STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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  1. shinji80
     
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    Bene, passiamolo alla terza parte del nostro "documentario" sul cinema indiano! :P


    CAPITOLO 3: IL BENGALA



    Per comprendere meglio la cinematografia bengalese - che alcuni occidentali hanno ritenuto per molto tempo essere l’unica espressione di Cinema d’Arte esistente in India - sarà utile delineare un sintetico panorama del patrimonio socio-culturale del Bengala: una eredità storica che lo contraddistingue da ogni altra realtà presente nella Nazione indiana.
    Già nei primi anni del Seicento, gli inglesi individuarono nel Bengala la zona ottimale da cui intraprendere scambi commerciali nel subcontinente e in altri paesi dell’Oriente. Calcutta - l’antica Kalakata, da Kali Khota (Il villaggio di Kali), oggi Kolkata - fondata nel 1698 (sui tre villaggi di Kalakata, Sutanati e Gobindapur) intorno alla fattoria fortificata eretta dal capitano Job Charnock nel 1690, divenne, dal 1757 (ufficialmente dal 1772), la base centrale della East India Company.
    In breve tempo, nella nuova città si concentrò una élite autoctona di commercianti, proprietari terrieri e professionisti, ossia di una “classe media”, la cui esistenza ed eterogeneità era anche dovuta ad un sistema di casta meno rigido rispetto a quello vigente nelle altre parti dell’India.
    Dal 1858, con l’esautorazione del potere della Compagnia e l’annessione dell’India alla corona inglese, Calcutta divenne la capitale del British Raj e quella classe media, costituita da bhadralok (“gente istruita”) e babu (gentiluomini) formatasi nei College istituiti dagli inglesi, era entusiasta della modernizzazione e propensa ad adottare una parziale “occidentalizzazione” del Paese. Molti bhadralok, infatti, facevano parte della stessa amministrazione britannica.
    Per importanza, la “Città dei Palazzi”, così era definita Calcutta per la bellezza delle sue architetture vittoriane, era considerata la seconda città dell’Impero britannico. Frequentata da un gran numero di viaggiatori europei, ricchi ed eruditi, offriva agli abitanti e ai visitatori una vita culturale e mondana vivace e stimolante. Ovviamente, per motivi amministrativi, militari ed economici - la sede centrale della Compagnia delle Indie si trovava proprio a Calcutta - i residenti inglesi erano numerosi. Le occasioni d’incontro fra le due culture, quella occidentale e quella orientale, erano quindi frequenti, maggiori di quelle che si potevano avere in altre grandi città coloniali, quali Bombay e Madras che, comunque, si svilupparono in un periodo successivo. E’ nella capitale del British Raj che si realizzarono le prime iniziative culturali moderne - ad esempio la costituzione dell’Asian Society, nel 1784, e la costruzione dell’Indian Museum nel 1875 – e dove vennero pubblicati in inglese i primi quotidiani (Sambad Prabhakar) e le prime riviste (Vividartha Sangraha, Samachar Darpan) del subcontinente. Fu soprattutto a Calcutta, quindi, che gli indiani ebbero modo di conoscere da vicino e a fondo il pensiero, le abitudini e la cultura degli europei, di cui non poterono non apprezzare l’efficiente pragmatismo ed alcuni principi democratici.

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    Tuttavia, nonostante tanta ammirazione e interesse verso l’Occidente, il primo discorso nazionalista fu tenuto proprio da un professore dell’Hindu College di Calcutta (fondato dagli inglesi nel 1816), il filosofo e poeta indo-portoghese Henry Louis Vivian Derozio (1809-1831), il quale aveva fondato un’associazione, la Young Bengal, che si opponeva all’autorità dell’amministrazione inglese e a quella dell’induismo conservatore. Infatti, anche in campo religioso, il Bengala – che da secoli non seguiva più il rigore ritualistico brahmanico, bensì la fede shaiva (del dio Shiva), il bhakti marga (via della devozione), tributato a Krishna, e le credenze sulle varie manifestazioni della divinità femminile primitiva (la Shakti, in primo luogo nel suo aspetto di Kali) – negli stessi anni riesaminò i propri principi teologici, alla luce anche del pensiero occidentale, dando l’avvio con il bramano Ram Mohan Roy (1772-1833), funzionario della Compagnia delle Indie dal 1804 al 1815, alla grande riforma del 1828 del Brahmo Samaj (“Società dei credenti nel Brahman”). Roy proponeva una versione monoteista dell’induismo, priva di culti cerimoniali e di caste, basata, come l’antico Advaita Vedanta, esclusivamente sui Veda, i più antichi e venerati testi sacri dell’India.
    Anche successivamente, altri riformatori religiosi, quali Ramakrishna Paramahansa (1836-11886) e il suo discepolo Swami Vivekananda (1862-1902), sebbene partissero da esperienze e principi diversi, furono interessati in una certa misura al cristianesimo e, nel caso di Vivekananda, si propugnò la sintesi tra la spiritualità indiana con il sapere scientifico e il progresso materiale dell’Occidente, un sincretismo che avrebbe potuto ricostituire una identità nazionale dell’India. Quindi, nell’Ottocento sorge nel Bengala quello che viene definito il Revival bengalese o, in senso più lato, il Risorgimento indiano, che fece di Calcutta anche la capitale intellettuale dell’India. Furono sempre i pensatori bengalesi, soprattutto i numerosi scrittori, ad iniziare a formulare un’elaborazione concettuale della tradizione indiana, avendo come obiettivo una definizione dell’India come Nazione.


