STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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  1. shinji80
     
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    A tutti i MICI aMICI rieccoci con un altro, e stavolta lunghissimo appuntamento, con un' altro dell' intero cinema asiatico! Stasera affronteremo la prima parte del nostro personale dossier sul cinema indiano! Senza aspettare tempo, iniziamo subito!! :woot:

    CAPITOLO 1: INTRODUZIONE AL CINEMA INDIANO



    La pluralità espressiva del cinema indiano può essere apprezzata considerando che nel Paese sono ufficialmente riconosciute dalla Costituzione numerose lingue, con la loro letteratura scritta e orale. Ogni anno vengono prodotti film in almeno dodici di queste lingue, con buoni riscontri sia di pubblico sia di critica. L’hindi, lingua originaria della pianura del Gange, nell’I. settentrionale, è compresa e parlata da circa un terzo della popolazione ed è la lingua ufficiale dell’Unione Indiana dal 1950, dell’apparato burocratico statale e della televisione di Stato.


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    La sua diffusione è dovuta anche alla popolarità del cinema commerciale prodotto a Bombay (recentemente rinominata Mumbai). Ma il cinema d’autore si esprime anche in altre lingue: bengalese nel Bengala, malayàlam nel Kerala, kannaÿa nel Karnataka, tamil nel Tamil Nadu e telugu nell’Andhra Pradesh. Più del 15% della popolazione ha una conoscenza di base della lingua inglese, parlata e scritta; nonostante ciò la penetrazione del cinema statunitense è piuttosto contenuta (intorno al 10% del mercato) così come quella del cinema europeo, presente in una percentuale del 2%. Esiste pertanto una pluralità di cinematografie che definisce il vasto cinema del subcontinente.

