STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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  1. shinji80
     
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    Ecco la seconda parte della nostra panoramica sul cinema indiano, si va!! :P :P

    Il sonoro e l’inizio del colore - PARTE PRIMA



    Il primo esperimento per ottenere una pellicola cinematografica sonora risalgono già al 1899 con il Microcronografo di von Geyr. Dal 1905 in poi ulteriori tentativi e perfezionamenti furono portati avanti da numerosi altri inventori finché, nel 1927, la Warner fu in grado di produrre il primo film parzialmente sonoro: The Jazz Singer, di Alan Crossland. The Jazz Singer fu visto a New York nel 1929 dal grande produttore e distributore J.F. Madan, il quale, nello stesso anno, organizzò all’Elphistone Palace di Calcutta la proiezione di Melody of Love di A.B. Heath, realizzato dalla Universal. Poco tempo dopo, fece la sua comparsa in India anche il celebre musical Showboat.
    Dal 1930 si cominciò quindi a sperimentare le possibilità della nuova tecnica del suono. Tra queste prove pionieristiche, da menzionare le riprese di alcuni dei discorsi tenuti in pubblico da Gandhi, da sua moglie Kasturba e da altri eminenti leader del movimento indipendentista. il filmato includeva una danza eseguita da Sulochana in Madhuri (1928), un film di Rama Shankar Choudhury (1903-1972), questa volta sincronizzata con la musica. Una scelta singolare quest’ultima, se si pensa che il Mahatma era assolutamente contrario al Cinema – che aveva icasticamente definito “tecnologia peccaminosa” – anche se, per quanto se ne sappia, nel corso della sua vita vide, controvoglia, soltanto delle bevi sequenze di Ramrajya (1943) di Vijay Bhatt.
    La corsa al cinema sonoro era dunque iniziata.

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    Nell’aprile del 1931, i Madan Theatres proiettano un filmato composto da canzoni e coreografie, mentre a Bombay, la Krishnatone, propone nelle sale uno spettacolo che comprendeva sketch musicali, canti del Gujarat, bengalesi ed arabi, il tutto unito ad una breve commedia: Nakli Tansen.
    La “competizione” per realizzare il primo lungometraggio sonoro fu vinta dalla Casa di Produzione Imperial Movietone che proietta il 14 marzo 1931 al Majestic Theatre di Bombay Alam Ara (Bellezza del Mondo), realizzato da Ardeshir Irani.
    Alam Ara, nome dell’eroina interpretata da Zubeida, era una trasposizione cinematografica di una pièce del teatro parsi di Joseph David. Ambientata in un’astratta antichità, tratta della rivalità fra due regine. Una delle due, Navbahar, sta per dare un erede al re di Kumarpur. La sua rivale, Dilbahar, trascurata dal marito, tenta di sedurre Adil, generale del re, il quale, però, rimane fedele al suo signore. Dilbahar con false accuse lo fa arrestare, mentre la moglie del generale, in attesa di un figlio, riesce a fuggire dalla reggia. Alam Ara, figlia di Adil, cresce insieme ad una tribù di nomadi e, una volta adulta, tenta, con l’aiuto dei suoi amici nomadi, di liberare il padre, proprio mentre questi sta per essere ucciso dalla malvagia Dilbahar. Lieto fine con intervento risolutivo del re e relative nozze della fanciulla con l’erede al trono. Oltre a Zubeida il cast comprendeva altri nomi prestigiosi: Master Vithal e Prithviraj Kapoor.
    Nessuna copia di Alam Ara è giunta integra fino ai nostri giorni, quindi non è possibile stabilire quante canzoni contenesse, si pensa da un minimo di sette ad un massimo di 55.
    Comunque, ciò che importa è che con questo primo film sonoro – e con le altre pellicole sue contemporanee – si stabilisce una delle regole base del cinema indiano: lo spettacolo, qualunque sia la trama e il genere, deve contenere canzoni e numeri di danza. Questo non significa che ogni film sia assimilabile a ciò che in Occidente viene definito musical: la ragione di tale regola è di natura strettamente culturale. Infatti, dal teatro classico sanscrito fino alle varie forme recitative regionali, nella narrativa indiana canto e danza hanno avuto un ruolo fondamentale - e non come “accompagnamento” o “intermezzo” della storia, ma come elementi drammaturgici veri e propri - in quanto si riteneva che certe situazioni, azioni e sentimenti si potessero esprimere più efficacemente mediante quelle forme di arte.
    Il film dell’Imperial precede di poche settimane Jamai Sasthi di Amar Choudhury, che appare a Calcutta, e da un altro prodotto bengalese dei Madan Theatres: Shirin aur Farhad di J.J. Madan, che ebbe maggiore successo del film proiettato a Bombay.
    A questo film che narrava il tragico amore dello scultore Shirin per la regina persiana Farhad, una storia tratta dallo Shah Nama (il Libro dei Re) del poeta lirico afghano Firdusi (935-1020), partecipò il duo canoro più famoso del Bengala Jahan Ara Kajjan e Nissar.


    Altro aspetto fondamentale della “seconda nascita” del cinema indiano, grazie al sonoro, fu lo sviluppo di diverse cinematografie regionali, a causa del gran numero di idiomi parlati nel subcontinente (secondo un censimento sarebbero, tra lingue e dialetti, 1652, di cui attualmente 18 ufficiali e altre trenta accettate).
    Nel 1931 furono prodotti 28 film sonori, tra cui: Ghar ki Lakshmi di Kanjibhai Rathod, realizzato dalla Krishnatone e il primo film parlato in lingua tamil, Kalidas, sul leggendario poeta sanscrito del terzo secolo, diretto da Hanumappa M. Reddy.
    Sempre Reddy fu autore nello stesso anno del primo film in telegu: Bhakta Prahlada, tratto dal Vishnu Purana. il primo film in malayalam (la lingua del Kerala), fu Martanda Verma, sul fondatore dello stato di Travancore nel XVII secolo, diretto da P.V. Rao.
    E’ solo nel 1935 che nell’Assam viene realizzata una pellicola cinematografica che coincide con il primo film parlato in assamese: Joymati, diretto da Joiti Prasad Agarwala (1903-1951). Elemento di spicco del movimento per l’indipendenza, Agarwala, detto Rupkonwar, fu autore di due soli film, il secondo, un melodramma: Indramalota del 1939.
    Agarwala fu comunque un intellettuale estremamente versatile che coltivò molteplici interessi, dalla poesia alla musica dalla saggistica all’arte drammatica. Studiò in Inghilterra e in Germania, dove si perfezionò in cinematografia, per poi tornare in Assam e fondare la sua Casa di Produzione con cui appunto realizzò Joymati, un film storico, pervenutoci solo parzialmente, a tratti quasi documentaristico, sulla dinastia Ahom regnante sull’Assam nel XVII secolo. Agarwala si ispirò figurativamente al realismo sovietico e fece adottare ai suoi attori una recitazione altrettanto realistica. Oggi Joymoti è considerato una pietra miliare della cinematografia indiana.
    La lingua utilizzata prevalentemente nel Nord e nel Nord-Ovest del paese, era ed è, la hindi, un adattamento dell’antico sanscrito.
    A sua volta la hindi, nella sua variante persiana, si trasforma in urdu. L’unione delle due lingue viene chiamata hindustani ed è questo l’idioma con cui si esprimeva la cinematografia di Bombay.
    A Calcutta i film erano girati in bengali, ma spesso si producevano anche le versioni in hindi. Nel Sud tutte le regioni hanno dei linguaggi che non hanno nulla a che vedere con il sanscrito, ma hanno una base comune nelle antiche lingue dravidiche. Pertanto i loro film erano, e sono girati nelle lingue autoctone.
    A causa di questa grande varietà di idiomi, oggi si preferisce la dizione “cinematografie indiane”, piuttosto che quella di “cinema indiano” .

    generi rimasero quelli già stabiliti nell’era del muto, con l’ovvia aggiunta di quelli musicali veri e propri, delle commedie e dei “drammi sociali”. Inoltre la Wadia Movietone si era specializzata in un tipo particolare di film d’azione, in voga fino agli anni ’60 e oltre, tutti interpretati dall’atletica Nadia, la ballerina e acrobata australiana Mary Evans che, sempre negli anni ’60, sposò il produttore Homi Wadia.
    il cinema sonoro si sviluppò in un periodo storico molto travagliato in cui si intensifica la lotta per affrancarsi dal dominio coloniale. È quindi naturale che molti film, anche di genere storico-mitologico, diventino delle metafore per lanciare messaggi patriottici.
    Nello stesso tempo, guardando al futuro, il popolo indiano si interroga sulla propria identità culturale. Alcuni autori affrontano problemi sociali a volte estremamente scottanti, retaggio di un’antichissima tradizione socio-religiosa ormai non più accettabile: in particolare quello della divisione della società in caste e quello degli “intoccabili”, gli arijan (i figli di dio) del Mahatma.