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    Notoriamente, la personalità di maggior spicco fra questi innovatori è quella di Rabindranath Tagore (1861-1941), nipote del filosofo Dvarkanath (1794-1846), uno dei fondatori del Brahmo Samaji, e figlio di Debendranath (1817-1905), a sua volta filosofo e fondatore di una società religiosa che confluì nel Brahmo Samaji. Da parte sua, Tagore, primo artista asiatico ad essere stato insignito nel 1913 del premio Nobel per la Letteratura, nel 1901 fondò a Shantiniketan (100 km. a Nord di Calcutta), la Vishva Bharati, una scuola ed una università modello che si basavano sulla tradizione indiana, ma che tenevano conto della cultura occidentale.
    Dal nostro punto di vista, Tagore è anche importante per l’interesse mostrato verso il Cinema, che riteneva fosse un mezzo d’espressione artistico pari alle altre arti, anche se ammoniva che avrebbe dovuto svilupparsi autonomamente, senza legami con la Letteratura. In effetti, le parole di Tagore non sembra siano state ascoltate: i film tratti dai suoi scritti si contano a centinaia e, per quanto riguarda il cinema bengalese, c’è da dire che un gran numero dei suoi prodotti sono adattamenti cinematografici di opere letterarie.
    Oggi è universalmente accettato che la caratteristica dominante del cinema bengalese sia la sua forte connotazione sociale e politica. Ed anche in questo caso vi sono ragioni storiche, basti ricordare che il vero e proprio risorgimento indiano nasce ufficialmente nel 1876 a Calcutta, con la costituzione dell’Indian Association da parte di un bhadralok, l’ex funzionario dell’Indian Civil Service Surendranath Banerjea (1848-1925). Tale società doveva essere, secondo le parole del suo ideatore: “il centro di un movimento pan indiano, basato sulla concezione di un’India unita”. Sempre a Calcutta, lo stesso Banerjea creò, nel 1885, il Congress Party, il movimento indipendentista che portò alla liberazione dell’India, cui aderivano Gandhi e Nehru. Ed è ancora nella stessa città che nel 1905 sorse il più volte menzionato movimento Swadeshi, in reazione alla divisione del Bengala voluta da Lord George Curzon. La decisione del Vicerè fu revocata, ma dal 1911 la capitale dell’India britannica fu trasferita dalla turbolenta Calcutta alla pacifica Delhi. In ogni caso, Calcutta continuò ad essere, fino all’Indipendenza, la capitale morale e culturale dell’India. In seguito, fu sempre nel Bengala, e proprio per il suo particolare passato storico, che si svilupparono i movimenti politici o artistici più progressisti.
    Tornando a quanto ci riguarda direttamente, possiamo dire che già intorno agli anni Trenta la produzione cinematografica bengalese iniziò a differenziarsi da quella delle altre regioni, poiché a Calcutta si realizzavano quasi sempre film di soggetto contemporaneo, sotto la spinta del movimento letterario modernista e realista Kallol (“L’Onda Ruggente”), nato nel 1923. Nello stesso tempo, il Bengala diventava il centro di diffusione, nel settore artistico e in quello politico, di certe forme radicali che interagivano fra loro. Dell’importanza culturale dei Madan Theatres, dei New Theatres, fondati da B. Sircar nel 1931, e dell’Indian Peoples Theatre Association, nata a Londra nel 1935 e successivamente trasferita a Calcutta nel 1943, si è già parlato. In questa sede, è da segnalare la creazione di altre importanti istituzioni: nel 1936 la Bengal Motion Picture Association e gli studidi Tollygunge, sorti nei pressi di Calcutta, teatri di posa dotati di ogni genere di attrezzatura tecnica.
    Di regola, le trame dei lungometraggi avevano come riferimento il teatro moderno bengalese, derivante da quello eroico-melodrammatico vittoriano, e la letteratura in genere. Da osservare, inoltre, che anche i film più commerciali non raggiungevano mai gli eccessi, per numero di canzoni, musiche e danze, dei corrispettivi prodotti confezionati a Bombay e Madras. Da notare, infine, che fin dai suoi esordi la cinematografia bengalese ha sempre potuto contare sull’apporto recitativo di ottimi attori, quasi tutti provenienti dal teatro, e che è sempre stata caratterizzata, sia per quantità che per qualità, da una rilevante produzione di documentari.
    Tra i tanti autori di qualità, che a volte si cimentavano nel genere popolare, si possono menzionare: Charu Ray - notevole il suo Bangali (1936), un’indagine attenta e pacata su una famiglia del ceto medio – Madhu Bose, trasferitosi a Bombay ma educato a Shantiniketan, infatti molti dei suoi film derivano da novelle di Tagore – tra le sue opere migliori Ali Baba (1937), una divertente e misurata fantasia musicale, e Raj Nartaki (La Danzatrice di Corte, 1941), in bengali, hindi e inglese in quanto fu il primo film indiano ad essere proiettato negli Stati Uniti – il più volte citato Nitin Bose – in questo contesto, oltre al già accennato Ganga Jumna (1961), due i film da segnalare: Desher Mati (La terra Madre, 1938), stilisticamente affine a Dovzhenko, sulla crisi causata da un tentativo di rivoluzione tecnologica in un’area rurale, e l’altrettanto impegnato socialmente Jiban Maran (1939) – Sailajananda Mukherji – tra i suoi film, Shahar Theke Dooray (Lontano dalla città, 1943), sul consueto tema del contrasto fra la metropoli e la campagna, e Mane na Mana (Il cuore non è d’accordo, 1945), in cui si esaltano le gioie di una famiglia unita.
    Fra i registi operanti nel periodo immediatamente successivo all’Indipendenza, sono da rammentare: Hemen Gupta – si vedano, ad esempio, 1942 (girato nel 1949), un film anticolonialista, e Taksaal (La Menta, 1956), melodramma contro il potere corruttore del denaro - Nemai Ghosh – autore del celebre Chinnamul (Gli Sradicati, 1950), sui rifugiati del 1947, ispirato dalla tradizione del verismo umanistico, che alcuni critici ritengono sia stato il primo film bengalese autenticamente realista, alla cui sceneggiatura pare abbia partecipato Satyajit Ray (molto amico di Nemai Ghosh) e che annoverava fra i suoi interpreti Ritwik Ghatak – e Nirmal Dey che nel 1953 realizzò una commedia sentimentale di enorme successo: Sharey Chuattar (Settantaquattro e mezzo).
    Proseguendo cronologicamente, si possono ancora menzionare: Asit Sen – da ricordare il notevole Deep Jwaley Jai (Le Lampade continuano ad ardere, 1959), un film psicologico in cui un’infermiera, per assistere i malati di mente, si sostituisce alla figura materna, di cui il regista fece un noto remake in hindi, interpretato da Waheeda Rehman, Khamoshi (Il Silenzio, 1969), dove la protagonista si innamora di un suo paziente - Rajen Tarafdar, il cui The River Ganga (1961) fu presentato al Festival di Venezia, e Ajoy Kar di cui ricordiamo Saptapadi (1961), storia complessa di uno studente induista che diventa gesuita perché il padre non acconsente al suo matrimonio con una ragazza anglo-indiana, e Saat Pake Bandha (Sette passi per il matrimonio, 1963), un dramma sull’incomunicabilità nel matrimonio.
    Giungendo a tempi più recenti, sono da segnalare: Arundhati Devi, attrice e musicista, i cui film più significativi sono Chhuti (La Vacanza, 1967), un delicato melodramma familiare, e la fiaba per bambini Padi Pishir Barmi Baksha (La Scatola di Burma della Zia Padi, 1972), Tarun Majumdar, il cui lavoro più ambizioso è Ganadevata (Gente, 1978), adattamento di una novella bengalese di successo sulla Seconda Guerra Mondiale, e Nabyendu Chatterjee - i cui film hanno spesso per soggetto la decadenza dei valori familiari presso la classe media bengalese e l’oppressione delle donne nelle zone rurali – autore di due interessanti opere sulla carestia del ’43, Aaj Kaal Prashur Galpa (Oggi, domani e il giorno dopo, 1981) e Shilpi (Il Sognatore, 1993).
    Il più noto fra questi autori è, però, Tapan Sinha, un eccellente professionista attivo fino alla metà degli anni ‘90 che realizzò anche numerosi film per bambini, i cui lavori furono quasi sempre ispirati a opere letterarie, soprattutto a quelle di Tagore. A questo proposito, sono da segnalare Kabuliwallah (Il venditore ambulante di Kabul, 1956), una bella storia sull’amicizia di un venditore di spezie, che sarà arrestato per omicidio involontario, e una bambina che gli ricorda la figlia lasciata in Afghanistan, premiato con l’Orso d’Argento al Festival di Berlino del 1957 per le musiche composte da Ravi Shankar, e Athithi (L’Ospite, 1965), che narra di un ragazzo nato in uno sperduto villaggio che vuole scoprire il mondo, film quest’ultimo che fece ottenere al regista un certificato di merito al Festival di Venezia.