    Dalle origini agli anni Ottanta



    Fin dal 1896 ebbero luogo a Bombay proiezioni del Cinématographe Lumière e dall’anno successivo vennero importati regolarmente film europei. Dopo l’opera per lo più documentaristica di pionieri quali Harischchandra Sakhran Bhatvadekar, F.B. Thanavalla, Jamshedji Framji Madan, Ramchandra Gopal Torney, nel 1913 Dhundiraj Govind Phalke girò il primo film indiano di fiction, Raja Harishchandra (Il re Harishchcandra), inaugurando un genere che ebbe grande successo in tutto il Paese, il filone mitologico ispirato alle epopee nazionali Ràmàyaîa e Mahàbhàrata. I circa 1300 film girati all’epoca del muto da cineasti quali Dhirendranath Ganguly, Debaki Kumar Bose, Chandulal Jesangbhai Shah, quasi totalmente perduti, manifestano già pienamente temi e generi che saranno propri di tutto il periodo successivo, fino alla produzione recente: oltre al mitologico, il genere storico e quello di ambientazione moderna, con temi quali la divisione in caste, il contrasto tra città e campagna e l’istituzione familiare.
    Negli anni Trenta Ardeshir Marwan Irani girò in lingua hindiil primo film indiano sonoro, Alam ara (1931; La luce del mondo). Anch’esso perduto, conteneva diverse canzoni, secondo uno schema che sarebbe diventato ben presto quasi obbligato e che si rifà alla tradizione lirica del teatro sanscrito e a quella del dramma popolare, basato sull’alternanza di canti e danze in funzione fortemente emotiva. Il cinema indiano divenne così uno spettacolo largamente popolare, anche se il suo consumo, proprio per le caratteristiche dette, si limitava al mercato interno. Non di rado la produzione di film, distinti secondo le diverse zone linguistiche, era coordinata con l’industria discografica, e i manifesti della pubblicità cinematografica segnalavano a grandi caratteri l’autore delle canzoni (il cui numero originario di circa quaranta per film è sceso in tempi recenti a quattro o cinque).
    Dal 1931 al 1935 la produzione venne quasi decuplicata (da 27 a 233 film), ma si frammentò nella molteplicità di lingue e dialetti parlati sul territorio nazionale (fu comunque il cinema in lingua hindia conquistarsi un’egemonia che avrebbe attraversato tutta la storia del cinema indiano, fino agli inizi del 21° secolo). Gli anni Trenta furono dominati da tre grandi case di produzione: la New Theatres Ltd di Calcutta, che produsse le commedie di D. Ganguly, i film religiosi di D.K. Bose (tra cui Seeta, del 1934, primo film indiano presentato alla Mostra del cinema di Venezia) e i film di Pramatesh Chandra Barua (tra cui il popolarissimo bhansali, 1935, storia di un amore impedito dalle differenze di casta); la Prabhat Film Company di Puna, fondata, tra gli altri, dal regista Rajaram Vankudre Shantaram (Kunku – Duniya na mane, 1937, L’inatteso) e da Vishnupant Govind Damle e Sheikh Fattelal, ai quali si deve il primo film indiano premiato in una competizione internazionale (a Venezia): Sant Tukaram (1936, Il santo Tukaram); la Bombay Talkies, fondata dall’attore Himansu Rai, che raccolse intorno a sé alcuni dei migliori giovani talenti (l’attore, poi regista, Raj Kapoor, l’attore Dilip Kumar, lo sceneggiatore, poi regista anch’egli, Khwaja Ahmad Abbas) e produsse film mitologici e drammi sociali. Negli anni Quaranta emersero numerosi produttori indipendenti, mentre decaddero le grandi compagnie che negli anni Trenta avevano prodotto film religiosi, mitologici o a sfondo sociale. Concorrenzialità e instabilità economica delle produzioni, parossismo del fenomeno divistico (il divo era ormai un vero e proprio oggetto di culto), imitazione dei film hollywoodiani e utilizzazione di finanziamenti provenienti da attività criminose, divennero le caratteristiche di una produzione in costante espansione (300 film alla fine degli anni Cinquanta), nella quale tuttavia si persero sempre più i legami con i problemi reali del Paese. Un anno prima dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, Abbas realizzò contro corrente Dharti ke lal (1946, I figli della terra), film a carattere sociale che venne mostrato a Londra, Parigi e Mosca. Al medesimo autore si deve nel 1954 il primo film indiano senza canzoni né danze, Munna (Il bambino perduto), e numerose sceneggiature di film di R. Kapoor, che innestano temi sociali sui moduli della commedia popolare in voga: Awara (1951, Il vagabondo), Shri 420 (1955, Il Signor 420). Altri autori di rilievo negli anni Cinquanta sono Bimal Roy (Do bigha zameen, 1953, Due ettari di terra, film influenzato dal Neorealismo italiano, e Sujata, 1959, sulla questione degli intoccabili), Guru Dutt (Pyaasa, 1957, L’assetato, e Kagaz ke phool, 1959, Fiori di carta) e soprattutto il bengalese Satyajit Ray, che con Pather panchali (1955, Il lamento sul sentiero) segnò l’inizio di un profondo rinnovamento non solo della cinematografia bengalese in crisi ma dell’intero cinema indiano. Premiato al Festival di Cannes del 1956, Pather panchali aprì così la carriera di uno dei massimi cineasti del dopoguerra (Aparajito, 1956, L’invitto; Parash pathar, 1957, La pietra filosofale; Apu sansar, 1959, Il mondo di Apu; Devi, 1960, La dea), mostrando la possibilità di un cinema indiano d’autore fuori dai rigidi schemi dei generi.
