlato di una symphonic structure, ossia di una storia corale, suddivisa in due parti. La prima, più rarefatta e statica - che, a detta del regista, tiene conto della rappresentazione della borghesia inetta del teatro di Cecov - è una descrizione psicologica dei personaggi mentre sono impegnati nella tipica adda, l’abitudine tutta bengalese di discutere con disinvoltura e senza impegno su qualunque tipo di argomento. Poi, nella seconda parte, la realtà e l’azione prendono il sopravvento. La sensibile figlia di Ashim e Aparna, Amrita - interpretata da Tabu, ossia Tabassum Hashmi, un’attrice molto versatile e oggi ampiamente affermata, nipote di Shabana Azmi - che non riesce ad accettare le ingiustizie del mondo, scompare nella foresta. Dopo inutili ricerche, ad Ashim giungono due lettere. Nella prima, Amrita rivela di aver tentato il suicidio gettandosi nel fiume, ma di essere stata salvata dagli indigeni della zona tribale, presso cui adesso si trova e dove ha riacquistato fiducia in se stessa. Prega il padre di aiutare i suoi soccorritori perché sono molto poveri. Nella seconda, il vecchio maestro del villaggio, presso cui Amrita è ospite, chiede 300.000 rupie, quasi un riscatto, fiducioso che Ashim, ricco industriale progressista, vorrà contribuire con quella somma ad alleviare le loro sofferenze. Invece, il maestro viene denunciato da Ashim ed arrestato dalla polizia. In una “scena di confronto” con i tre maturi intellettuali, il maestro spiegherà loro il suo comportamento e di conseguenza li porrà di fronte al loro fallimento umano. Il film, presentato al Festival di Venezia, ha avuto come direttore della fotografia lo stesso Ghose, il quale ha anche curato la parte musicale originale, mentre per il repertorio sono stati utilizzati brani di Tagore, Salil Chowdhury, Kaji Najrul Islam, Leonard Cohen e Francesco Guccini, le cui differenze culturali e temporali esprimono gli stati d’animo degli interpreti, appartenenti appunto a generazioni diverse.
    L’ultimo film di Ghose, Yatra (Il Viaggio, 2006), ha una struttura narrativa circolare che ricongiunge il presente al passato. Uno scrittore affermato, Dasrat (Nana Patekar), si sta recando a Delhi per ritirare un premio letterario. Sul treno incontra un cineasta suo ammiratore che è incuriosito da uno dei più noti racconti di Dasrat, in cui si narra dell’incontro di un letterato con Lajvanti (Rekha), celebre danzatrice cortigiana. Dopo aver ricevuto il premio, Dasrat pronuncia un discorso di commiato che suona come un testamento spirituale. Poi lo scrittore si reca a Hyderabad e lì si scoprirà che la novella era realmente autobiografica. Dasrat rivede per l’ultima volta Lajvanti, ormai decaduta di rango, e morirà nella sua casa.
    Sandip Ray, nato nel 1953, si è occupato di fotografia, di grafica e di pubblicità, per poi diventare il miglior assistente del padre, Satyajit Ray, in Shatraj ke Kilari (1977) e in tutti gli ultimi film del Maestro bengalese. Il giovane Ray esordì nella regia con Phatikchand (Phatik e l’Impostore, 1983) per proseguire, dal 1983 al 1986, con due serie televisive e tornare allo schermo con il divertente Goopy Bagha Phire Elo (Il Ritorno di Goopy e Bagha, 1991), sequel di Goopy Gyne Bagha Byne (Le Avventure di Goopy e Bagha, 1969). Ancora ricavato da una storia scritta dal padre, un film interessante realizzato nel 1993, Uttoran (Il Viaggio Interrotto), a cui si aggiunge nel 1995 un altro film notevole, Target, una rivisitazione, con lo sguardo di un autore, di alcune tematiche care al cinema hindi del mainstream. Sandip Ray, benché non sia considerato un innovatore del linguaggio filmico, è tuttavia molto apprezzato dalla critica per la sua capacità nell’utilizzare il mezzo cinematografico e per la qualità dei soggetti dei suoi film, tutti ben costruiti narrativamente.