    Ok, adesso inzieremo ad esaminare e a conoscere più fondo alcuni registi indiani, che secondo noi, hanno rappresentato il simbolo e l' evoluzione del cinema indiano soprattutto nei primi anni della sua formazione, e della sua affermazione ^_^

    Satyajit Ray – PARTE PRIMA



    Satyajit Ray (1921-1992) è senza dubbio l’autore indiano più ammirato dal pubblico e dalla critica internazionale. Lo stesso regista era stupito dall’essere diventato un’icona e firmava scherzosamente con il soprannome che a causa delle sue molteplici doti artistiche i suoi amici gli avevano conferito fin da ragazzo: Manik o Manikda («Il Gioiello»). Forse, una cosa da sottolineare immediatamente è che in Asia una personalità artistica del suo livello, capace di spaziare in ogni settore dell’arte e tra culture così diverse quali l’orientale e l’occidentale, è riscontrabile, in campo cinematografico, solo in Akira Kurosawa, pure lui afflitto da un soprannome altisonante, impostogli dai suoi devoti ammiratori: Tenno (L’Imperatore).
    Nell’opera artistica di Ray sembra siano confluiti tutti quei principi ideali che, nel corso di un secolo, erano stati elaborati dai grandi innovatori del Bengala. Non a caso, lo si è spesso paragonato, in parte a ragione, a Rabindranath Tagore. Anche Ray proveniva da un’antica dinastia di proprietari terrieri feudali (nel XVI secolo il nome della famiglia era Deo), che si era sempre distinta negli studi, nelle lettere e nella musica. Il padre, Sukumar, era un bravo scrittore e disegnatore di racconti sul genere di Lewis Carrol, il nonno, Upendrakishore, musicista, compositore di canti e inni, pioniere dell’arte dell’incisione e scrittore e illustratratore di libri per bambini. La famiglia Ray era in stretto contatto con quella dei Tagore, in primo luogo perché appartenente dal 1880 al Brahmo Samaji, tra i cui fondatori e direttori vi era stato Devendranath, padre del grande poeta, e inoltre perché lo stesso Rabindranath era molto amico sia di Upendrakishore che di Sukumar. Di conseguenza, Satyajit, spinto dalla madre e su richiesta dello stesso Tagore, dal 1940 al 1942 studiò pittura, sotto la guida di Nandal Bose, a Shantiniketan. Ma Ray preferì interrompere gli studi per trovare un lavoro come grafico presso l’agenzia pubblicitaria Keymer di Calcutta. Intanto, era nata in lui la passione per il Cinema, anche grazie al fatto che poteva frequentare i New Theatres durante le riprese del cugino Nitin Bose. Poco tempo dopo, nel 1947, insieme a Chidananda Das Gupta, che diventerà uno dei più eminenti critici cinematografici dell’India, fondò la Calcutta Film Society, ed ebbe così modo di studiare la cinematografia mondiale. Già dal 1946 aveva cominciato a scrivere sceneggiature, senza avere la possibilità di concretizzarle. Tre anni dopo ebbe modo di frequentare Jean Renoir, di cui fu uno dei collaboratori principali nella ricerca dei luoghi dove realizzare The River. Altra tappa fondamentale del suo apprendistato nell’arte cinematografica fu il suo viaggio a Londra nel 1950, insieme alla moglie Bijoya, per frequentare un corso di specializzazione. Durante il loro soggiorno fecero una vera scorpacciata di film: circa un centinaio in cinque mesi.