    Quella del cinema indiano divenne allora la storia della progressiva affermazione del cosiddetto cinema parallelo accanto al tessuto del cinema commerciale, straordinariamente stabile e indenne dalle crisi vissute dagli altri mercati cinematografici internazionali. Insieme a Ray, un altro grande regista bengalese, Ritwik Kumar Ghatak, esordì negli anni Cinquanta raggiungendo la piena maturità nel decennio successivo (anni Sessanta) con opere polemiche, intense e violente (Ajantrik, 1957, Il vagabondo; Meghe dakha tara, 1960, La stella velata di nubi; Subarna Rekha, 1962, Il fiume Subarna Rekha), in cui il destino d’intellettuale dell’autore s’intreccia indissolubilmente con quello di un popolo intero, diviso tra I. e Pakistan. Alla base del moderno cinema indiano, Ghatak divenne un punto di riferimento, umano e politico oltre che artistico, della nouvelle vague che nacque all’inizio degli anni Settanta. Presso il Film Institute di Puna furono suoi allievi Kumar Shahani (Maya darpan, 1972, Lo specchio dell’illusione; Tarang, 1984, Vibrazioni), Adoor Gopalakrishnan (Swayamvaram, 1972, La propria scelta; Kodiyettam, 1977, L’ascesa; Elippathayam, 1981, Trappola per topi) e soprattutto Mani R. Kaul, autore anticonvenzionale e intransigente, legato agli aspetti più profondi della filosofia indiana, che si segnalò per un cinema severo, spogliato di qualsiasi orpello commerciale, ispirato alla lezione di Ozu Yasujirü e di Robert Bresson, e per questo di non facile diffusione. Tra i suoi film si ricordano Uski roti (1969, Il suo pane), ritratto di una moglie, Duvidha (1973, Indecisione), da un racconto tradizionale indiano, Satah se uthata admi (1980, Emergendo dalla superficie) che riflette sul rapporto tra cinema e linguaggio verbale.
    Il nuovo cinema fu legato in gran parte ai finanziamenti della Film Finance Corporation (1960), che dal 1968 si dedicò interamente alla promozione dei giovani autori. Tra di essi da citare ancora Govindan Aravindan (Kanchana Seeta, 1977, La Sita d’oro, moderna trasposizione del Ràmàyaîa), Girish Raghunath Karnad (Kaadu, 1973, La foresta; Ondanondu kaladalli, 1978, C’era una volta), Basu Chatterjee (Piya ka ghar, 1971, La casa del marito). Un posto a parte spetta a Shyam Benegal, dedito a un cinema di ampio impatto popolare e minor rigore autoriale, ricco di opere impegnate su temi sociali come l’oppressione della donna (Bhumika, 1976, Il ruolo; Kondura, 1977, Il talismano), i problemi della classe contadina (Ankur, 1973, Il germoglio; Nishant, 1975, L’alba), la corruzione dei ceti industriali urbanizzati (Kalyug, 1980).
    Gli anni Settanta, tuttavia, furono dominati da un altro regista bengalese che, dopo Ray, è considerato il più autorevole del cinema nazionale: Mrinal Sen, autore dalla carriera irregolare, iniziata negli anni Cinquanta e segnata, nel 1969, da un’opera cardine come Bhuvan Shome (Il signor Shome) che diede l’avvio alla nouvelle vague indiana. Con la ‘trilogia di Calcutta’ (Interview, 1970; Calcutta ’71, 1972; Padatik, 1973, Il guerrigliero), Sen affronta i problemi della disoccupazione e della miseria ispirandosi a B. Brecht e a Jean-Luc Godard. Anche i film successivi sono aperte denunce della miseria del Paese, dei problemi dell’urbanizzazione, dell’ipocrisia delle classi borghesi e dei retaggi feudali nell’I. coeva. Tra questi film, tutti segnati da una riflessione sottile sull’arte del cinema, si ricordano Chorus (1974), Mrigaya (1976, La caccia reale), Oka oorie katha (1977, Storia di villaggio), Chaalchitra (1981, Caleidoscopio), Khandhar (1983, Le rovine), il film televisivo Tasveer apni apni (1984, Detto francamente), Genesis (1986). Originario del Bengala è anche Buddhadev Dasgupta, intellettuale di formazione marxista (prima di dedicarsi al cinema insegnava economia all’università di Calcutta) che nel 1978 firmò la sua opera prima, Dooratwa (La lontananza), dimostrando quella notevole sensibilità artistica che lo porterà, venti anni dopo, a conquistarsi l’apprezzamento della critica occidentale.
    Gli anni Ottanta hanno visto l’affermarsi di nuovi talenti come Ketan Metha (Bhavni bhavai, 1980, Una storia di cantastorie), Govind Nihalani (Aakrosh, 1980, Rabbia) e Akhtar Saeed Mirza (Albert Pinto ko gussa kyon aata hai, 1980, Cosa fa andare in collera Albert Pinto), sempre più orientati verso un cinema capace di recuperare forme d’intrattenimento popolare. Vanno infine segnalati alcuni film indiani che hanno riscosso successo di critica nei festival internazionali: Ekti jiban (1990, Ritratto di una vita) di Raja Mitra; Salaam Bombay (1988; Salaam Bombay!) di Mira Nair, uscito con successo anche sugli schermi italiani; Ganashatru (1989, Un nemico del popolo) di S. Ray – che per tutti gli anni Settanta e Ottanta aveva continuato a realizzare opere di valore come Aranyer din ratri (1969, Giorni e notti nella foresta), Jana aranya (1975, L’intermediario), Ghare baire (1984, La casa e il mondo), e il cui ultimo titolo è Agantuk (1991, Lo straniero) – e infine l’eccellente Ek din achanak (1988, Improvvisamente un giorno) di M. Sen, partecipata riflessione sui veri valori della vita, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1989.