    Rituparno Ghosh è ritenuto attualmente tra i più interessanti e prolifici autori bengalesi e del Cinema indiano in genere. Nato nel 1961, figlio di un regista di documentari, laureato in Economia e proveniente dal mondo della pubblicità, della documentaristica e delle serie televisive, Ghosh ha sempre avuto anche una spiccata predilezione per la Storia. Questo autore, che ha esordito con un film dedicato ai bambini, Hirer Angti (L’Anello di Diamante), è apprezzato per la sua particolare abilità nel descrivere tutte le sottigliezze emotive che interagiscono nei rapporti umani e per il suo costante interesse al ruolo riservato alle donne nella società indiana, come ha subito dimostrato in film quali Unishe April (19 di Aprile, 1994), Dahan (Fuoco incrociato, 1997) e Asookh (Malessere, 1999). Uno dei suoi film più belli, Bariwali (La Signora della Casa, 1999) - che per alcuni aspetti ricorda Jalsaghar (1958) di Ray - sembra un preludio ad una delle sue opere successive, Chokher Bali. Infatti, la trama di Bariwali si basa sulla realizzazione, all’interno di una vecchia residenza nobiliare, di un film tratto dalla novella del 1903 Chokher Bali (Sabbia negli occhi) di Rabindranath Tagore, una storia che fu portata per la prima volta sullo schermo nel 1938 da uno dei pionieri del cinema bengalese, il cosmopolita Satu Sen (1902-1972). In questo caso, la proprietaria dell’antico palazzo, Banalata Datta (Kiran Kher), una matura signora di discendenza reale, nubile e dal carattere molto schivo e sensibile, viene convinta dal regista a mettere a disposizione per le riprese la sua bella e fatiscente dimora. Dopo molte esitazioni, e dopo essere stata conquistata dalla lettura del racconto di Tagore, Banalata acconsentirà, anzi la presenza della troupe sembra darle nuova vita. Infine, il clima instauratosi con i “cinematografari” è talmente affettuoso e amichevole da farle vincere la timidezza, tanto da accettare di recitare una piccola parte nel film. Ma il suo sogno di essere sfuggita alla solitudine grazie a quei nuovi amici, si infrangerà brutalmente quando scoprirà che l’unica scena in cui è apparsa è stata tagliata nel montaggio definitivo del film. Segue Utsab (La Festa, 2000), ambientato anche stavolta in un’antica dimora in cui, in occasione della grande festa della dea Durga (Durga Puja, tra l’8° e il 9° giorno del mese di Ashvina, settembre-ottobre), si riunisce intorno alla vecchia matriarca - in procinto di vendere controvoglia la casa, simbolo dell’unità, dei valori e del prestigio della famiglia - la tipica joint family indiana, composta da individui appartenenti a varie generazioni, ognuno con le sue problematiche esistenziali. Successivamente, Ghosh dimostra di potersi esprimere artisticamente con toni leggeri e con un certo umorismo in Titli (Il primo giorno del monsone, 2002), film sulla rivalità tra una madre e una figlia - Aparna Sen e sua figlia Konkona Sen Sharma - a causa di un divo del Cinema, rispettivamente ex fidanzato della madre e attore idolatrato dalla figlia. Ma ogni incomprensione alla fine sarà superata e l’amicizia e la solidarietà tra le due donne sarà ancora più salda. Uno dei film migliori di Ghosh, Chokher Bali-A Passion Play (2003), si discosta dall’opera originale di Tagore per alcune modifiche nell’ambientazione. Il regista ha avuto la felice intuizione di inserire come sfondo della trama principale, imperniata sul personaggio femminile di Binodini, il background storico, ovvero la tumultuosa situazione socio-politica creatasi con la prima divisione del Bengala voluta da Lord George Curzon. Binodini, interpretata in maniera molto intensa da Aishwarya Rai (una delle star più amate di Bollywood) è una ragazza intelligente e passionale che lotta contro una società chiusa e conservatrice per cambiare il suo triste destino di vedova. L’amica del cuore della colta Binodini è l’infantile e passiva Ashalanta (interpretata da Raima Sen), sposata con l’altrettanto tradizionalista Mahindra, nella cui casa l’impoverita vedova è stata accolta. Entrambe le ragazze si