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    Preparatoria alla futura attività di regista fu anche la sua intensa attività di critico e l’aver seguito con grande interesse il primo International Film Festival dell’India, organizzato nel 1952 dalla Films Division, dove fu colpito, come del resto molti altri registi indiani, dal linguaggio cinematografico del neo-realismo italiano, in particolare da come veniva esplicitato nei film di Vittorio De Sica. E finalmente Ray si sentì pronto per realizzare la sua prima opera tratta dalla novella Pather Panchali di Bibhuti Bushan Bannerjee, cui seguirono altri due film, ricavati da Aparajito, altra novella dello stesso autore, che insieme costituiscono la così detta “Trilogia di Apu”.
    Il primo episodio della “Trilogia ”, una metafora poetica delle vicende umane in cui si percorrono le varie tappe della vita di un uomo, è Pather Panchali (Il canto del sentiero, 1955). Siamo nel 1910 e Apu, il personaggio principale, è ancora un bambino di sei anni, nato in una famiglia povera di casta brahmana, che vive nello sperduto villaggio di Nishintapur. Il bambino e la sorella maggiore, Durga, trascorrono le giornate spensierati, ascoltando le fiabe narrate dalla zia e osservando, con curiosità e timore, realtà a loro sconosciute: i pali telegrafici e il treno che passa in lontananza, diretto verso il resto del mondo. Spinto dalla povertà, il padre, Harihar Roy, emigra a Varanasi, la città più sacra dell’India, dove un brahmano dovrebbe avere più opportunità di lavoro. La famiglia, rimasta a vivere nel villaggio, si impoverisce sempre più e la zia e Durga muoiono durante la stagione dei monsoni. Il padre decide allora di portare con se nella città santa Apu e la moglie, Sarbajiaya, sperando in un futuro migliore.
    L’opera prima di Ray ebbe un percorso produttivo molto accidentato. Il neo regista riuscì ad ogni modo ad ultimare il suo film - le cui prime sequenze furono lodate da John Huston, di passaggio a Calcutta - grazie agli aiuti del Museum of Modern Art di New York e ai fondi messigli a disposizione dal governo del Bengala. E infine, Pather Panchali ottenne il meritato successo al Festival di Cannes del 1956, ottenendo un premio come “miglior documento umano”, e riscuotendo in tutto il mondo il consenso della critica e degli spettatori. Pather Panchali è infatti un’opera di grande respiro, dai ritmi pacati, gli stessi che si sarebbero potuti percepire nelle campagne del Bengala agli inizi del secolo scorso, e procede con l’incedere modulato di un raga, la base della forma melodica della musica classica indiana.
    Aparajito (L’Invitto, 1956), Leone d’Oro al Festival di Venezia, più melodrammatico del precedente ma con una struttura narrativa più solida, si svolge dieci anni dopo. La situazione economica non è cambiata, Harihar si guadagna da vivere recitando versi sacri sui ghat, le scalinate che conducono al Gange, mentre la moglie lavora come cuoca. Ma Harihar muore e Sarbajiaya è costretta ad accettare la carità di uno zio, affinché Apu possa completare la sua educazione di brahmano. Madre e figlio abbandoneranno quindi Varanasi, per stabilirsi in un villaggio. Il ragazzo, però, non intende seguire le leggi della sua casta e inizia a frequentare una scuola normale, dove otterrà una borsa di studio che lo porterà a Calcutta. Al suo ritorno, Apu troverà la madre morta, annientata dalla solitudine e dal dolore.
    La parte conclusiva della trilogia, Apur Sansar (Il Mondo di Apu, 1959), è ambientata a Calcutta intorno agli anni ’30. Adesso Apu ha più di vent’anni, è laureato, senza un lavoro fisso, vive in una sorta di spelonca in compagnia di un flauto e dei suoi libri, e spera di potersi affermare, prima o poi, come scrittore. Pulu, un collega d’università, un giorno gli propone di accompagnarlo al matrimonio di sua cugina Aparna. Durante la cerimonia, si scopre che il futuro sposo non è del tutto sano di mente e che, purtroppo, Aparna, secondo la tradizione, non potrà più sposarsi se non lo farà nell’ora stabilita dagli oroscopi: cioè quello stesso giorno. Apu, allora, accetta di prenderla in moglie e, una volta rientrati a Calcutta, darà una svolta alla sua vita trovando un impiego stabile. In attesa di un figlio, Aparna, sempre in base alla consuetudine induista, si trasferisce nel villaggio natale dove darà alla luce Kajal, ma subito dopo il parto morirà. Apu, disperato, sparisce per cinque anni, finché non viene rintracciato da Pulu in una miniera di carbone. L’amico lo convincerà a riaffrontare la vita. Apu si recherà nel villaggio dove vive il bambino e, in una scena memorabile, senza rivelargli la sua identità, lo prenderà a cavalcioni sulle spalle per portarlo con se a Calcutta.
    La trilogia di Apu è una rappresentazione di un certo tipo di realtà indiana, ma contiene nello stesso tempo valori universali comprensibili dal pubblico di tutto il mondo. Il grande successo dei tre film fu anche dovuto alla splendida colonna sonora di Ravi Shankar. Pervasa dall’umanesimo di Tagore - con temi narrativi e configurazioni visive legate al neo-realismo italiano – la trilogia di Apu apre la strada, in India, all’autentico Cinema d’arte e consacra Ray, fin dal suo esordio, come uno dei più significativi registi della Storia del Cinema. E’ ancora merito di Ray, sempre grazie alla trilogia di Apu, di aver scoperto un gran numero di talenti: il direttore della fotografia Subrata Mitra, lo scenografo Bansi Chandragupta, Soumitra Chatterjee, che sarà l’interprete principale di altri 15 film di Ray e diventerà uno degli attori più richiesti dal cinema bengalese, e la splendida Sharmila Tagore, pronipote del grande poeta, di lì a poco star in opere d’autore e in film spettacolari in hindi.
    L’anno prima della realizzazione di Apur Sansar, Ray aveva concretizzato un altro capolavoro, Jalsaghar (La sala della Musica,1958), trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Tarashankar Bannerjee, un ritratto malinconico di un aristocratico bengalese che vede crollare i suoi antichi valori sotto la spinta della nascente borghesia.