    Le tendenze recenti



    Negli anni Novanta vi è stato un notevole sviluppo dei film in lingua telugu, tamil, malayàlam, kannaÿa (circa il 60% della produzione globale), mentre il numero dei biglietti venduti si è attestato sui cinque miliardi annui. Di recente la distinzione tra cinema ‘parallelo’ e cinema ‘popolare’, ossia tra il cinema d’autore e quello commerciale, si è attenuata fino quasi a scomparire. Il termine Bollywood, con cui si è usato indicare il cinema commerciale in lingua hindi prodotto a Bombay, considerato da molti uno stereotipo negativo, ha dovuto la sua popolarità a una formula che amalgama melodramma, commedia, azione e soprattutto canzoni e coreografie. Tali film di consumo, popolati da eroi positivi, belle e virtuose eroine e venali ‘cattivi’, comprimono e proiettano le fantasie collettive, riproponendo, in forma semplificata, lo scontro tra il bene e il male, tra dei e demoni, presente nella mitologia indù. Il pubblico di questi film a volte ha raggiunto, in una settimana, i 70 milioni di spettatori, come nel caso di due campioni d’incassi degli anni Settanta: Sholay (1975, Fiamma) di Ramesh Sippy, un melodramma-western proiettato per cinque anni di seguito nei cinema di Mumbai, e Amar Akbar Antony (1977) di Manmohan Desai, storia di tre fratelli, separati dalla nascita, che si ritrovano adulti dopo aver adottato tre differenti religioni. In entrambi i film recita la superstar Amitabh Bachchan, divenuto l’indiscusso protagonista del cinema popolare hindi dei tre decenni successivi, con più di 120 film al suo attivo. Tra i successi più recenti, va ricordato Hum aapke hain kaun…! (1994) di Sooraj Barjatya, noto anche come Who am I to you?,scene di un matrimonio in un Paese che non vuole distaccarsi dai valori tradizionali, storia d’amore senza conflitti che ha come protagonista femminile Ma-dhuri Dixit, diva adorata da milioni di indiani.
    Negli anni Novanta l’I. ha vissuto, parallelamente a un rallentamento della crescita demografica, un rapido cambiamento culturale, dovuto anche all’apertura economica al mercato mondiale, con una forte crescita della televisione, anche via cavo e satellitare e l’arrivo di Internet. Nelle grandi città è emersa, insieme al cambiamento economico-sociale, una insoddisfazione per i contenuti ripetitivi dei film hindi prodotti a Bombay. Ma a fronte di questa richiesta non si è registrata una crescita significativa del cinema d’autore o ‘parallelo’. Mentre il cinema commerciale ha prodotto annualmente nell’ultimo decennio una media di 670-900 film (di cui circa la metà in hindi), la produzione di film d’autore non ha superato la media di 15-20 film. Secondo la più autorevole critica cinematografica indiana, A. Vasudev, la visibilità del cinema d’autore si è ridotta in alcuni casi alle proiezioni in occasione dell’annuale IFFI (International Film Festival of India). L’assenza di sale destinate a un cinema d’autore e di incentivi che ne favoriscano la distribuzione potrebbe aver provocato una disaffezione nel pubblico – eccetto in Kerala e nel Bengala, dove diverse facilitazioni hanno incoraggiato la distribuzione di questi film – segnando così il positivo ingresso di nuovi talenti orientati verso un ‘cinema medio commerciale di qualità’. È il caso di Mani Rathnam, regista leader del nuovo cinema prodotto a Madras, che in Bombay (1995) racconta i massacri ai danni della comunità musulmana della città, avvenuti nel 1992, in seguito alla distruzione della moschea di Ayodhya per opera di fanatici indù. A questa nuova categoria si possono ricondurre Santosh Sivancon The terrorist (1997), film che narra, ancora in lingua tamil, la crisi di una terrorista che all’ultimo momento rinuncia a commettere un attacco suicida contro un’alta personalità politica; Nagesh Kukunoor con Hyderabad blues (1997), commedia su un matrimonio combinato; Ram Gopal Verma, produttore e regista, con Satya (1998, Verità), ritratto del brutale mondo del crimine e dei politici corrotti di Mumbai; Dev Benegal che con il suo secondo film, Split wide open (1999, in lingua inglese e hindi presentato anche alla Mostra del cinema di Venezia), narra le tribolazioni di un ragazzo di strada (Rahul Bose, uno degli attori e registi più interessanti dell’ultima generazione) alla ricerca della sorella dodicenne, intrappolata nel giro della pedofilia di Mumbai.
    Lo stesso cinema indiano più commerciale sembra aver aderito a questa nuova tendenza verso temi più impegnati e controversi – guerra, terrorismo, nazionalismo e conflitti tra comunità religiose – anche attraverso il lancio di nuove star, come Hrithik Roshan, interprete di grandi successi, tra cui Kaho naa…pyaar hai (2000; E dillo… che mi ami) di Rakesh Rosham e Gadar – Ek prem katha (2001, Gadar – Una storia d’amore) di Anil Sharma, storia d’amore ambientata nel 1948, all’epoca del conflitto con il Pakistan e della nuova demarcazione dei confini tra i due Paesi. Sempre al cinema commerciale di qualità appartiene Lagaan – Once upon a time in India, (2001; Lagaan) di Ashutosh Gowariker, film in cui risultano fusi elementi tipici della cultura popolare – il gioco del cricket e il sentimento nazionalista antibritannico – e che ha ricevuto il riconoscimento sia della critica internazionale (la nomination all’Oscar per il miglior film straniero e il premio del pubblico al Festival internazionale di Locarno del 2001) sia del pubblico indiano (grazie anche alla partecipazione della star Aamir Khan, nella duplice veste di protagonista e produttore). Va anche ricordato Devdas (2002) di Sanjay Leela Bhansali, ennesimo adattamento cinematografico di uno dei romanzi più letti di Sarat Chandra Chatopadhye – scritto nel 1917 e portato sullo schermo da una decina di registi di fama, a partire dal 1928 – che si caratterizza per la sontuosa scenografia e la mirabile coreografia con cui viene raccontata l’intensa storia d’amore tra Devdas (interpretato dal popolarissimo Shahrukh Khan) e la sua amica d’infanzia Paro (Aishwarya Rai, eletta miss Mondo nel 2000), premiato come miglior film straniero dal BFTA (British Academy Film and Television Awards).