    Uno dei registi più significativi ed innovativi degli anni Trenta è Rajaram Vankudre Shantaram (1901-1990). Formatosi nella Casa di Produzione di Baburao Painter, fu influenzato stilisticamente da Phalke.
    Già noto come attore nel periodo del muto, nel 1929 fonderà a Kolhapur, con Damle, Fattelal e altri tre soci, la Prabhat Film Company, per molto tempo ritenuta la casa di produzione più attenta alla qualità formale e ai contenuti culturali dei film.
    Nel 1932 Shantaram dirige non solo il suo primo film parlato, ma anche il primo film in marathi, la lingua dello stato del Maharasthra: Ayodhyecha Raj (il re di Ayodhya) che ebbe anche una versione in hindi. In questo caso il regista-produttore narra nuovamente la celebre storia già portata sullo schermo nel 1913 da Phalke in Raja Harishchandra. il ruolo femminile fu affidato alla quasi esordiente Durga Khote [1905-91] una delle prime donne di famiglia tradizionale hindu a dedicarsi alla carriera cinematografica e destinata a diventare fra le più famose attrici dell’india, nonché regista e produttrice.
    L’anno successivo Shantaram dirige un altro remake: Sinhagad di Baburao Painter, sulla vita dell’eroe Maratha luogotenente di Shivaji. Nel 1934, con una sceneggiatura del celebre romanziere Narayan Hari Apte, realizza Amrit Manthan [il frullamento dell’oceano] che sebbene appartenente al genere mitologico – la lotta tra dei e demoni per la conquista dell’amrita, il nettare dell’immortalità - è soprattutto una denuncia della concezione spietata e puramente cerimoniale della religione a favore di una visione umanistica del sentimento religioso.
    Il film, figurativamente legato all’espressionismo tedesco, è infatti la storia di un re convertitosi al buddhismo il quale, avendo bandito dal regno i sacrifici di ogni essere vivente, attira su di sé le ire del fanatico sommo sacerdote.
    L’anno successivo Shantaram affronterà un tema simile con Dharmatma (il Pio): qui assistiamo alla lotta di Eknath [1533-99] santo e poeta del Maharashtra, contro l’ortodossia brahmanica, in sostegno dei fuori casta. Anche questo film - a rigore di genere “devozionale”- va inteso come film politico, in quanto la figura di Eknath in quel momento era paragonata senza alcun dubbio a quella di Gandhi.
    Shantaram continua la sua critica sociale questa volta con un film d’avventura. In Amar Jyoti (La Fiamma Immortale, 1936) – presentato a Venezia, primo film indiano a partecipare ad un festival all’estero- la regina Saudamini, Durga Khote nella migliore delle sue interpretazioni, si scontra con le leggi patriarcali del suo regno che le negano la custodia del figlio ancora bambino. La regina non si rassegna e, dopo essersi impadronita di una nave, dichiara guerra al suo stato, riuscendo a catturare il ministro della giustizia.
    È sempre a Shantaram che l’anno successivo, si deve il primo film di condanna della condizione femminile. In Kunku (nella versione hindi Duniya na Mane, ossia: “il mondo non lo accetta”) una ragazza, interpretata magistralmente dalla nota cantante e attrice Shanta Apte, è costretta dalla famiglia a sposare un anziano avvocato. La ragazza si rifiuterà di consumare il matrimonio e troverà un alleato proprio nel marito progressista che, in punto di morte le fa promettere che si risposerà. il coraggioso Shantaram con questo film aggredisce due tabù profondamente radicati in India: la consuetudine dei matrimoni combinati e la proibizione per le vedove hindu di risposarsi.
    Ma non basta, il regista in Aanush (Aadmi nella versione hindi) si scaglia contro i pregiudizi moralistici: in questo film un integerrimo poliziotto si innamora di una cortigiana, che lo conquista con le sua qualità umane.
    Un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Shantaram interpreta il ruolo principale in uno dei più noti film indiani: Dr. Kotnis ki Amar Kahani (il Viaggio Immortale Del Dott. Kotnis) tratto da una storia di K. A. Abbas, “And one did not come back” a sua volta ispirata a fatti realmente accaduti. Dworkanath Kotnis era infatti un medico che si recò in Cina per combattere contro i giapponesi e prestare il suo aiuto alla popolazione. il medico, sposatosi con una cinese, morì eroicamente. il film è il più significativo esempio della retorica nazionalista del periodo.
    Per decenni Shantaram continuerà senza sosta la sua attività di regista impegnato. Firma la sua quarantaduesima ed ultima opera Jhanijhar, nel 1986 all’età di 85 anni.

    Nel 1937 esce nelle sale il primo film a colori indiano: Kisan Kaniya (La giovane contadina) di Moti G. Gidvani, anche se quattro anni prima Shantaram in Sairandhri aveva tentato un esperimento in tal senso con un sistema a due colori.
    Nel Sud il cinema si sviluppa più lentamente. La prima casa di produzione la General Pictures Corporation, è fondata a Madras nel 1929.
    Il sonoro appare solo nel 1934 con Srinivasana Kalyanam (il matrimonio di Srninivasana) di A. Narayan [1900-39].
    Rispetto ad altre zone dell’India, il cinema del Sud è quello che si affida maggiormente alla musica: un film contiene in media ben 50 canzoni.
    Si ritiene che il più grande regista del periodo sia stato Krishnaswamy Subramanyam [1904-71] di cui sono notevoli i film politici quali Balayogini [1936] in cui recita una autentica vedova brahmana che nella finzione narrativa trova rifugio tra gli intoccabili. Segue Thyagabhumi (La Terra del Sacrificio, 1938) melodramma patriottico di ispirazione Gandhiana, che descrive le ingiustizie contro gli intoccabili.
    È da sottolineare che Subramanyam è doppiamente encomiabile non solo per i temi trattati, ma anche perché era nato nella casta brahmana.

    L’opera cinematografica più nota sulla “vita dei santi”, che rispecchia la tradizione della bhakti – la devozione a un dio personale contrapposta al ritualismo brahmanico - è senza dubbio Sant Tukaram [1936] interpretato da Vishnupant Pagnis [1892-1943] e diretto da Vishnupant Govind Damle [1892-1945] e Sheikh Fatehal [1897-1964] due dei soci di Shantaram che li influenza sia ideologicamente che stilisticamente. il film, in lingua marathi, narra della persecuzione da parte del brahmano Salomalo di un mistico del 17° secolo ancora molto venerato nel Maharashtra. il brahmano si attribuisce la paternità degli abhang (canti devozionali) composti dall’umile santo-poeta. Ma Tukaram, nonostante le usurpazioni e le sopraffazioni dell’avversario, diventerà agli occhi delle masse un eroe e un maestro spirituale.
    Il film che deve la sua fama soprattutto agli abhang di Shantaram Athavale, alla splendida colonna sonora di Keshavrao Bhole e ai sorprendenti effetti ottici delle scene dei miracoli, fu accolto con grande successo anche all’estero. Nel 1937 fu la prima pellicola indiana ad ottenere un premio al festival di Venezia.

    Nel frattempo, nel ’36, era nata un’altra casa di produzione leggendaria: la Bombay Talkies, di Himansu Rai.

    Tra i film più noti prodotti da Rai da segnalare: Achhut Kanya (La fanciulla fuori casta), dallo script “The Level Crossing” di Niranjan Pal, lo sceneggiatore di fiducia di Rai. il film, diretto da Franz Osten, ha una struttura narrativa assai complessa che si svolge in maniera circolare e in flashback. il nucleo della storia è costituito dall’amore impossibile dell’intoccabile Kasturi per il giovane brahmano Pratap. Kasturi era interpretata da Devika Rani, già architetto e scenografa, pronipote del grande poeta e premio Nobel Tagore, in seguito moglie di Himansu Rai e destinata a divenire una delle più grandi star del tempo. Rai desiderava intensamente che il film fosse visto dal Mahatma Gandhi, ma questi si rifiutò. In compenso Achhut Kanya fu lodato dal Pandit Nehru.