sono date un soprannome ambivalente, chokher bali, un’espressione per loro affettuosa, ma che invece si dovrebbe attribuire ad una persona antipatica (“sabbia negli occhi” in Bengala è il corrispettivo del nostro “fumo negli occhi”). Il sogno di Binodini è di conquistare l’inaccessibile amico di Mahindra, Behari, un idealista impegnato nella lotta contro la divisione del suo Paese, il quale viene rappresentato (anche nell’aspetto esteriore) come un “doppio” del giovane Tagore. A rimanere ammaliato da Binodini non sarà però l’inflessibile Behari, ma il marito di Asha. Binodini, che dietro il temperamento impetuoso nasconde uno spirito nobile, scompare dalla scena per non sconvolgere la vita della sua amica. Nella conclusione del film si intuisce che Binodini si è unita ad un gruppo clandestino di nazionalisti, quasi che la sua voglia di libertà sia parallela o coincida con il desiderio d’indipendenza che in quel momento stava nascendo in ogni parte dell’India. Choker Bali nonostante sia un film che per sontuosità formale e spettacolarità può essere gradito anche ad un pubblico molto vasto, ha come riferimento Satyajit Ray, tanto che il regista ha reso diversi omaggi al suo Maestro ideale, tra i quali, uno esplicito: la citazione di una nota scena di Charulata (1964) in cui la protagonista osserva con distacco la realtà che la circonda attraverso le lenti di un binocolo da teatro. Nello stesso anno Ghosh gira un film completamente diverso, Shubho Muharat (Il Primo Ciak), un giallo ambientato nel mondo del Cinema che ha come interpreti Sharmila Tagore e Nandita Das, nota attrice, basti ricordare Fire (1996) e Earth (1998), entrambi di Deepa Mehta, nonché danzatrice di Odissi, regista e attivista sociale. Il tema del film successivo, Raincoat (2004), con ancora Aishwarya Rai come protagonista, è intimista (con alcuni colpi di scena), lo stesso genere delle prime opere di Ghosh. Poi il regista rivisita con successo un soggetto storico in Antar Mahal (Le Stanze Segrete del Palazzo, 2005), dove un signore feudale, privo di discendenti, contrae un altro matrimonio, scatenando così la gelosia della prima moglie (Rupa Ganguly) e gli intrighi dei brahmani che lo circondano. Nello stesso tempo, il vanitoso signorotto ambisce ad un titolo nobiliare inglese. A tale scopo, vorrebbe che la statua di Kali, su cui sta lavorando il suo artista di fiducia (Abishek Bachchan, affermato attore di Bollywood, figlio di Amitabh, la super star per antonomasia del Cinema indiano), abbia il volto della regina Vittoria. Lo scultore, invece, ritrarrà le fattezze della nuova giovane moglie del committente, la quale, essendo stata violata l’impenenetrabilità del purdah, si suiciderà. Come Raincoat, dal punto di vista formale l’ultimo film di Ghosh, Dosar (Il Compagno, 2006), potrebbe essere definito minimalista, essendo girato in bianco e nero, solo in interni e con macchina da presa quasi sempre fissa. La storia è sostenuta dalla sottigliezza dei dialoghi - l’interprete femminile è la ormai bravissima Konkona Sen Sharma - ed è interessante per i suoi aspetti psicologici ed emotivi: si tratta del riavvicinamento, dopo un grave incidente automobilistico, di una coppia separata.
    Vi sarebbero numerosi altri registi bengalesi, che si distinguono per l’inventiva del linguaggio visivo e per l’originalità dei temi affrontati nei loro film, di cui si dovrebbe parlare. In questa sede, si possono solo indicare i nomi di alcuni di essi: Saikat Bhattacharya, Malay Bhattacharya, Anjan Das, Raja Mitra, Raja Sen e, tra le ultime generazione, Saturapa Sanyal, scrittrice, attrice e pittrice, Ashoke Viswanathan e Subhadro Chowdhury.

    A domani con la quinta parte di questo megaspeciale e con un nuovo capitolo sul cinema indiano!! :festa: :festa:


     
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  14. LARETTA
     
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    ciao Laretta tutto apposto? oggi non ci sei stata molto....vabbè visto l' ora ieri :faride:
     
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