    Con il terzo millennio sono tornati sulla scena anche molti degli autori che avevano animato il cinema ‘parallelo’ degli anni Settanta e Ottanta. Alla Mostra del cinema di Venezia il bengalese B. Dasgupta ha vinto il premio come miglior regista con Uttara (1999), storia controversa di una donna isolata dal mondo maschilista, cui fanno da sfondo i conflitti etnico-religiosi fomentati dai fanatici indù. Autore di grande talento si è rivelato anche il bengalese Gautam Ghose con Dekha (2001, Percezioni), che ripercorre su molteplici piani narrativi la vita di un vecchio intellettuale di Calcutta, alle prese con la trasformazione della società bengalese, avvalendosi dell’interpretazione di Soumitra Chatterjee (protagonista di molti film di S. Ray). Zubeidaa (2001) di S. Benegal ha segnato il ritorno di un pioniere della nouvelle vague indiana al formato tradizionale del cinema storico-popolare; con un cast di star e le musiche di Allah Rakha Rahman, il compositore più innovativo e popolare dell’ultimo decennio.
    Alla cinematografia bengalese appartengono anche Aparna Sen, che, dopo il famoso 36 Chowrighee Lane (1981, in lingua inglese), ha diretto Mr. Mrs. Iye (2002, in lingua inglese), raccontando un viaggio attraverso i recenti conflitti tra indù e musulmani, e il decano del cinema d’autore, M. Sen, che nel 2002 ha firmato Aamar bhuvan (2002, La mia terra, in lingua hindi), storia di una donna (interpretata da Nandita Das) divisa tra due uomini in un villaggio del Bengala. Nello stesso anno è uscito anche Dweepa (L’isola) di Girish Kasaravalli, regista proveniente dal Karnataka e cresciuto con la new wave degli anni Settanta (nel 1977 aveva firmato Ghatasharaddha, Il rituale, considerata una delle migliori opere della storia del cinema indiano); il film, in lingua kannaÿa, premiato come migliore opera indiana del 2002, tocca in modo nuovo e intelligente temi quali la modernizzazione, la globalizzazione e lo sviluppo, raccontando la costruzione di una diga dal punto di vista di una famiglia il cui villaggio verrà sommerso dalle acque. All’esplorazione del recente passato sono invece rivolte due opere del 2002: Kannathil muthamittal (Un bacio sulla guancia) di Mani Ratman, regista della nuova generazione che rilegge, in lingua tamil, la storia dello Sri Lanka, Paese devastato da una ventennale guerra civile, attraverso gli occhi di una bambina srilankese adottata da una famiglia indiana; e Manda meyer upakhyan (2002, Storia di una cattiva ragazza, presentato al Festival di Berlino del 2003) di B. Dasgupta, che prende spunto dal viaggio del primo astronauta sulla Luna per raccontare poeticamente altri viaggi, con differenti destinazioni, e in particolare l’emancipazione di una bambina che vive con la madre prostituta in un bordello.
    Anche il già ricordato A. Gopalakrishnan, che resta una delle personalità più importanti del cinema d’autore del Kerala, ha continuato a produrre opere di rilievo, tra cui Nizhalkkuthu (2002, Ombre oscure), film ambientato nell’India non ancora indipendente, in un villaggio di frontiera, dove un boia è costretto a confrontarsi con un’ultima esecuzione d’impiccagione che sconvolgerà la sua coscienza. Tra i giovani autori di maggior talento occorre anche menzionare Revathy Asha Menon (Mitr my friend, 2001, in lingua inglese), Madhur Bhandarkar (Chandni bar, 2001, in lingua hindi),T.V. Chandran (Dany, 2002, in lingua malayàlam), il giovane regista Anup Singh (Ekti nadir naam, 2002, Il nome di un fiume, omaggio in lingua bengalese al cinema del regista R.K. Ghatak) e Jahnu Barua (Konikar ramdhenu, 2002, A cavallo dell’arcobaleno, in lingua assamese). Dal Kerala proviene anche Shaji Narayanan Karun, regista che dopo essersi segnalato con il suo film d’esordio, Piravi (1988), presentato in molti festival internazionali, ha realizzato nel 2002 la sua prima opera in lingua hindi, Nishad. In lingua telugu (Andhra Pradesh) sono invece i film del critico cinematografico K.N.T. Sastry, passato alla regia con Tiladaanam (2001, Il sacrificio)e di Anjan Das, regista di Saanjhbathir Roopkathara (2002, Tratti e silhouettes), con Soumitra Chatterjee nel ruolo di protagonista.
    Infine non va dimenticato il cinema indiano realizzato da registi non residenti in I., in cui spiccano tre donne: Mira Nair, originaria del Punjab e residente negli Stati Uniti, che ha confermato il successo di Salaam Bombay con il più recente Monsoon wedding (2001),divertente commedia matrimoniale ambientata nella borghesia di New Delhi (il film è stato premiato con il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia); Deepa Mehta, naturalizzata cittadina canadese, regista che dopo il successo internazionale con Fire, opera che ha dato luogo a molte controversie quando è stata presentata all’IFFI nel 1997 (ha dovuto attendere quattordici premi internazionali e due anni prima di essere distribuita nelle sale indiane, in quanto racconta una relazione lesbica, interpretata con grande efficacia da due attrici di talento, la nota Shabana Azmi e la giovane Nandita Das) ha offerto altre prove convincenti con Earth (1998), e Bollywood-Hollywood (2002), parodia del mondo del cinema dei due continenti; nel 2000 aveva inoltre iniziato le riprese di Water, interrotte per le proteste degli indù. E infine Gurinder Chadha, regista nata in Kenya ma di origine panjàbê, residente in Gran Bretagna e nota per il suo primo road movie, Bhaji on the beach (1993; Picnic alla spiaggia), che ha raggiunto il successo internazionale con Bend it like Beckham (2002; Sognando Beckham) presentato con successo anche nelle sale italiane.

