STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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  1. shinji80
     
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    Ma quanto materiale sul cinema indiano! :o: :o:

    Gli autori del Sud – PARTE TERZA



    Il Sud dell’India comprende l’Andhra Pradesh, dove la lingua ufficiale è il telegu (o telugu), il Tamil Nadu, in cui si parla tamil, mentre dalla parte opposta si trova il Kerala, il cui linguaggio è il malayalam. Al centro di questi Stati è situato il Karnataka, dove ci si esprime in kannada (ossia kannar) e, con poca frequenza, in tulu. Tra gli anni ’70 e ’80 gli ultimi due Stati menzionati sono stati all’avanguardia nel Cinema d’autore.
    I registi considerati innovatori del linguaggio cinematografico del Kerala, definiti ormai autori “classici”, sono Ramu Kariat e P. Bhaskaram. Ramu Kariat (1927-1979) era nato a Egandiypur in una famiglia contadina. Da giovane si era dedicato alla poesia e scriveva per il settimanale Mathrubhoomi. Assistente alla regia di Vimal Kumar e di P.R.S. Pillai, Kariat ha realizzato quindici film, di cui due ultimati da altri registi, e due documentari (Bharata Natyam del 1956 e My village del 1973), è stato anche produttore e per un breve periodo di tempo deputato del Parlamento del Kerala. Il suo primo film, Neelakuyil (1954), co-diretto con Bhaskaram e con sceneggiatura di Uroop (P.C. Kuttikrishnan), segna l’inizio di un cinema neo-realista indipendente influenzato dal People’s Art Club, movimento e circolo letterario cui aderivano i migliori scrittori del Kerala, a sua volta legato all’IPTA. Il film è un melodramma il cui tema di fondo è il superamento delle barriere tra le classi sociali. Neeli, una ragazza “fuori casta”, viene trovata morta con accanto il figlio illegittimo. Con la disapprovazione di tutto il villaggio l’orfano è adottato da un membro di alta casta. Alle fine, il padre naturale del bambino, anche lui appartenente ad una casta elevata, lo riconosce. Altro melodramma a lieto fine, importante per l’evoluzione del cinema indipendente malayalam, che però non ottenne gli stessi risultati lusinghieri dell’opera prima del duo Kariat-Bhaskaran, è Minnaminungu (1957), storia dell’orfana Ammini. Mudiyanaya Puthran (Il figliòl prodigo, 1961) è la storia di un uomo che disprezza la società ma che si riconcilierà con il mondo grazie all’amore di una ragazza “fuori casta” e all’amicizia con degli operai. Pure Moodupadam (1963) è un film di qualità notevole. In questo caso la vicenda narrata auspica una intesa tra le tre religioni maggiormente diffuse nel Kerala (induismo, cristianesimo e islamismo). L’opera più apprezzata di Kariat è Chemmeen (Il gambero, 1965), primo film del Sud dell’India a vincere un premio nazionale, adattamento cinematografico di un famoso racconto a sfondo mistico di Thakazhy Shivashankar Pillai, che nel 1980 ebbe anche una versione in hindi, Chemmeen Lahren. Secondo una antica leggenda, Kadalamma, la dea del mare, concede l’abbondanza della pesca e la sicurezza dei pescatori qualora le donne delle loro famiglie mantengano la castità quando i loro uomini sono in mare. Infatti, un pescatore morirà inghiottito da un gorgo mentre sta lottando con un pescecane perché la moglie ha rincontrato l’uomo che non aveva potuto sposare in quanto di fede musulmana. In senso lato, Chemmeen descrive la battaglia di una comunità di pescatori contro le forze della natura e alterna i toni realistici a quelli epici e del melodramma. Chemmeen incontrò non solo il favore della Critica ma ottenne un grande successo presso il pubblico, grazie anche al cast eccellente (Sathyan, Madhu e Kottarakkara Nair), alla fotografia di Marcus Bartley, al montaggio di Hrishikesh Mukherjee e alle musiche di Salil Chaudhury. Infine, tra le opere comprese nella filmografia di Kariat è da segnalare Ezhu Rathrikal (Sette notti, 1968), una parabola sociale che si configura mediante la storia di alcuni emarginati costretti ogni notte a trovare riparo in un vecchio palazzo in rovina.