    Biswambhar Roy, anziano zamindar, un tempo mecenate delle arti e della musica, vive isolato dal mondo nella sua monumentale dimora neo classica. L’antico palazzo è ormai diroccato e il solitario zamindar è accudito come un malato da due fedeli servitori. Come segno della passata grandezza, possiede ancora un elefante, Moti, ed un cavallo, Tufan: due animali che in India simboleggiano la regalità. Un giorno, la sua apatia è scossa dal frastuono causato dai preparativi dell’upanayana (cerimonia per l’investitura del cordone sacro) del figlio del vicino, l’usuraio Mahim Ganguly. Imitando gli antichi usi nobiliari, lo spregiudicato “uomo d’affari” intende offrire agli ospiti un jalsa, ossia una sontuosa serata musicale. In flashback, vediamo l’analoga cerimonia per il figlio del feudatario, seguita da una fastosa jalsa per celebrare il nuovo anno bengalese. E’ proprio in quell’occasione che avviene la tragica morte della moglie e dell’unico figlio di Roy, travolti dal fiume Padma durante una tempesta causata dai monsoni. Da quel momento, lo zamindar si chiuderà in se stesso.
    Roy si rifiuta di partecipare al jalsa di Ganguly ma, punto sul vivo, vende gli ultimi oggetti di valore per poter organizzare uno spettacolo ancor più memorabile, cui inviterà anche il nouveau riche, per impartirgli una lezione di stile e ristabilire così “le giuste distanze”. Il mattino seguente, il vecchio zamindar, mentre semi ubriaco vaneggia della passata grandezza della sua stirpe di fronte ai ritratti degli antenati, vede spegnersi, una dopo l’altra, le candele che illuminano la Sala della Musica ormai vuota. Avendo presagito la sua fine da quella lugubre premonizione, monterà su Tufan e si lancerà in un galoppo disperato. Morirà disarcionato dal cavallo, imbizzarritosi di fronte al relitto della barca che aveva trasportato nel loro ultimo viaggio la sua famiglia.
    Si dice cheJalsaghar, ad eccezione di Devi (1960), sia l’unico film di Ray in cui il personaggio principale, prigioniero del suo passato, sia incapace di cambiare e sia infine distrutto dalla sua stessa intransigenza. Quando il film uscì nelle sale cinematografiche, gran parte della critica rimproverò a Ray di aver tratteggiato con eccessiva simpatia la figura dell’aristocratico decaduto. La replica di Manik fu secca: «Il film cerca di mostrare come un vecchio sistema sia sostituito inevitabilmente da un altro, ma questo non significa che il nuovo sistema sia necessariamente migliore del precedente». Un soggetto melodrammatico quindi, ma diretto con estrema maestria, realizzato fotograficamente da Subrata Mitra con un esemplare uso espressionistico della luce ed interpretato con grande credibilità da Chhabi Biswas (1900-1962). Un film importante anche per gli appassionati di musica e danza del Nord dell’India, in quanto Ray scritturò gli artisti di maggior talento dell’epoca: per la colonna sonora Ustad Vilayat Khan, Salamat Ali Khan per il khayal (nome urdu di un canto originario della Persia), la cantante Akhtar Kumari per il thumri (canto sviluppatosi nel XVIII secolo, combinazione del khayal e del tappa), la straordinaria danzatrice di kathak (danza di corte fiorita nel periodo Moghul) Roshan Kumari, accompagnata dalla musica dei fratelli Vilayat e Imrat Khan, nonché Bismillah Khan allo shehnai (una sorta di oboe) ed il cantante Waheed Khan.
    Nella produzione di Ray degli anni ’60 si assiste ad un susseguirsi di opere magistrali o quanto meno interessanti. Tra esse, Devi (La Dea, 1960), un film tratto da un racconto del 1899 di Prabhat Kumar Mukherjee, derivato a sua volta da un’idea di Tagore. Il tema di fondo di Devi, ambientato nel 1860, è il conflitto tra razionalità e superstizione. Un ricco brahmano, Kalikinkar Roy, adoratore di Kali, dopo una “visione” si persuade che la nuora, Doyamoyee, è un avatar (incarnazione, letteralmente “discesa”) della dea. Per soggezione alla figura del suocero, Doyamoyee non si oppone alle assurdità di Kalinkar, anzi alla lunga si convincerà di avere i poteri soprannaturali della Devi. Il marito, Umaprasad, un libero pensatore che studia a Calcutta, cerca inutilmente di farli rinsavire da quella pericolosa follia. Un giorno, Doyamoyees, ormai deificata, con le sue presunte capacità taumaturgiche “guarisce” un bambino in fin di vita. Lo stesso miracolo non le riuscirà però con il proprio figlio Kokha, il quale, privo di cure mediche, morirà: la madre perderà completamente la ragione. La scena conclusiva ci potrebbe illuminare sul pensiero di Ray. Una statuina di Kali, abbozzata nell’argilla, sembra attendere di essere vestita e decorata per il culto: forse sono gli esseri umani a creare gli dei, ed è sempre la mente dell’uomo a decidere se essi devono essere usati per il bene o per il male. Devi, recitato da Chhabi Biswas, Soumitra Chatterjee e Sharmila Tagore e con musiche di Ali Akbar Khan, fu attaccato violentemente dagli induisti più intransigenti, ma fu premiato con la Medaglia d’Oro del Presidente.
    Teen Kanya (Tre ragazze, 1961) - insieme al documentario Rabindranath Tagore, realizzato da Ray quello stesso anno - è un tributo al grande pensatore bengalese, in occasione del centenario della sua nascita. Teen Kanya è infatti l’adattamento per lo schermo di tre racconti brevi, tre ritratti di donne, che appartengono a generi letterari assai diversi fra loro. Nel primo delicato e malinconico episodio, The Postmaster, Ratan, una bambina orfana di dieci anni, accudisce con devozione il suo padrone, direttore dell’ufficio postale del luogo. Quando il funzionario dovrà fare ritorno a Calcutta, perché si è ammalato di malaria, la ragazzina rifiuterà con sdegno il danaro che le viene offerto ma lo implorerà tra le lacrime di portarla con se. Le sue preghiere non saranno ascoltate. Solo quando si troverà nella grande città il postmaster sentirà la sua mancanza, rendendosi conto che la piccola Ratan, che viveva solo per lui, forse lo considerava come un padre. Nella seconda parte, Monihara (I Gioielli perduti), una storia di fantasmi, Manimalika, moglie trascurata di un uomo molto ricco, è ossessionata dalla smania di accumulare gioielli, una compensazione al fatto che non può avere figli. Anche da morta, infatti, tornerà nella sua casa per recuperare i suoi amati tesori. Nell’ultimo episodio, Samapti (La Conclusione), una commedia comica, Mrinamoyee - interpretata dall’allora debuttante Aparna, figlia del critico Das Gupta, allora sedicenne e che diventerà un’importante regista del New Cinema – è una ragazza estroversa e ribelle, per nulla simile all’immagine convenzionale della sposa indiana, che dà parecchio filo da torcere al marito.