    Questo paragrafo appena concluso non è stato altro che un assaggio di quello che andremo ad esaminare a fondo tra poco e in questi giorni, iniziamo proprio con i pionieri e le origini di questo cinema tanto affascinante quanto poco conosciuto ;)

    CAPITOLO 2: LA STORIA DEL CINEMA INDIANO



    L’era del muto (1896-1930) - PARTE PRIMA



    Alla fine del XIX secolo in India si mostrava un grande interesse per ogni nuova invenzione, in particolare per la fotografia, anche se la sua pratica era appannaggio di una élite progressista, occidentalizzata e benestante. Tra le classi popolari era invece diffuso un tipo di spettacolo, detto Shambarik Kharolika – ideato nel 1894 da alcuni artisti artigiani di Pune, Patwardhan e i suoi figli - derivante dall’antica arte dei cantastorie che illustravano con la poesia e la musica dei dipinti di soggetto storico-religioso. In sostanza, lo Shambarik Kharolika era del tutto simile all’antesignano del Cinema.: la Lanterna Magica.
    “The Marvel of the Century”, così The Times of India commentava lo stupore suscitato negli spettatori dalla proiezione dei filmati dei fratelli Lumière, svoltasi il 7 luglio del 1896 presso il Watson’s Hotel di Bombay. I documentari provenienti dalla Francia erano stati presentati per la prima volta a un pubblico indiano da Maurice Sestier, operatore dei Lumière, in giro per il mondo per far conoscere le “fotografie animate” dei due inventori parigini. Erano trascorsi solo sette mesi dalla prima apparizione a Parigi, il 28 dicembre 1895, di quella grande novità tecnico artistica. In quell’occasione Clément Maurice, “concessionario del Cinematografo Lumière per Parigi e zone limitrofe”, adattò e fece arredare come un divan oriental il sotterraneo del Grand Cafè dell’Hotel Scribe del Boulevard des Capucines, battezzandolo, quasi profeticamente, Salon Indien: infatti, oggi il Cinema indiano, almeno dal punto di vista quantitativo, è il più importante del mondo.