    Il sonoro e l’inizio del colore - PARTE SECONDA



    A Calcutta erano nati nel 1931 i New Theatres di Birendra Nath Sircar (1901-80), una Casa di Produzione equivalente per qualità alla Prabhat. Sircar, un produttore illuminato, aveva radunato intorno a sé i migliori tecnici del tempo e i più brillanti talenti creativi del Bengala.
    Uno dei registi più prestigiosi dei New Theatres, Debaki Bose (1898-1971), firmò l’adattamento di un musical del 1926 di Aparesh Chandra Mukherjee: Chandidas (1932). Il film narra la vita di un santo vaishnava (devoto del dio Vishnu) del XVI secolo. Qui il malvagio di turno non è il solito bramano ma un avido vaishya (bottegaio) che cerca di impedire l’amore nato tra Chandidas e Rami, una lavandaia fuori casta.
    Il film fu uno dei maggiori successi dei New Theatres ed ebbe come direttore della fotografia Nitin Bose (1897-1986), cugino di Satyajit Ray e maestro di Bimal Roy, il quale passò alla regia nel ’34 rifacendo proprio Chandidas.

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    Inoltre proprio a Nitin Bose si dovrà nel 1961 il maggior successo cinematografico dell’India indipendente, Ganga Jumna.
    Ma il più noto ed emblematico regista dei New Theatres fu Pramatesh Chandra Barua (1903-1951), il cui nome è legato a uno dei maggiori cult movie dell’India: Devdas.
    Il soggetto di Devdas è tratto dall’omonima novella del 1917 del celebre autore bengalese Sarat Chandra Chatterjee (1876-1938) un verista fortemente sentimentale.
    Devdas (servo di Dio) è figlio di un potente zamindar, ossia un proprietario terriero feudale. Egli vorrebbe sposare l’amore della sua infanzia, Parvati (Paro), figlia di un suo vicino. Un matrimonio impossibile in quanto la ragazza appartiene a una condizione sociale e a una casta inferiori alla sua. Devdas, in contrasto con la sua famiglia ma incapace di ribellarsi, si trasferisce a Calcutta dove conduce una vita dissipata, istigato dal corrotto Chunni Babu. Nella sua “discesa agli inferi” Devdas frequenta e trova sostegno in Chandramukhi, una splendida tawaif, ossia una danzatrice-cortigiana. Nonostante la devozione di questa tawaif dal cuore d’oro, Devdas in un crescendo autodistruttivo, si darà all’alcool ed infine, dopo un lungo viaggio in treno – in cui simbolicamente cerca di sfuggire a sé stesso – morirà sulla soglia della casa dove vive Paro, ormai moglie di un ricco e anziano vedovo.
    La storia di Devdas è una delle più amate dal cinema indiano ed è apparsa sullo schermo non meno di quindici volte, sempre con ottimi risultati artistici e facendo piangere intere generazioni. La novella di Chatterjee fu portata sullo schermo per la prima volta nel 1928 da Naresh Chandra Mitra (1888-1968) ma divenne un grande successo nel 1935 grazie a Barua che realizzò la pellicola in bengali recitando il ruolo del protagonista e avvalendosi delle splendide musiche di Timir Baran, Rai Chand Boral, Puntai Mullick e dei testi di Kidar Sharm.
    Barua girò anche un’edizione in hindi. Si dice che il regista, figlio del maharaja di Gauripur, uno dei regni dell’Assam, abbia concepito il suo Devdas come una velata autobiografia.
    Il ruolo principale del film in hindi, fu affidato a Kudan Lal Saigal, divo della canzone che collaborò con Baran e creò il modello, seguito per molto tempo, di come dovesse essere interpretata una canzone in un contesto melodrammatico.
    Tra i film più noti del periodo, ve ne è uno particolare del genere storico: Sikander (Alessandro, 1941) realizzato nella fase più cruciale della Seconda guerra mondiale.
    In questo vero e proprio kolossal, lo scontro delle armate di Alessandro Magno nel 326 a.c. contro l’esercito di Poro re dei Paurava, sono estremamente spettacolari. I dialoghi in urdu tra i due re, in un primo tempo contendenti, ma che poi diverranno amici, derivano direttamente da quelli aulici e magniloquenti di tipo shakespeariano del teatro parsi. Alessandro Magno è interpretato da Prithvi Raji Kapoor e Poro da Sohrab Modi che è anche il regista del film.

    L’Età dell’oro – PARTE PRIMA



    confini di quella che si ritiene sia stata la stagione più felice della Cinematografia indiana - definita per consuetudine Età dell’Oro - sono delimitati, per convenzione storica, da due date precise, il 1950 ed il 1960, anche se una datazione così rigida non può rispecchiare né l’esatto evolversi degli avvenimenti né la loro complessa interdipendenza. Infatti, se è vero che l’apoteosi di quella età memorabile può essere circoscritta in quei dieci anni, è anche ovvio che i suoi prodromi siano apparsi prima - verso la metà degli anni Quaranta - così come è altrettanto naturale che i suoi effetti si siano fatti sentire fino alla fine degli anni Sessanta.
    Osservando gli avvenimenti storici, si può dire che se gli anni Trenta erano stati turbolenti, gli anni Quaranta furono drammatici. Innanzitutto, a causa dello stato di guerra in cui l’India si trovò ad essere coinvolta indirettamente. Infatti, fu proprio la Seconda guerra mondiale a determinare la terribile carestia del ’43 nel Bengala: le leggi sulle “restrizioni economiche di guerra”, a cui seguirono il mancato funzionamento degli aiuti alla popolazione e le relative speculazioni degli affaristi, provocarono tre milioni di morti. A ciò si aggiungano i primi conflitti su vasta scala tra estremisti musulmani ed induisti. Scontri che, man mano che si procedeva faticosamente verso l’Indipendenza, si intensificarono sempre più. L’intolleranza religiosa esplose infine in massacri indiscriminati proprio quando il subcontinente asiatico, sebbene fosse stato costretto a smembrarsi in due Nazioni, era ormai libero dal dominio coloniale. Si calcola che i profughi dall’una e dall’altra parte – India e Pakistan – siano stati 15 milioni e che durante questo esodo, senza precedenti nella storia, si sia perpetrato lo sterminio di più di un milione di fuggiaschi. E l’ultima vittima di questa follia fu “La Grande Anima”: Gandhi, accusato di aver favorito i musulmani durante la Partition, fu assassinato da un fanatico hindu il 30 gennaio del 1948, cinque mesi dopo la proclamazione d’Indipendenza.