    Kanchenjungha (1962) è un film psicologico assai complesso, una sorta di psicodramma, che ha per spunto il soggiorno di alcune famiglie di ricchi turisti di Calcutta in una stazione climatica del Darjeeling ai piedi del monte Kanchenjungha.
    Nello stesso anno Ray realizzò Abhijan (La Spedizione), ambientato al confine tra Bengala e Bihar. Narsingh, un autista di origine rajput, giunge, insieme al suo fedele assistente Rama, in un villaggio sperduto. Quì incontra il mercante marwari Sakhanram e la sua “protetta” Gulabi, la consueta prostituta dal cuore d’oro, cara alla cinematografia indiana, interpretata, forse non a caso, da Waheeda Rehman, che aveva avuto lo stesso nome e un ruolo simile in Pyaasa di Guru Dutt. Nel villaggio c’è un’altra presenza femminile interessante, la riservata insegnante cattolica Neeli. Narsingh è attratto da Neeli e nello stesso tempo, essendo a corto di denaro, fa da corriere al marwari, il quale in realtà è un trafficante d’oppio. Alla fine Narsingh, che non è riuscito ad ottenere l’amore di Neeli, già promessa ad un altro uomo, si riscatterà liberando se stesso e Gulabi dall’influsso negativo di Sakhanram.
    In Mahanagar (La grande città, 1963), assistiamo alla lotta della parte più povera della classe media di Calcutta con la realtà indiana contemporanea. Si tratta dello scontro dei valori della vecchia generazione, che richiedono che le donne seguano lo stile di vita tradizionale all’interno delle mura domestiche, contro quelli della nuova generazione che reclamano invece, sia per ragioni sociali che economiche, un radicale cambiamento di costumi.
    Un altro capolavoro di quel periodo è Charulata (1964), il film favorito da Ray e probabilmente quello più noto in Occidente.Nella storia del cinema mondiale,Charulata - rifiutato al Festival di Cannes ma in seguito premiato per la migliore regia a quello di Berlino - è considerato uno dei più bei ritratti femminili mai apparsi sullo schermo. Ray, autore anche della colonna sonora, adattò la novella del 1901 Nastanirh («Il nido infranto») di Rabindranath Tagore.
    Interpretato da Soumitra Chatterjee e da un’intensa Madhabi Mukherjee, la storia di Charulatasi svolge nel 1879-80, negli ambienti dell’alta società di Calcutta, tra la borghesia progressista, e in parte occidentalizzata, che diede il maggiore impulso al nascente nazionalismo. Bhupati Dutta (un riferimento alla figura di Bankim Chandra Chatterjee, uno degli artefici della rinascita letteraria e politica del Bengala, a cui Tagore dedicò Nastanirh), uomo politico e editore del The Sentinel, un settimanale nazionalista, a causa del suo gravoso lavoro trascura la moglie. Charulata, benché dotata di una cultura raffinata e abbia voglia di condurre un’esistenza attiva - e nonostante le idee moderne del marito - è costretta ad adattarsi al ruolo tradizionale della brava moglie indiana. Di fatto, vive passivamente tutto il giorno dentro casa, accontentandosi di guardare il mondo dalle sue finestre, con un binocolo da teatro. Per alleviare la sua solitudine, Bhupati inviterà nella loro grande residenza vittoriana il fratello maggiore con la moglie; ma entrambi si riveleranno essere degli individui dozzinali. Charulata sarà invece attratta da Amal, cugino del marito che è venuto a trovarli per qualche giorno, con cui condivide interessi musicali e letterari e la cui amicizia sembra farla rinascere. Il rapporto tra i due sembra trasformarsi in qualcosa di più complesso e profondo, anche perché Amal spinge Charulata a scrivere: un fatto che si trasformerà poi in un successo. Amal tuttavia, da uomo leale, si costringe ad allontanarsi, congedandosi con una lettera. Solo allora Bhupati capirà lo stato d’animo della moglie dalle sue reazioni emotive. Charulata e Bhupati si riuniranno in un finale che a molti critici sembra ricordare Les Quatre Cents Coups (I quattrocento colpi, 1959) di François Truffaut, una conclusione che fa comunque presagire un futuro migliore per entrambi.
    L’anno successivo Ray diresse un film intimista, Kapurush (Il codardo), tratto dall’opera di un autore moderno del Bengala, Premendra Mitra, che fu presentato al Festival di Venezia di quello stesso anno. Uno sceneggiatore, rimasto in panne con la macchina durante dei sopraluoghi, viene accolto nella casa del proprietario di una piantagione di tè, dove scoprirà che la moglie del suo ospite è la donna che anni prima si era rifiutato di sposare. L’uomo tenterà, invano, di rimediare alla sua vigliaccheria.
    Nayak (L’Eroe, 1966), premio della Critica al Festival di Berlino, è un film singolare. E’ il ritratto psicologico di un divo del cinema commerciale, interpretato da un’autentica star di Bombay, Uttam Kumar, mediante l’intervista di una giornalista (Sharmila Tagore) nel corso di un viaggio in treno da Bombay a Delhi, dove l’”eroe” delle platee indiane va a ritirare un premio.
    Aranyer din Ratri (Giorni e Notti nella Foresta, 1969), tratto liberamente da una novella di Sunil Gangopadhyay, è considerata dai critici l’opera più “europea” di Ray. Il film narra del soggiorno di quattro amici, provenienti dalla grande città, nella foresta di Palamau. Quì i i giovani cittadini scopriranno una realtà ben diversa da quella estremamente occidentalizzata cui sono abituati.
    Fin qui sembrerebbe che Ray si sia occupato soltanto di temi molto seri, ma non è così in quanto era dotato di un notevole senso dell’umorismo, era un appassionato lettore di detective stories e scriveva racconti per i ragazzi. Infatti, nel 1958 e nel 1965 girò le commedie satiriche Parash Patar (La Pietra Filosofale) e Mahapurush (Il Santo). Nel 1967, nel 1974 e nel 1978 realizzò Chiriakhana (Lo Zoo), Sonar Kella (La Fortezza Dorata ) e Joi Baba Felunath (Il Dio Elefante), veri e propri film gialli, e nel 1968 e nel 1980 Goopy Gyne Bagha Byne (Le Avventure di Goopy e Bagha) e Hirak Rajar Dese (Il Regno dei Diamanti), dei film musicali e d’avventura destinati prevalentemente all’infanzia. Di queste opere, che sono definite minori, fanno parte anche i due cortometraggi Two (1964) e Pikoo (1980), entrambi storie su bambini.