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    Gli effetti dello spettacolo del Watson’s Hotel furono quasi immediati. Harishchandra Sakharam Bhatavdekar (1868-?), detto Save Dada, titolare di uno studio fotografico, intuì le potenzialità del nuovo mezzo visivo e dal 1899, con The Wrestler e Man and Monkey, inizia la sua attività documentaristica i cui titoli più rappresentativi sono: Return of Wrangler Paranjpye (1901), sul rientro in patria del Ministro della Cultura della Presidenza di Bombay, Raghunath Paranjpye, noto matematico che aveva ottenuto i massimi riconoscimenti universitari a Cambridge, e Delhi Durbar of Lord Curzon (1903), in cui si documenta il Durbar (Udienza pubblica) indetto dal Governatore Generale britannico, George Curzon, per l’incoronazione in India di Edoardo VII.
    Nello stesso periodo, nel Bengala il Cinema attrae Motilal e Hiralal Sen (1866-1917), i quali, dopo aver costituito la Royal Bioscop Company, oltre a riprese documentaristiche e d’attualità – ad esempio Moving Pictures of Natural Scenes and Religious Rituals (1899), Indian Life and Scenes (1903), The Bengal Partition Film (1905) e Grand Delhi Coronation and Durbar (1912) – iniziano a proporre film che riprendono dal vivo spettacoli di teatro e danza, quali Dancing Scenes from the Flowers of Persia (1898)e Scenes from Alibaba (1901).
    Ai filmati dei Lumière si aggiunsero quasi subito quelli di Georges Méliés, presto seguiti da ondate continue di prodotti cinematografici provenienti dall’Inghilterra, dall’America, dalla Francia, dalla Germania, dalla Danimarca e anche dall’Italia. Tuttavia, tali opere descrivevano un mondo estraneo e poco noto alla maggioranza degli indiani: era necessario proporre storie che fossero radicate nella realtà del Paese, capaci cioè di coinvolgere emotivamente il pubblico. I punti di riferimento della nascente cinematografia indiana furono, di conseguenza, le forme popolari e regionali di rappresentazione: il jatra (del Bengala), il tamasha, il talim e il lavani (del Maharashtra), il nautanki (dell’India centrale)e lo yakshagana (del Karnataka e, in generale, di tutto il Sud del Paese). I soggetti erano ricavati, prevalentemente, dalle mitologie del Mahabharata, del Ramayana e dei Purana - poemi epico religiosi e testi sacri della tradizione - o da episodi della vita del dio Krishna, oppure da quelle dei santi e dei devoti. Tali storie, note a tutte le genti dell’India, erano spesso proposte nelle versioni del teatro parsi, nato nella metà del XIX secolo per iniziativa delle comunità parsi - i seguaci di Zoroastro scappati dalla Persia nell’VIII secolo e rifugiatisi in India - i cui soggetti spaziavano dal genere storico al melodramma, dalla mitologia agli adattamenti del teatro elisabettiano. Altri spunti erano forniti dall’epopea dei Rajput, gli indomiti guerrieri del Rajasthan, e da avvenimenti notevoli accaduti durante l’impero Moghul (1526-1858). Altri film avevano temi moderni, con particolare attenzione al messaggio “sociale” e politico delle storie narrate. Solo una ristretta minoranza di tale produzione aveva per riferimento i consueti “generi occidentali”. In sintesi, queste scelte narrative ed estetiche erano una affermazione dell’identità del Paese e una manifestazione del proprio orgoglio culturale, oltre ad essere una celebrazione della ricchezza e della profondità dell’eredità classica della Nazione. Ancora oggi i punti di riferimento base di buona parte della cinematografia indiana rimangono quelli stabiliti dai pionieri dell’Età del Muto.
    Agli inizi del Novecento le proiezioni erano spesso effettuate nei maidan, campi sportivi e parchi pubblici. Tra i primi ad organizzare tali spettacoli si annoverano due italiani, Colorello e Cornaglia, che nel 1898 allestivano le loro tende nell’Azad Maidan di Bombay. Vi erano inoltre delle compagnie itineranti che percorrevano tutto il sub continente per portare la Meraviglia del Secolo nei villaggi. Le prime sale cinematografiche stabili furono quelle di Bombay nel 1896, di Calcutta nel 1898, il Novelty Theatre, e di Madras nel 1900, il Gaiety. Come in Occidente, anche in India si era soliti accompagnare le immagini con un commento musicale dal vivo. Alcuni cinematografi avevano una zona destinata alle sole donne, per ottemperare alle consuetudini induiste e musulmane del purdah (o parda, lett. “cortina”) e della zenana.
    Il primo cortometraggio di finzione narrativa, Bhakta Pundalik, fu proiettato a Bombay il 18 maggio 1912. Attribuito a Ram Gopal Torney (Torne), fu realizzato, più probabilmente, da Nanabhai Govind Chitre, gestore del Coronation Cinematograph di Bombay, e da P.R. Tipnis, distributore cinematografico di Delhi. Pundalik, la vita dell’omonimo santo hindu venerato nel Maharashtra, era un adattamento cinematografico di 45’ di un opera teatrale di Ramrao Kirtiker, messo in scena dalla Shipad Sangit Mandali di Nasik.
    Il primo film considerato completamente indiano fu però proiettato il 21 aprile e il 3 maggio 1913 a Bombay: Raja Harishchandra, prodotto, scritto, filmato e diretto da Dundhraj Govind Phalke (1870-1944), noto come Dada Saheb Phalke, considerato il padre fondatore dell’industria cinematografica indiana. Phalke apparteneva ad una erudita famiglia di brahmani (sacerdoti) ed era estremamente eclettico e determinato. Studiò ogni tipo di arte, in particolare l’architettura, per poi dedicarsi alla fotografia e, con lo pseudonimo di Professor Kelpha, ai giochi di prestigio e alla magia. Effettuò anche viaggi di specializzazione in Germania e Inghilterra. Nel 1910 (o nel 1911) rimase impressionato da La Vita di Cristo, della regista francese Alice Guy. Essendo un fervente patriota aderente al movimento nazionalista swadeshi (swa=proprio e deshi=del paese), dopo aver fondato la Phalke’s Films, decide di trasporre in pellicola le vicende degli dei e le gesta degli eroi della mitologia indiana. La storia di Harishchandra, che rinuncia al suo regno per amore della Verità, è infatti uno degli episodi più celebri del Mahabharata ed è narrata nel Markandeya Purana e nello Yogavasishta. Il film, girato a Varanasi con attori non professionisti e della durata di due ore, ebbe un successo clamoroso. Raja Harishchandra era costruito in base a un lessico cinematografico che aveva per riferimento visivo le oleografie di Raja Ravi Varma (1848-1906), un membro della dinastia regnante nello stato di Travancore, il quale si era ispirato alla pittura vittoriana, filtrata dall’arte popolare autoctona. Phalke per tutta la durata della sua carriera continuerà a proporre soggetti mitologici e devozionali: Mohini Basmasur (1914), in cui per la prima volta compaiono due donne, Kamalabai Gokhle e la madre Durgabai (in Raja Harishchandra il ruolo femminile era stato interpretato da Annà Salunke, un giovane cuoco), Satyavan Savitri (1914), Lanka dahan (Il rogo di Lanka, 1917), tratto dal Ramayana, Satyavadi Raja Harishchandra (1917, remake del film del 1913), Shri Krishna janma (La nascita di Krishna, 1918), Kalya mardan (L’annientamento del serpente Kalya, 1919), Sant Tukaram (1921), Sant Namdev (1922), Sant Eknath (1926) e Bhakta Pralad (1926).