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    Nonostante questo scenario tragico, come ebbe a dire il critico Sanjit Narwekar - che parafrasava la descrizione della Londra ottocentesca di Charles Dickens - quelli furono per il cinema indiano gli anni peggiori e ad un tempo i migliori. Ad esempio, durante la guerra sorsero, mediante la formazione di associazioni culturali, iniziative con propositi sociali. Fra tali organizzazioni, la più rilevante fu la IPTA (Indian Peoples’ Theatre Association) che fu fondata a Calcutta nel 1943 come movimento antifascista e che riuscì a riunire intorno a sé i migliori professionisti del teatro e del cinema. Inoltre, la IPTA contribuì alla realizzazione di alcune delle più significative opere cinematografiche del periodo. E ancora, con l’esodo dovuto alla Partition, un gran numero di talenti, soprattutto in campo musicale, confluì dal Pakistan e dal Bengala Orientale a Bombay e a Calcutta, rinvigorendo quei centri di produzione. Un nuovo fenomeno, dovuto in parte anche a questa migrazione, fu l’ingresso nel mondo del cinema di persone di cultura molto elevata.
    Sul versante negativo, è da notare che nel dopoguerra molti arricchiti grazie al mercato nero impiegarono i loro guadagni nel finanziamento dei film, avendo capito che erano investimenti che avrebbero fatto ottenere profitti veloci. Tuttavia, l’ingresso nel mondo della celluloide di questi poco stimabili produttori indipendenti consentì alla cinematografia indiana non solo di sopravvivere ma addirittura di diventare una industria sempre più prospera e potente. Infatti, alla vigilia della guerra mondiale la produzione cinematografica indiana aveva raggiunto una solida posizione di attività industriale, ma la guerra aveva sconvolto lo Studio System. Tutte le più importanti Case cinematografiche, che adottavano il sistema americano (registi, sceneggiatori, attori, musicisti, cantanti e personale tecnico a contratto fisso), avevano subito ingenti perdite e avevano dovuto cambiare metodi di produzione, basandosi sul mercato libero e sul potenziamento e l’esaltazione dello Star system. Il risultato fu che per accaparrarsi i divi più acclamati dal pubblico i costi si innalzarono a livelli vertiginosi: un attore, che negli anni Trenta riceveva uno stipendio mensile massimo di 6000 rupie, adesso poteva chiedere per la sua partecipazione fino a 100.000 rupie. Lo stesso accadeva con gli altri artisti. Alla lunga, alcune delle Major “storiche” dovettero cessare la loro attività: nel 1952 chiuse i battenti la Bombay Talkies, nel 1953 la Prabhat e nel ’54 i New Theatres.
    Anche nel campo creativo ci furono molti cambiamenti. Per quanto riguarda gli attori, quelli più in voga (Dilip Kumar, Dev Anand e Raj Kapoor) avevano stabilito all’incirca nella metà degli anni Quaranta un tipo di recitazione che durerà per decenni. Nel frattempo era nata una nuova figura, il cantante in play back, anche se questo espediente era già noto poiché era stato utilizzato già nel 1935 in Bhagya Chakra di Nitin Bose dal grande compositore Raychand Boral.
    Agli inizi del cinema sonoro erano gli stessi attori a cantare, adesso il playback singer cominciava ad avere una importanza pari a quella degli interpreti principali di un film. Tra i più noti si possono segnalare: Kishore Kumar, Mohamed Rafi, Mukesh e Naushad Ali, e tra le cantanti Lata Mageshkar e la sorella Asha Bhosle - figlie del cantante e compositore Dinanath Mangeshkar - Shamsad Begum, Zeenat Begum, Zohrabai e Geeta Roy Dutt. Altrettanta importanza avevano i numerosissimi e geniali compositori e direttori d’orchestra dell’epoca, quali: Ghulam Mohammed, Ghulam Haider, Sajjad Hussain, C. Ramchandra, Anil Biswas, Sanchin Dev Burman, Madan Mohan, il duo Shanker-Jaikishen, Naushad Ali, Manna Dey, Salil Choudhury, il duo Kalianji-Anandji, Chitragupta, O.P. Narayan, Ravi, Vasant Desai e tanti altri ancora. Lo stesso può dirsi per gli autori dei testi, spesso degli autentici poeti come Kaifi Azmi, Hasrat Jaipuri, Shailendra e Majrooh Sultanpuri.
    Alle armonie e ai versi di questi inventivi compositori e poeti, e alle voci melodiose dei cantanti, faceva da cassa di risonanza l’AIR (All India Radio) che diffondeva in continuazione i filmi geet (canzoni dei film) i quali assumevano una parte quantitativamente sempre più rilevante nei prodotti cinematografici più popolari, anche se il record – settantuno canzoni - pare fosse già detenuto da una pellicola del 1932, Indrasabha di J.J. Madan, tratta da un’opera scritta nel 1843 da Sayed Aga Hasan per la corte di Lucknow.
    Comunque, con l’euforia dell’Indipendenza e l’ottimismo suscitato dai programmi varati dal Governo di Jawaharlal Nehru per lo sviluppo e la modernizzazione del Paese, nuove idee e nuovi valori si fecero strada, senza però ignorare una caratteristica di fondo della cinematografia indiana: la combinazione di antico e moderno. Negli anni Cinquanta fu definitivamente messa a punto la formula per ottenere un successo sicuro: molte coreografie con canzoni e danze, e scene spettacolari realizzate con grande fantasia. I film erano quindi ben confezionati, con tutti gli ingredienti giusti per intrattenere un pubblico che chiedeva soltanto di divertirsi. Nello stesso tempo, fu riconosciuto al Cinema il suo ruolo di strumento significativo per la critica sociale. I generi rimasero gli stessi, ma con una drastica flessione di quelli mitologici e di quelli sulle vite dei santi, che si ridussero al solo 10% della produzione totale, mentre si accentuò l’interesse per i film d’ambientazione moderna e urbana aventi come temi i cosìdetti “drammi familiari e/o sociali” che furono determinanti per l’evoluzione del cinema popolare. Molto richiesti erano anche i film storici, preferibilmente con sottofondo patriottico, realizzati in stile “fantasie orientali”. Tutti questi tipi di prodotti cinematografici, capaci di coinvolgere emotivamente ogni cittadino dell’India, costituirono ciò che un eminente critico indiano, Chidananda DasGupta, ha definito All India Film.
    Anche le istituzioni iniziarono gradualmente a prendere sul serio il mondo del Cinema e a guardarlo con serietà e attenzione. Nel 1952 si istituì il primo Festival Internazionale a Bombay, con proiezioni anche a Calcutta e Madras. I cineasti indiani ebbero così la possibilità di avere un vasto panorama del cinema mondiale. Tutti, in particolare i registi del Bengala, rimasero impressionati dai maestri del Neorealismo italiano, le cui opere ebbero una notevole influenza per la successiva cinematografia indiana. Nel 1960 venne costituita la FFC (Film Finance Corporation), per agevolare la produzione di film non commerciali, e l’FTII (Film and Television Institute of India), una scuola per formare professionalmente i futuri cineasti. Nel 1963 nacque l’IMPEC (Indian Motion Picture Export Corporation) e nel 1964 fu fondato a Pune il National Archive of India, la Cineteca Nazionale. Già da tempo erano editate pubblicazioni specialistiche sul Cinema che non si occupavano solo di critica ma anche di gossip sulle star del momento, che in India erano ormai venerate come delle vere e proprie divinità. La produzione aveva intanto ripreso la sua corsa, tanto che nel 1960 furono realizzati ben 318 film in tredici lingue del Paese. L’India era ormai al secondo posto nella produzione mondiale: undici anni dopo avrebbe superato il Giappone, fino a quel momento il maggiore produttore di film al mondo.
    Una delle opere più significative del periodo è Kismet (1943), di Gayan Mukherjee. Film d’ambientazione moderna e dal tessuto narrativo ingarbugliato e ridondante, è uno dei primi esempi di un tipo di soggetto melodrammatico, appartenente al genere “dramma familiare”, che si diffonderà ampiamente nei decenni successivi: i membri di una famiglia, ingiustamente separati, dopo molte traversie riescono a riconoscersi e a riunirsi felicemente.
    Di diverso valore artistico alcuni film che furono realizzati con l’apporto della IPTA. Khwaja Ahmed Abbas (1914-1987), sceneggiatore (per Shantaram e Raj Kapoor), critico e scrittore, esordì nella regia con Dharti ke Lal (I Figli della Terra, 1946), un intenso film sulla carestia del ’43, adattamento cinematografico di Nabanna, famosa novella del ’44 di Bijon Bhattacharya. Ad Abbas, intellettuale politicamente impegnato, si deve un film del tutto privo di canzoni e danze (il secondo del genere), Munna (Il Bambino Smarrito, 1954). Naturalmente, Munna non ebbe alcun successo in patria, ma fu apprezzato dalla critica e premiato al Festival di Edimburgo. Abbas fu anche il primo cineasta indiano a varare le coproduzioni con l’Unione Sovietica con Pardesi (Il Viaggiatore, 1957), di cui firmò la regia insieme a Vassili M. Pronin. Inoltre, Abbas è il primo regista ad aver notato l’attore che sarebbe diventato la più grande star del Cinema commerciale indiano, Amitabh Bachchan, il quale esordì in un suo film del 1969, Saat Hindustani.