    Satyajit Ray – PARTE SECONDA



    Ray ha anche composto una sorta di trilogia su Calcutta: Pratidwandi (L’Avversario, 1970), Seemabaddha (Società a responsabilità limitata, 1971) e Jana Aranya (Il Mediatore, 1975). Questi film appartengono al periodo in cui il grande maestro affronta più da vicino tematiche cittadine a sfondo sociale, che hanno in comune il tema della corruzione e che cercano di farci cogliere l’essenza di un’epoca tormentata che in quel momento vedeva la repressione sanguinosa messa in atto dalle forze governative contro gli aderenti al movimento terrorista di estrema sinistra dei Naxaliti.
    Della trilogia il più provocatorio è Pratidwandi, mentre il più ironico e amaro è Jana Aranya, il cui protagonista, Somnath, è un ragazzo che non trova lavoro finché non riesce a mettersi in società con il cinico mediatore Bishuda. «Mediatore», dadal in bengali, significa tuttavia anche ruffiano e infatti Somnath sarà costretto a setacciare i quartieri malfamati di Bombay per trovare un soggetto femminile adatto a “convincere” un cliente un po’ refrattario ad acquistare una fabbrica.
    Con lo stessa prospettiva di critica sociale, appare nel 1973 Asani Sanket (Un Tuono Lontano), ricavato da una novella sulla carestia del 1943 di Bibhuti Bhushan Bannerjee, che fu premiato al Festival di Berlino.
    Shatranj ke Khilari (I Giocatori di Scacchi, 1977) è l’unica opera di Ray che non affronti temi inerenti alla società e alla cultura del Bengala. Girato a colori in urdu e in hindi, tratta del crepuscolo della civiltà indo-musulmana, o meglio, dello scontro tra due forze negative: il feudalesimo Moghul e il colonialismo inglese. Shatranj ke Khilari, il film più costoso e tra i più rarefatti di quelli realizzati da Ray, descrive l’annessione nel 1856 del regno di Awadh (l’attuale Uttar Pradesh) da parte degli inglesi, ed è un libero adattamento di una novella degli inizi degli anni Venti di Prem Chand (1880-1936), corroborato dalla dettagliata ricostruzione storica contenuta nel libro di Abdul Alim Sharar, Lucknow: The Last Phase of an Oriental Culture. Shatranj ke Khilari ha un prologo storico di tipo documentaristico, con la voce narrante di Amitabh Bachchan, e si sviluppa, subito dopo, da un lato sulle interminabili (e per gli spettatori alquanto tediose) partite di scacchi di due nobili della corte di Lucknow, Mirza Sajjed Ali e Mir Roshan Ali - che non sono interessati né alle loro mogli né a quanto sta accadendo intorno a loro - dall’altro, quasi in simmetria con le loro partite, alle manovre degli inglesi per dare scacco matto a Wajid Ali Shah, sovrano dell’Awadh, interessato, a sua volta, solo alla poesia, alla musica e alla danza. Tuttavia, piuttosto che diventare un re fantoccio in mani straniere, il nawab di Lucknow preferisce abdicare e andare in esilio. Per questo film Ray scelse degli ottimi attori del cinema commerciale di Bombay: Sanjeev Kumar, Said Jaffrey e Amjad Khan, nonché una delle più affascinanti attrici del New Cinema, Shabana Azmi, figlia del noto poeta urdu Kaifi Azmi e dell’attrice teatrale Shaukat. La parte del generale James Outram, pronto ad espugnare Lucknow anche con la forza, è interpretata da Richard Attenborough.