    L’era del muto (1896-1930) - PARTE SECONDA



    Nel 1818 Phalke aveva già fondato a Nasik la Hindustan Film Company e gli era stato anche proposto di lavorare all’estero. Phalke preferì rimanere in patria, dove produsse e diresse quarantaquattro film, tra cui l’importante documentario didattico How Films Are Prepared (1917). Tuttavia, con il passare degli anni la sua attività venne dimenticata, anche se oggi il maggior riconoscimento cinematografico indiano porta il suo nome.
    L’opera prima di Phalke fece nascere anche il primo film bengalese, Satiawadi Raja Harishchandra (1917), diretto da Rustomji Dotiwali e prodotto da Jamshedji Framji Madan, fondatore nel 1919 della potentissima Casa Cinematografica Madan Theatres. E’ di nuovo la mitologia a ispirare il secondo film del Bengala, Ram Vanvas (L’esilio di Rama, 1918), il primo esempio di serial in quanto formato da quattro parti, per la regia di Ram Patankar.


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    L’anno successivo appare un altro filmato di soggetto religioso, Bilwamangal, anche questo per la regia di Dotiwale. Nel 1920 la Madan propone ancora una storia epico-religiosa tratta dal Mahabharata, Nala Damayanti, affidando la regia all’italiano Eugenio De Liguoro. Tuttavia, sempre nel Bengala, iniziano ad apparire film meno “convenzionali”, come Bilet Pherat (1921) di Nitish Lahiri, una satira sociale sugli indiani che imitavano le abitudini inglesi. Bilet Pherat vede per protagonista Dhiren Ganguly (1893-1978), autore, nel 1922, di Razia Begum, che pur essendo di genere storico, tratta per la prima volta dei rapporti conflittuali tra induisti e musulmani: il film fu censurato e ne fu proibita l’uscita nelle Sale. E’ ancora la Madan Theatres ad iniziare le coproduzioni, ed esattamente con la Cines di Roma. Savitri (1923) fu realizzato a Roma con attori italiani, sceneggiato e diretto da Giorgio Mannini, e tratto, si dice, da un’opera dell’indologo Angelo De Gubernatis, adattata per lo schermo da Ferdinando Paolini e Aldo De Benedetto.
    Nel Sud, il primo film, Keechaka vadhan, di R. Nataraja Mudaliar, giunge nelle sale nel 1916: anche in questo caso si tratta di una storia derivante dal Mahabharata. Un'altra opera notevole appare nel Sud nel 1921, Valli Thiru Manam di Whittacker.
    Altro Maestro dell’Era del Cinema Muto è Baburao Krishnarao Mestri (1890-1954), noto come Baburao Painter in quanto pittore e scultore professionista prima di intraprendere la carriera cinematografica. Dopo aver visto Raja Harishchandra, fonda la Kolhapur Maharashtra Film Company e realizza nel 1920 Sairandhri, come di consueto una storia tratta dal Mahabharata, ma con allusioni alla realtà del tempo. Nel 1923 e nel ’24 Baburao Painter si cimenta nel genere storico con le gesta di Shivaji, il re Maratha che si era opposto al potere Moghul nel XVIII secolo, realizzando Sinhagad e Kalyan Kazana, due film che possono essere considerati dei veri e propri Kolossal per quell’epoca e che inoltre alludono alla lotta per l’Indipendenza del popolo indiano. Sempre del 1924 Sati Padmini, altro film storico-patriottico sul suicidio di massa delle donne di Chittor dopo la conquista della fortezza rajput da parte dei Moghul. Ma l’opera più significativa di Baburao Painter è senza dubbio Savkari Pash (An Indian Shylock, lett. Il laccio dell’usuraio, 1925) considerato il primo film indiano realista e paragonato da tutti i critici a Greed (1924) di Erich von Stroheim. In questo caso Baburao introduce il tema del conflitto tra il contadino “buono” e il cittadino cinico privo di valori etici, un tema tuttora in auge presso una parte della cinematografia indiana. Inoltre, allo stresso maestro si deve il merito di aver migliorato il metodo di regia e le tecniche di ripresa, oltre ad aver introdotto l’uso delle luci per filmare gli interni.
    Alla fine dell’Era del Muto fa i suoi primi passi nel mondo del Cinema uno dei personaggi più significativi della cinematografia indiana: Himansu Rai (1892-1940), il futuro fondatore, nel 1934, della leggendaria Casa di Produzione Bombay Talkies. Laureato in Legge a Calcutta, Rai si trasferisce a Londra dove esercita la sua professione, dedicandosi però anche alla recitazione e alla consulenza per film di soggetto “orientale”. In tale veste riesce a concludere una vantaggiosa intesa di coproduzione con gli Emelka Studios di Monaco. Con Franz Osten realizza nel 1925 Prem Sanyas (The Light of Asia) da una sceneggiatura di Nirajan Pal, basata sul poema del 1861 di Edwin Arnold. Prem Sanyas, la vita del Buddha (interpretato da Rai) narrata da un sadhu (asceta) a dei turisti occidentali, riscosse un grande successo anche in Europa. Sempre con Osten alla regia, Rai realizza nel 1928 Shiraz, ispirato alla storia del Taj Mahal, e nel 1929 Prapancha Pash, da un episodio del Mahabharata, in cui furono utilizzate più di 10.000 comparse, grazie all’aiuto dei maharaja di Jaipur, Udaipur e Mysore.
    Intorno agli anni venti le produzioni indiane, concentrate come oggi a Bombay (Mumbai), Calcutta (Kolkata) e Madras (Chennai), erano diventate dei veri giganti che adottavano i metodi produttivi americani, comprendenti lo studio system e lo star system hollywoodiani. Tra le tante stelle amate dal pubblico dell’epoca, da menzionare: Sulochana (l’ebrea eurasiatica Ruby Myers) sempre in coppia con l’attore Dinshaw Bilimoria, Kayoum Mamajiwala Gohar, Zebunissa, le sorelle Sultana e Zubeida, a loro volta sorelle della produttrice, regista e attrice Fatma Begum, Sita Devi, l’anglo indiana Patience Cooper e Rajaram Vankudre Shantaram, il quale, con l’avvento del sonoro, diverrà anche regista e produttore.
    Il Cinema indiano ebbe quindi uno sviluppo straordinario: già nel 1926 si produssero più di cento film. I provvedimenti della Censura, istituita nel 1918 mediante l’Indian Cinematographic Act, favorirono, forse inconsapevolmente, questa crescita straordinaria. Infatti, furono proibiti quasi tutti i film occidentali perché accusati di proporre modelli di vita che avrebbero potuto corrompere i costumi tradizionali. La loro importazione fu ridotta ad una quota del 7,5 % dell’intera distribuzione nazionale. Recentemente il National Film Archive of India ha stimato in 1313 il numero di film prodotti in India nei 22 anni dell’Era del Cinema Muto, di cui ne sono sopravvissuti soltanto quindici. Tra di essi, una parte di Satiavadi Raja Harishchandra, le tre opere menzionate di Himansu Rai e Franz Osten e, unico film bengalese, Jamai Babu (Figlio innamorato, 1931), diretto da Kalipada Das, il quale interpreta un personaggio simile a Chaplin, ma in versione indiana.

    Per le notizie si ringrazia SITO UFFICIALE DELL' ENCICLOPEDIA TRECCANI

    Fine della prima parte! :woot: A domani per la seconda e interessantissima parteù!!! ;)

    Edited by shinji80 - 30/9/2007, 22:37
     
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25 replies since 30/9/2007, 21:10   2782 views
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