    Oltre a Dharti ke Lal e al già menzionato Dr. Kotnis di Shantaram, nello stesso anno 1946 la IPTA contribuì alla produzione di Neecha Nagar di Chetan Anand (1915-1997), un film sempre d’ambientazione moderna e di genere “sociale”, ispirato a un racconto di Gorky su un ricco latifondista, arroccato su una montagna, e sui suoi poveri contadini che vivono in un misero villaggio nella valle sottostante. Questo film, prima opera indiana ad ottenere un premio al Festival di Cannes, segna, insieme al contemporaneo Dharti ke Lal, il debutto come compositore di Ravi Shankar. L’opera seconda di Chetan Anand, Afsar (1950), conferma l’interesse di questo regista per la letteratura russa, in quanto si tratta di un libero adattamento della novella L’Ispettore Generale di Gogol.
    Un film molto particolare e di rara bellezza, che si discosta da quelli di genere, è Kalpana (Immaginazione, 1948) di Uday Shankar – fratello di Ravi Shankar – girato nei prestigiosi teatri di posa della Gemini di Madras. Entro un racconto cornice - la descrizione di uno sceneggiatore ad un produttore del film che vorrebbe realizzare - si svolge la storia di due artisti che sognano di creare un centro d’arte, il Kalakendra, che è l’equivalente del reale India Cultural Centre di Almora, fondato dallo stesso Shankar, che è anche l’interprete principale del film. Per la preparazione e le riprese della stupefacente scena di danza, centro focale del film, occorsero quattro anni.
    Il famoso CID (1956) di Raj Khosla appartiene alla tradizione dei film sulla malavita. L’ispettore di polizia Shekhar (Dev Anand) indaga sulla morte di un editore: un caso misterioso che prima della soluzione lo vedrà coinvolto in mille peripezie. Il film è dominato dalla presenza misteriosa e affascinante di Waheeda Rehman, di lì a poco stella di prima grandezza del Cinema indiano.
    Altro film memorabile è Ganga Jumna (1961) di Nitin Bose, una storia di dacoit (banditi) in cui si ritrova il binomio dei fratelli contrapposti che era gia apparso in Mother India (di cui si dirà in seguito), un tema che sarà ripreso e sviluppato con successo in molti film degli anni Settanta e Ottanta. In questo caso vi sono sicuri riferimenti ai film d’azione americani, sia western che di gangster. Ganga (Dilip Kumar), divenuto criminale per colpa di un proprietario terriero, torna nel villaggio natale insieme alla sua donna, Dhanno (Vyjayanthimala), che è in attesa di un figlio. Troverà ad attenderlo il fratello Jumna (Nasir Khan, che nella realtà era il fratello di Dilip Kumar), il quale nel frattempo è diventato un integerrimo poliziotto. Jumna sarà costretto ad uccidere il fratello fuorilegge nel tentativo di consegnarlo alla giustizia. Le canzoni del film, con musiche di Naushad ed eseguite da Lata Mangeshkar e Mohammed Rafi, ebbero un successo enorme.
    Da segnalare infine un’altra pellicola molto amata dagli spettatori dell’epoca, Sangam (1964) di Raj Kapoor, un film in ogni caso importante, in quanto inaugura la consuetudine, molto diffusa nell’odierno cinema di Bollywood, delle location all’estero. In Sangam alcune scene furono realizzate in Svizzera e a Parigi.
    I film storico-avventurosi furono numerosi quanto i film d’ambientazione moderna. Ricavati spesso da opere letterarie, antiche e moderne, avevano la caratteristica di avere quasi sempre come personaggio principale una donna. Tra i primi del genere, è da menzionare Shakuntala (1943) di V. Shantaram, adattamento della notissima opera in sanscrito di Kalidasa (IV-V secolo d.C.).
    Uno degli esempi più emblematici fra i film storici è senza dubbio il kolossal in hindi e tamil, prodotto dalla Gemini, Chandralekha (1948), diretto da S.S. Vasan (1903-1969). Un successo clamoroso e senza precedenti in tutto il Paese che però fu definito dal suo stesso autore “una sagra paesana”. Paragonato spesso al Prigioniero di Zenda (1922 e 1937), Chandralekha fu iniziato nel 1943 con la regia di T.G. Raghavacharya e si pensa fosse ispirato alla novella del 1848 di G.M.W. Reynolds Robert Macaire, or The French Bandit in England. Film d’avventura, ambientato in un passato indefinito, narra della rivalità fra due fratelli in lotta per un regno, Veer Singh, il personaggio positivo della storia, e il malvagio Shashank. Oltre al potere, i due si contendono l’amore di Chandralekha, la “bella” del villaggio. Dopo innumerevoli e tumultuose traversie, il principe virtuoso e la leggiadra Chandralekha diventeranno artisti di un circo. Ad un certo momento, però, la ragazza sarà catturata da Shashank, il quale vuole costringerla a sposarlo. La fanciulla, per guadagnare tempo, acconsentirà alle nozze a patto che le sia concesso di eseguire, insieme ai suoi amici artisti itineranti, una danza spettacolare su degli enormi tamburi. La danza si rivelerà essere un vero cavallo di Troia: infatti, dall’interno dei giganteschi strumenti sbucheranno in armi i fedeli sostenitori di Veer Singh, che ingaggeranno una strenua battaglia contro gli scherani di Shashank. In conclusione, ci sarà lo scontro risolutivo fra i due pretendenti al trono e si assisterà al duello più lungo della storia del Cinema indiano. Anche la stupefacente coreografia della danza dei tamburi è rimasta negli annali della storia del cinema mondiale, una danza che aveva avuto un antecedente e un riferimento in quella di Kalpana, film girato nel medesimo anno e negli stessi studi della Gemini. Una particolarità interessante della danza dei tamburi è la sua musica: anticipando di più di quaranta anni le innovazioni di Bollywood, per accompagnare quella stravagante coreografia fu composta una musica inusuale e ibrida in cui si riconoscono motivi tradizionali delle varie regioni dell’India, ritmi sudamericani e perfino il valzer di Strauss.
    In controtendenza con quanto accadeva a Bombay o a Calcutta, nel Sud erano ancora frequenti i film sulla vita dei santi. Un film di culto di questo tipo, simbolo dell’orgoglio culturale dravidico, fu realizzato nel 1953 sempre dalla Gemini: Avvaiyar diretto da S.S. Vasan. Il film, un connubio ben riuscito tra genere musicale e “devozionale”, si basava sulla vita di Avvaiyar, santa e poetessa shaiva (seguace del dio Shiva) della scuola del Sangam (100 a.C.-250 d.C.), identificata con la “Grande Madre” Tamil. Con effetti spettacolari e splendide canzoni, Avvaiyar rappresentava la rinnovata identità politica ottenuta grazie all’Indipendenza.
    Un avvenimento storico realmente accaduto fu proposto nel 1953 da uno specialista del settore, Sohrab Modi. Jhansi ki Rani, un film molto spettacolare con intenti patriottici, era una biografia romanzata di Lakshmibai - interpretata da Mehtab, moglie del regista – la regina di Jhansi che combattè contro gli inglesi durante la rivolta dei sepoy del 1857 e che morì eroicamente nell’assedio di Gwalior.
    Da ricordare inoltre Anarkali, sempre del 1953, di Nandlal Jaswantlal. Tratto da una novella del 1922 di Imtiaz Ali Taj, il film, ambientato durante l’impero Moghul, narra dell’amore impossibile del principe Salim, figlio dell’imperatore Akbar, per la schiava Anarkali. La storia era già stata portata sugli schermi nel 1928 per la regia di Prafulla Roy e Charu Roy e nel 1935 da R.S. Choudhury, ma continuò ad appassionare gli spettatori in numerosi altri film. Infatti, nel 1960 con Mughal-e-Azam si riportò in vita la stessa romantica storia. Il film, uno dei più celebri dell’India, fu diretto da Karimuddin Asif (1924-1971), autore poco prolifico (solo quattro film, di cui due postumi), noto soprattutto per il suo interesse nel trattare tematiche musulmane, come in Phool (1944), tratto da un dramma di Kamal Amrodi. Mughal-e-Azam fu girato parzialmente a colori nel corso di nove anni (quattordici secondo alcune fonti), e si avvaleva della recitazione di alcuni dei più prestigiosi attori del tempo: Prithviraj Kapoor, Dilip Kumar, Durga Khote e Madhubala (Begum Mumtaz Jehan, 1933-1969) nel ruolo di Anarkali. La sua danza all’interno dello Sheesh Mahal (Palazzo degli Specchi) è una delle scene più famose del Cinema indiano. Le musiche furono composte da Naushad, uno dei più virtuosi maestri dell’epoca, mentre le melodie erano cantate da Lata Mangeshkar, considerata fino ai nostri giorni la voce più armoniosa dell’India.
    E infine non si può non ricordare un altro opulento film storico dell’Età dell’Oro: Chitraleka (1964) di Kidar Sharma che aveva realizzato lo stesso film nel 1941. Ambientato nel periodo Gupta (240-535 d.C.), fu interpretato da Ashok Kumar e Meena Kumari, nella parte dell’eroina della storia, la danzatrice di corte Chitraleka.
    In ogni caso, tutti i critici sono concordi nell’affermare che lo spirito del tempo sia rappresentato da quattro figure carismatiche: Mehboob Khan, Bimal Roy, Raj Kapoor e Guru Dutt, definiti unanimemente i “I Quattro Grandi dell’Età dell’Oro”.