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    Sadgati (Liberazione, 1981), basato su un racconto del 1931 di Prem Chand, è la seconda opera di Ray in hindi. Di breve durata, 55 minuti, è “un film di profonda rabbia” - secondo le parole del regista - e di grande pessimismo. Il personaggio principale è Dukhi, un chamar (conciatore di pelli), cioè un “intoccabile”, schiavizzato a tal punto dal brahmano del villaggio, Ghashiram, che alla fine morirà di stenti. Essendo un fuori casta, nessuno vuole sporcarsi le mani con i suoi funerali. Ghashiram, allora, è costretto a trascinare il cadavere di Dukhi con una corda, per poterlo gettare in una fossa, insieme alle carcasse degli animali. Ormai impuro, il devoto brahmano, che paradossalmente si ritiene una vittima, deve celebrare un rito di purificazione per potersi “liberare” da quell’orribile contaminazione. Questo film durissimo, censurato dal Ministero delle Informazioni indiano, fu interpretato da due grandi attori del New Cinema: Om Puri nella parte del chamar e Smita Patil (1955-1986) in quella di sua moglie Jhuria.
    Nel 1984 il regista riuscì a concretizzare un suo antico progetto, Ghare Baire (La Casa e il Mondo). Ray, infatti, aveva in mente da decenni di realizzare un film dall’omonimo romanzo del 1915 di Tagore sulla divisione del Bengala voluta da Curzon nel 1905. Simile per ambientazione e psicologia dei personaggi a Charulata, il film dovrebbe sintetizzare l’intero percorso intellettuale seguito da Ray nelle sue opere. A Cannes, però, Ghare Baire fu accolto dalla critica con molta freddezza.
    Si è già accennato all’opera documentaristica di Ray, i cui filmati - a parte Sikkim (1971), eseguito su commissione, appartenente pertanto al genere istituzionale, e ripudiato dallo stesso regista - sono in parte basati su ricostruzioni di finzione narrativa, come è il caso del suo primo documentario del 1961 su Rabindranath Tagore, di cui si è gia detto. Nel 1972 Ray realizzò The Inner Eye, su Binode Bihari Mukherjee, un grande pittore divenuto cieco che il regista aveva conosciuto a Shantiniketan, nel 1976 Bala, sulla vita di Balasarawati, una delle più grandi danzatrici dell’India di Baratha Natyam, la danza templare e classica, e nel 1987 una biografia su suo padre, Sukumar Ray.
    Le sue ultime opere - tutte portate a termine grazie all’aiuto del figlio Sandip - lucide, austere e pessimiste, sembrano voler ammonire l’umanità dei pericoli insiti nella realtà contemporanea: i disastri ecologici che minacciano il mondo e il disfacimento dei principi di onestà, giustizia e ordine sociale.
    Ganashatru (Un nemico del popolo, 1989), è un adattamento alla realtà bengalese dell’omonima opera del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen. L’immaginaria Chandipur è una cittadina prospera grazie all’afflusso di un gran numero di turisti e di devoti che si recano in pellegrinaggio al suo tempio. Un medico, insospettito dal dilagare di malattie infettive tra gli abitanti che vivono nei pressi del luogo sacro, scopre che la causa di quelle epidemie è dovuta alle acque inquinate che fuoriescono dalle tubazioni difettose del tempio. La sua denuncia è boicottata sia dalle autorità religiose che da quelle sanitarie, anzi, il medico sarà stigmatizzato come “nemico del popolo” perché vorrebbe ostacolare il “progresso” e il “benessere” della città.
    Shakha Proshakha (I rami e i ramoscelli, 1990), da un racconto dello stesso Ray pubblicato sulla rivista Ek Shan, è una storia sull’incomunicabilità e la solitudine che può esserci in una famiglia benestante, apparentemente normale e unita.
    L’ultimo film di Ray, Agantuk (Lo Straniero, 1991), può essere considerato il suo testamento spirituale. Al cospetto di una famiglia della buona borghesia di Calcutta, si presenta, come un fulmine a ciel sereno, uno zio che non dava notizie da trentacinque anni. L’inquietante straniero insospettisce i componenti del clan, i quali temono una sua eventuale pretesa sulla cospicua eredità del nonno. Secondo i racconti di quell’uomo misterioso, tutti quegli anni li avrebbe trascorsi presso gli indios del Sud America, popolazioni che ritiene più civili delle così dette società progredite. Poi il singolare personaggio scompare di nuovo. I parenti diffidenti scopriranno che è andato a vivere lontano dalla città, in un villaggio tribale, nuovamente a contatto con la natura incontaminata.
    Nel corso della sua eclettica carriera artistica, Ray realizzò dunque 31 film, 24 dei quali con musiche originali dello stesso regista, e cinque documentari, di cui quattro con musiche da lui composte. Collaborò, inoltre, a due serie televisive, “Satyajit Ray Presents”, dirette dal figlio Sandip, scrisse quattro sceneggiature per altri registi e compose le colonne sonore di sei opere cinematografiche non sue. Purtroppo, rimasero nel suo cassetto tre ambiziosi progetti: Mahabharata, A Passage to India e The Alien. Tra saggi sul cinema, romanzi, novelle e storie per ragazzi, la sua attività letteraria ammonta a circa 35 volumi. A ciò si aggiunga l’imponente quantitativo di materiale pittorico e grafico. Tralasciando, per ovvi motivi, le monografie e gli innumerevoli saggi critici che analizzano la sua arte, ricordiamo che gli sono stati dedicati nove documentari, di cui almeno tre da menzionare: Creative Artists of India: Satyajit Ray (1963) di B.D. Garga, Satyajit Ray (1984) di Shyam Benegal e Ray (1998) di Goutam Ghose.
    E’ solo in punto di morte che quest’uomo straordinario fu insignito dell’Oscar alla carriera con la seguente motivazione: “La rara maestria dell’arte cinematografica di Ray e la sua profonda visione umanistica hanno lasciato un’impressione incancellabile sui registi e sul pubblico del mondo intero”.

    Si ringrazia per le immagini e le informazioni dettagliate il SITO UFFICIALE dell' enciclopedia TRECCANI! ^_^ ;)

    Domani nella quarta parte esamineremo altri registi storici e parleremo delle nuove generazione bengalesi, a domani aMICI del TRICICLO!!!
     
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25 replies since 30/9/2007, 21:10   2782 views
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