    L’Età dell’oro – PARTE SECONDA



    L’Età dell’Oro è stata caratterizzata dall’attività di quattro registi straordinari: Mehboob Khan, Bimal Roy, Raj Kapoor e Guru Dutt. Autori diversi per personalità, tematiche e linguaggio artistico, i “quattro grandi” sono tuttavia legati da alcune caratteristiche di fondo che si ritrovano costantemente nelle loro opere migliori. Innanzi tutto, uno spiccato senso umanistico, manifestazione della loro sensibilità per la grande povertà e per l’ineguaglianza a quei tempi ancora ampiamente diffuse presso la popolazione indiana. In secondo luogo, li accomuna una profonda consapevolezza della cultura passata e presente del proprio Paese, sia nelle forme auliche che negli aspetti popolari. Un terzo dato in comune è una certa idealizzazione dei contadini - benché si riconosca che la città sia l’unico luogo dove poter risolvere ogni arretratezza - e infine, la loro grande maestria nel divulgare le proprie idee, al fine di incoraggiare le masse a un cambiamento radicale.
    La figura di Mehboob Khan (Ramjan Khan, 1906-1964) è leggendaria, fu soprannominato «il Cecil B. De Mille dell’India» per il suo stile melodrammatico e spettacolare. Proveniente da una famiglia povera del Gujarat, fece il suo ingresso nel mondo del cinema nel 1927 come comparsa e factotum,per poi diventare attore. Finalmente, nel 1935, ottenne la sua prima regia.
    Temperamento tenace e versatile, uno dei suoi primi lavori di rilievo è Roti (Il pane, 1942), figurativamente simile a un prodotto dell’Espressionismo tedesco. Nel film si mettono a confronto due modelli di vita: il mondo libero e con valori senza tempo di una coppia di adivasi (aborigeni tribali) e il nuovo stile “cittadino”, rappresentato da un milionario. Dopo un frustrante soggiorno nella grande città, i due contadini torneranno nella loro terra, dove saranno raggiunti dal milionario, il quale avendo subito un irreparabile dissesto finanziario, cerca salvezza in quella sorta di paradiso perduto.
    In un periodo in cui fra gli estremisti indiani dilagava la violenza, Mehboob realizzò Humayun (1945), una biografia romanzata dell’imperatore poeta figlio di Babur, il Moghul che nel XVI secolo aveva conquistato l’India. Il regista in questo kolossal, interpretato da Ashok Kumar e Nargis (“Narciso”, Fatima Rashid), intendeva indicare ai suoi contemporanei un esempio da seguire. Un modello proveniente dal lontano passato, quando per musulmani e induisti era stato possibile vivere insieme pacificamente, grazie a una reciproca tolleranza. Il film fu apprezzato da De Mille che in una lettera lo descrisse come “un capolavoro per l’uso delle luci e la composizione delle scene”.

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    Il melodramma Andaz (Stile, A Matter of Style o Beau Monde, 1949) è incentrato, come Roti, sulla contrapposizione degli stili di vita. Nita (Nargis), una ereditiera occidentalizzata, con il suo comportamento moderno e disinvolto fa credere all’amico Dilip (Dilip Kumar) di essere innamorata di lui. Nita lo ucciderà per dimostrare al marito Rajan (Raj Kapoor) di essersi ravveduta e pagherà con la prigione l’essersi comportata in maniera non tradizionale. Il film è particolarmente notevole per i testi delle canzoni di Majrooh Sultanpuri e per le musiche di Naushad.
    Nel 1952, Mehboob fu autore di Aan (Onore), il primo kolossal indiano in Tecnicolor (che fu distribuito in Inghilterra con il titolo Savage Princess e in Francia con quello di Mangala, Fille des Indes, nonché mostrato ad Hollywood proprio a De Mille). La storia, ambientata in epoca moderna, narra di un coraggioso e fedele capo clan Rajput che difende il suo maharaja dai tentativi di usurpazione messi in atto da uno dei figli del re.
    La sua opera più nota è Bharat Mata (Madre India), un remake del 1957 del suo precedente Aurat (Donna, 1940). Bharat Mata è forse il film più famoso e acclamato della storia del cinema indiano, il corrispettivo asiatico di Gone with the Wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming. Analizzato fin nei minimi dettagli da tutti i critici, questo film viene generalmente etichettato come il massimo esempio di quell’ “epica nazionale” nata all’indomani dell’Indipendenza. La vecchia contadina Radha, assurta quasi a simbolo della Nazione Indiana, ricorda la sua vita di moglie e di madre e l’indomita lotta per la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia, oppressa da Sukhilala, l’usuraio del villaggio. Dopo molte traversie, un giorno viene abbandonata dal marito, che ha perso entrambe le braccia in un incidente di lavoro, poi dovrà subire la violenza di Sukhilala e perderà uno dei figli, Ram, durante un’alluvione. Infine, per un innato senso di giustizia, ucciderà il figlio ribelle, Birju, pur essendo il suo preferito, che ha assassinato l’usuraio e ne ha sedotto per vendetta la figlia. Radha, una idealizzazione della figura femminile, il cui ruolo tradizionale è quello di assicurare la stabilità della famiglia, diventerà per gli abitanti del suo villaggio un modello da imitare, appunto perché con la sua fiducia nel futuro incarna i concetti di equilibrio e continuità. Bharat Mata, che come linguaggio cinematografico si rifà in parte ad Aleksandr Dovženko, per alcuni critici è una grande sintesi di temi psicoanalitici e di simbolismi che rimandano anche alle antiche religioni dell’India (Radha è ad un tempo la Dea-Madre e Kali). Per altri, è lo studio di una cultura in conflitto con se stessa. Ad alcuni Bharat Mata potrebbe sembrare un film po’ retorico, anzi i suoi detrattori lo accusano di esaltare gli aspetti più retrivi della società indiana, ma per capirlo bene bisogna inserirlo nella giusta prospettiva storica. Grazie ad una perfetta ambientazione, alle splendide musiche di Naushad, alle spettacolari coreografie e alle capacità recitative degli attori - in primo luogo Nargis, che per questo film ottenne una nomination all’Oscar e il premio come migliore attrice al Festival di Karlovy Vary - Bharat Mata rimane ancora oggi un vero capolavoro del cinema ed è il film che sintetizza tutta l’opera di Mehboob.

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    Il secondo Maestro, Bimal Roy (1909-1966), nacque a Dacca in una famiglia di zamindar ed esordì a Calcutta come direttore della fotografia. Fra i “quattro grandi” è considerato il più “umanista” e, nello stesso tempo, il più “riformista”, in quanto nelle sue opere usa toni sempre misurati e non scivola mai nel sentimentalismo di maniera, anche quando affronta temi melodrammatici. Si ritiene che sia stata la sua prima regia, Udayer Pathey (Verso la Luce, 1945), ad aver indicato la strada verso il neorealismo, una strada seguita successivamente da quasi tutto il cinema bengalese. Trasferitosi a Bombay, realizzò Do Bigha Zamin (Due acri di terra, 1953), vincitore del Premio Internazionale della Critica al Festival di Cannes. Fin dagli anni Trenta la storia di Due acri di terra non era certo nuova per il cinema indiano, essendo il tema di fondo del film il consueto contrasto tra i contadini e i proprietari terrieri. In questo caso, però, oltre a un sicuro riferimento al neorealismo italiano, vi è una sobrietà narrativa e un equilibrio formale che ne fanno un vero capolavoro. Ma tutti i film di Roy sono artisticamente notevoli, qualunque sia il loro genere.
    Come già sappiamo, uno dei soggetti che maggiormente hanno interessato il cinema indiano è Devdas. Un magistrale rifacimento - un’opera per molti critici addirittura superiore a quella di Barua - è il remake del 1955 di Bimal Roy. Essendo stato direttore della fotografia del mitico filmdel 1935, Roy dedicò la sua personale interpretazione di Devdas a Barua e a Kundan Lal Saigal, protagonista della versione in hindi. Come già sappiamo, il soggetto, fortemente sentimentale, tipico della letteratura del Bengala, ha per tema centrale il conflitto tra l’individuo e il conservatorismo della società in cui vive. Abbiamo detto, però, che Bimal Roy è considerato l’artefice, con Due acri di terra, di quel rinnovamento, in senso realista, che in seguito si verificherà in una parte del cinema indiano. E infatti, anche un grande melodramma come la novella di Chatterjee non lo fa scivolare nell’affettazione intimista. Roy coglie aspetti psicologici della storia prima inesplorati o ne propone di nuovi, si veda ad esempio quanto spazio del racconto e quanta cura è dedicata ai personaggi principali ancora bambini, oppure al pungente sarcasmo che caratterizza l’ “eroe perdente”. Anche in questo caso, interpreti d’eccezione: Dilip Kumar, il primo attore veramente naturalista del cinema indiano, Suchitra Sen e Vyjayanthimala.
    Altro tema apparso più volte sugli schermi indiani era quello degli intoccabili, basti pensare a Achhut Kanya. In Sujata (1960) Roy affronta lo stesso argomento in tono apparentemente più lieve. Nel suo film, infatti, la protagonista, Sujata, non sa di essere una “fuori casta”, essendo stata adottata da bambina da una famiglia brahmana. L’evolversi drammaturgico della storia, per nulla banale, avrà per conseguenza un lieto fine.
    Altro film drammatico, ispirato a una storia realmente accaduta, è Bandini (La detenuta, 1963). Ambientato negli anni Trenta, cruciali per l’Indipendenza indiana, narra di una donna, accusata di omicidio, che attende serenamente la sua condanna. La storia, in flashback, ci fa conoscere i motivi della sua detenzione. Per salvare un nazionalista, la donna aveva dichiarato di essere la sua sposa. Il padre di Kalyani - la protagonista, interpretata splendidamente da Nutan - insiste, per il buon nome della famiglia, che la figlia lo sposi davvero. Quando la ragazza scoprirà che il terrorista è già sposato e che ha anche abbandonato la moglie, per salvare l’onore, la troverà e la ucciderà. Il film fu definito tecnicamente perfetto da tutti i critici.
    Il realismo di Roy si era però bruscamente interrotto anni prima con un film inusuale, Madhumati (1958), la storia di una reincarnazione. Dato l’argomento, caro agli spettatori indiani, e grazie all’interpretazione di Dilip Kumar e della splendida Vyjayanthimala, alle canzoni di Shailendra e alle musiche di Salil Choudhury, Madhumati fu il maggiore successo di Roy. In ogni caso, benché apparentemente sia un soggetto estraneo alla poetica “sociale” del regista – la sceneggiatura in effetti è di Ritwik Ghatak, uno dei più grandi autori del Bengala – il risultato artistico è egualmente eccellente.
    Nello stesso anno uscì nelle sale un altro film singolare firmato da Roy: Yehudi (L’Ebreo), una sorta di remake di Yehudi ki Ladki (La Figlia dell’Ebreo, 1933) dello scrittore bengalese Premankur Atorthy (1890-1964). Si tratta di un dramma storico che, sebbene “indianizzato”, si occupa di un tema molto raro e apparso, fino ad oggi, solo quattro volte nel Cinema indiano: l’oppressione degli ebrei da parte dei romani. Bimal Roy fu anche un grande documentarista e in questo settore sono almeno due i titoli da citare. Il primo è Bengal Famine (La carestia del Bengala), girato nel 1943, in cui si documenta, con sensibilità, umana partecipazione e indignazione sociale, l’immane e assurda tragedia che si stava compiendo nella sua terra natale. Di notevole interesse e di alta qualità visiva, Images of Kumbh Mela (Immagini del Kumbh Mela). Il film, postumo, è stato completato nel 1999 dal figlio del regista, Joy, il quale ha dato una coerenza narrativa alle scene che il padre aveva girato nel 1960 ad Allahbad e ad Hardwar, in occasione della celebrazione della più importante e spettacolare festa dell’induismo. Si riteneva che tale materiale fosse andato disperso, poi furono ritrovati 78 minuti di quei sopralluoghi filmati. Bimal Roy, infatti, intendeva realizzare su tale soggetto un film (che non andò in porto), Amrit Kumbh ki Khoj, tratto dal racconto Amrita Kumbher Sandhaney di Samaresh Bose. Le bellissime sequenze di Bimal Roy hanno permesso al figlio di costruire un piccolo gioiello. Nonostante la sua brevità (undici minuti) e la mancanza di commento (solo immagini e musica), Images of Kumbh Mela riesce a far comprendere allo spettatore alcuni degli aspetti più significativi di quel grande evento religioso, coinvolgendolo nell’atmosfera fuori dal tempo della «Festa del Vaso».


    L’Età dell’oro – PARTE TERZA



    Produttore, regista e attore di cinema e di teatro tra i più acclamati, Raj (Ranbinrraj) Kapoor (1924-1988) è considerato, proprio per la sua multiforme personalità, l’esponente più illustre della sua già celebre famiglia. Infatti, era figlio di Prithviraj Kapoor, uno degli attori di maggior talento tra gli anni Trenta e Sessanta, e fratello di Shammi e Shashi, rispettivamente attore e produttore e regista oltre che attore, appartenente quindi a una di quelle film family - grandi clan composti da cineasti che ripropongono la joint family indiana - ancora oggi presenti sulla ribalta del Cinema dell’India.
    Nel 1948 inaugura con Aag (Fuoco) la sua Casa di Produzione, la R.K. Films, e debutta come regista. Interprete principale del filmcon Nargis, che lo affiancherà sullo schermo per altre 11 volte, affida al fratello Shashi la parte del protagonista da adolescente. In Aag, Kewal è un giovane contadino in conflitto con il padre, uomo dalle idee ristrette che lo scaccia via da casa. Ossessionato dal ricordo di un amore d’infanzia perduto (un riferimento a Devdas), Kewal è divorato da un fuoco interiore: sogna di dirigere un teatro. Alla fine il giovane contadino realizzerà le sue aspirazioni: avrà il suo teatro, dove Nimmi (Nargis) diventerà la prima attrice. Secondo le parole di Raj Kapoor, Aag voleva ritrarre la personalità di un uomo “consumato dal desiderio di una vita più intensa e felice”.
    Il film più famoso di questo regista è Awara (Il vagabondo, 1951), che ha per base una sceneggiatura di K.A. Abbas in cui si pone una domanda ad un tempo sociologica e genetica (e forse metafisica). Di fatto, è un’analisi dell’alienazione dell’individuo nella metropoli, sviluppando un quesito ambizioso, ossia se le azioni dell’uomo siano determinate dall’ineluttabilità del fato o non dipendano, invece, da fattori ambientali esterni. In pratica, sembrerebbe una verifica della veridicità della teoria del karma, uno dei pilastri delle credenze dell’induismo, con l’ottica della scienza moderna. Ed ecco la dimostrazione di questo singolare teorema. Il giudice Raghunat (Prithviraj Kapoor) condanna il bandito Jagga, solo perché il padre di quest’ultimo era a sua volta un criminale. Jagga riesce a fuggire, rapisce Bharti (Leela Chitnis), moglie del magistrato, e ne alleva il figlio con lo scopo di dimostrare che il figlio di un uomo di legge può diventare un delinquente. Da adulto, il figlio del giudice, Raju (Raj Kapoor), avendo scoperto ciò che era accaduto alla madre, uccide Jagga per vendicarla e tenta anche di assassinare il padre. Al processo, la sentenza di colpevolezza di Raju sarà pronunciata proprio da Raghunat il quale, però, avendo capito di essere stato fuorviato dai suoi pregiudizi, accetterà Raju come figlio, pronto ad accoglierlo nella sua casa una volta scontata la pena. Lo attenderà anche Rita (Nargis), l’amore della sua infanzia, che aveva sempre cercato di redimerlo.
    Meno intellettualistico e più riuscito artisticamente, Shri 420 (Il Signor 420, essendo il 420 il numero dell’articolo del Codice Penale indiano per la frode), realizzato nel 1955 e interpretato dallo stesso Raj Kapoor, che si ispirò a Chaplin. Raju, un giovane e ingenuo campagnolo, cerca fortuna nella grande città dove si innamora dell’insegnante Vidya (Conoscenza). Ma Raju viene sedotto da una famme fatale dal nome altrettanto significativo, Maya (Illusione) che lo introduce nel mondo della malavita. I suoi nuovi “amici” gli chiedono di raggirare i diseredati fra cui vive. Ma Raju si ribella e, insieme alla sua innamorata, decide di abbandonare quella città corrotta e brutale. Il film ebbe un grande successo commerciale grazie ad alcune sequenze particolarmente gradite al pubblico – ad esempio, il duetto dei protagonisti sotto la pioggia e il suggestivo lieto fine – e alle splendide canzoni cantate da Lata Mangeshkar e Mukesh.
    L’ultimo Maestro dell’Età dell’Oro è Guru Dutt (1925-1964), ossia Gurudatta Shivashankara Padukone, nato nel Sud dell’India a Bangalore, che riuscì a infondere, come nessun altro cineasta indiano aveva mai fatto - eccezion fatta per Ritwik Ghatak - un profondo lirismo in tutti i film da lui diretti, anche in quelli più commerciali. Educato a Calcutta presso la scuola di Uday Shankar, iniziò la sua carriera come coreografo ed aiuto regista. Attore, regista e produttore, sposato con la celebre cantante Geeta Roy, ha realizzato nella sua breve vita - morì suicida - solo otto film.
    I primi, Baazi (La partita, 1951), Jaal (La rete, 1952), Baaz (Il falco, 1953) e Mr. And Mrs. 55 (1955) – una intelligente commedia moderna sulla tradizione dei matrimoni combinati, interpretato dallo stesso Guru Dutt e dalla stella di prima grandezza Madhubala - sono tutti di ambientazione urbana e mostrano una grande maestria figurativa.
    Poi, quasi improvvisamente, si verificò una trasformazione radicale nel pensiero di Guru Dutt. Nel suo animo si insinuò un pessimismo senza speranze, un malessere da cui nacque una trilogia di indiscussi capolavori: Pyaasa (L’assetato), Kaagaz ke Phool (Fiori di carta) e Sahib, Bibi aur Ghulam (Il Signore, la Signora e il Servo).


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    Il tema centrale di Pyaasa (1957) è la sete insaziabile che tormenta ogni artista per essere riconosciuto tale. Un desiderio che si scontra drammaticamente con una società priva di sentimenti, in cui imperano soltanto la regola del profitto economico e gli intrighi di potere. Un giovane sognatore, Vijay, interpretato dallo stesso Guru Dutt, viene scacciato dai fratelli maggiori in quanto “improduttivo”: i manoscritti delle sue poesie sono venduti come carta straccia ad un rigattiere. Una notte, il poeta riuscirà a ritrovarle, ascoltandole per caso da una ragazza che le declama rapita: le ha comprate per pochi spiccioli da uno straccivendolo. Il fatto sorprendente è che quella fanciulla così sensibile è una donna di strada. Il ruolo della prostituta è recitato da Waheeda Rehman, una grande attrice la cui delicata bellezza esteriorizza perfettamente la nobiltà d’animo di Gulabo, un personaggio in cui si è voluto vedere una sorta di citazione della Chandramukhi di Devdas, ma che lo sceneggiatore Alvi affermò essere invece una donna reale - il cui nome era proprio Gulabo - da lui conosciuta casualmente. Poi Vijay riuscirà ad ottenere un lavoro con cui poter campare: sarà assunto come factotum (in pratica come cameriere) da Mr. Ghosh, potente editore, marito della sua ex innamorata Meena, che evidentemente aveva preferito la sicurezza economica alla poesia. Tuttavia, incapace di sopportare quella vita umiliante, Vijay decide di suicidarsi. Prima di togliersi la vita, dona la sua giacca ad un barbone. Il mendicante tenterà di salvarlo dal treno che sta per travolgerlo, ma morirà in sua vece, mentre il sopravvissuto si allontana in stato di shock. Poiché il cadavere è irriconoscibile e ha i documenti del poeta dentro la giacca, per la società Vijay risulta essere morto. Gulabo non si rassegna all’idea che le bellissime poesie del suo innamorato non siano conosciute dal mondo. Riesce a farle pubblicare, ovviamente a sue spese, da Mr. Ghosh. Il successo editoriale è inaspettatamente clamoroso. Tutti, eccetto Gulabo, si spartiscono allegramente il ricco bottino. Vijay riprenderà conoscenza nell’ospedale dove è ricoverato, ascoltando proprio una delle sue poesie, letta da una infermiera. Riacquista la memoria, va a reclamare i suoi diritti. Viene accolto tutt’altro che trionfalmente. Anzi, editore, parenti e amici fanno finta di vederlo per la prima volta nella loro vita: si sa che un artista morto rende più di uno vivo. Infine, sarà riconosciuto come autore di quei capolavori durante una commemorazione del “grande poeta scomparso”, cioè di se stesso. Ma Vijay è ormai disgustato dalla meschinità della gente. Sconfesserà la sua opera artistica, negherà la sua identità e insieme a Gulabo si allontanerà da quel mondo a cui non vuole chiedere più nulla. Pyaasa, ispirato alla novella Srikanta di Sarat Chandra Chatterjee, è un grande melodramma romantico (severamente vietato ai cinici) in cui le belle sequenze girate da V.K. Murthy, il direttore della fotografia quasi sempre al fianco di Guru Dutt, si fondono perfettamente con le musiche di Sanchin Dev Burman, lo stesso compositore del Devdas di Roy, e i ghazal (forma di canto poetico in urdu del XIII secolo) di Sahid Ludhianvi. Pyaasa è certamente il capolavoro di Guru Dutt ed è anche il suo manifesto artistico e umano.
    Il regista continua nella sua visione pessimistica realizzando nel 1959 Kaagaz ke Phool, un film quasi autobiografico. Paragonato a Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Orson Welles, è stato interpretato come un inno al Cinema e, nello stesso tempo, come un ammonimento contro il suo potere artificiale e distruttivo, un potere che non può creare la vita ma solo effimeri «fiori di carta». La trama, dalla struttura assai complessa, si svolge in una continua alternanza di presente e passato. Suresh Sinha, una volta grande regista, rivisita gli Studios che gli avevano dato la fama. Vede tutta la sua vita scorrergli sotto gli occhi, da artista acclamato ad uomo fallito. Il giorno successivo, viene ritrovato morto nell’immenso spazio vuoto del teatro di posa: seduto sulla sua sedia di regista. Fiori di carta è il primo film indiano in Cinemascope, vi è una inventiva ricerca formale con un significativo contrappunto di spazi pieni e vuoti, si avvale della splendida musica di Burman, con testi del celebre poeta Kaifi Azmi, è recitato magnificamente da Guru Dutt e Waheeda Rehman, ma, al contrario di Pyaasa che riscosse un enorme successo, fu un fiasco completo. Da quel momento, Guru Dutt non volle più firmare nessun film.
    Ambientato nel XIX secolo e tratto dall’omonima novella del 1952 di Bimal Chitra, Sahib, Bibi aur Ghulam (1962) è stato definito uno dei gioielli del Cinema indiano. La regia reca la firma dello sceneggiatore Abrar Alvi, ma non c’è alcun dubbio che il vero autore sia stato Guru Dutt, che si teneva nell’ombra perché temeva un nuovo insuccesso. Il film è un affresco a fosche tinte della lenta decadenza, fisica e morale, di un casato aristocratico bengalese e in questo senso è paragonabile a Jalsaghar (La Sala della Musica, 1958) di Satiajit Ray. Bhoothnath, (Guru Dutt), un giovane di bassa casta ma ben istruito, proveniente da un villaggio, che lavora in un’azienda di Calcutta, soggiorna nell’haveli di uno zamindar. Divenuto confidente di Chhoti Bahu (Meena Kumari, la migliore attrice drammatica del tempo), moglie infelice del feudatario, Bhoothnath funge da narratore degli ultimi 30 anni di quella famiglia in estinzione. Il giovane, sebbene fidanzato con la radiosa Jaba (Waheeda Rehman), figlia del proprietario della fabbrica in cui lavora, è affascinato da quella donna disperata e vorrebbe aiutarla, ma la sventurata, durante un tentativo di fuga, viene assassinata perché sospettata di adulterio. Anni dopo, Bhoothnath, diventato architetto, presiederà alla demolizione dell’antica dimora dello zamindar, ormai in rovina. L’intera storia del film è narrata in flashback. Per ironia della sorte, Sahib, Bibi aur Ghulam non solo ebbe un grande successo nelle sale ma vinse numerosi premi, tra cui quello per la regia.
    Forse qualcuno potrebbe chiedersi, a conclusione della breve panoramica sui “quattro grandi”, perché nessuno di essi, nonostante la loro inventiva, il loro carisma e la loro capacità di comunicare con un vasto pubblico (ciò che oggi si definisce “intrattenimento”), cercò di sovvertire le regole ormai consolidate del Cinema Hindi. La risposta è che in quegli anni non vi era differenza - forse a ragione - tra cinematografa popolare e film d’arte. La distinzione fra prodotti commerciali e cinema d’autore, già esistente in Occidente, apparirà in India soltanto negli anni Settanta.

    Si ringrazia il sito ufficiale dell' enciclopedia TRECCANI
    ;)

    A domani con l' interessantissima terza parte di questo megaspecialone sul cinema indiano! :woot: :festa:


     
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25 replies since 30/9/2007, 21:10   2782 views
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