    P. Bhaskaram, nato nel 1924 a Kodungallour, poeta e autore di più di tremila canzoni in malayalam, ha lavorato per lungo tempo come giornalista in quotidiani e riviste ed è stato attivo nel mondo del Cinema fino al 1991 (la sua filmografia comprende un numero impressionante di titoli), successivamente si è dedicato alla televisione. Dopo Neelakuyil, Bhaskaran dirige da solo Rarichan Enna Pauran (Il cittadino Rarichan, 1956), un film di tono neo-realista su un piccolo orfano che ruba per consentire il matrimonio della figlia della sua benefattrice. Del 1967 Anveshichu Kandethiyilla (Ho cercato ma non ho trovato) su un’infermiera in cerca della felicità personale che invece riesce a realizzarsi dedicandosi ai suoi pazienti. Nello stesso anno, basandosi su un racconto di Vasudevan Nair, Bhaskaran realizza Irutinte Atmavu (L’anima delle Tenebre), con il grande attore Prem Nazir, un dramma sulla follia che si svolge nel contesto ancora feudale dei proprietari terrieri del Kerala. Altro film da segnalare è Thurakatha Vathil (La porta chiusa, 1970), un melodramma sentimentale su un ragazzo che si sacrifica per il bene della sorella. Da osservare che i primi film di Bhaskaram hanno un carattere spiccatamente naturalista, mentre in seguito il regista si orienta verso melodrammi a sfondo sociale e sentimentale per approdare infine ai tradizionali film mitologici e sulle vite dei santi come in Srimadh Bhagavad Geeta (1976) e Jagadguru Adi Shankaran (1977).
    Tra i tanti talenti cinematografici del Kerala, Govindan Aravindan (1935-1991) è considerato un autentico Maestro. Originario di Kottayam, il padre, Govindan Nair, era un apprezzato scrittore satirico. Aravindan era nato come pittore e come disegnatore di fumetti per la rivista Mathrubhoomi. Le sue vignette della serie Cheriyamanushyanum Valiyalokavum (Il Piccolo Uomo e il Grande Mondo), che hanno per protagonista l’ingenuo e idealista Ramu, sono note in tutta l’India. Aravindan aveva inoltre un grande talento per la composizione musicale, sia nella forma carnatica del Sud che nello stile del khayal del Nord. Infatti, fu autore di numerose colonne sonore di successo. In campo cinematografico fu un autodidatta e tutti i suoi film, enigmatici, astratti ed austeri, si distinguono per l’interesse per la natura, per la parsimonia dei dialoghi, per la predilezione dei Campi Lunghi e per un uso pittorico delle sfumature del bianco e del nero. Definito un filosofo e un poeta, Aravindan con il suo atteggiamento panteista e umanista aveva una visione lirica e spiritualista della realtà, una visione che aveva le sue radici nella tradizione religiosa indiana. La sua filmografia comprende undici lungometraggi, quattro documentari, due cortometraggi e un film televisivo. Sollecitato dagli amici, Aravindan esordì nella regia con Uttarayanam (Solstizio d’estate, 1974). Nel film, Ravi, appartenente ad una famiglia che ha lottato contro il colonialismo, vede decadere tutti i valori propugnati dall’Indipendenza. Dopo reiterati insuccessi nella ricerca di un lavoro, il ragazzo abbandona fidanzata, parenti e amici per ritirarsi tra le montagne dove incontra una donna anziana che sembra essere l’incarnazione dell’innocenza primordiale. Infine, Ravi dovrà scegliere se tornare nel mondo degli uomini e lottare per una società migliore o rinunciare a tutto e divenire un asceta. Nel film non viene mostrata la soluzione del suo dilemma. Con Kanchana Sita (La dorata Sita, 1977), tratto da una piece teatrale di C.N. Sreekantan Nair, a sua volta basata su un episodio del Ramayana, Aravindan propone una sua visione del genere cinematografico “mitologico” sviluppando il tema della rettitudine morale di Rama. Si tratta di un film non realista, quasi privo di dialoghi, con attori non professionisti - in gran parte appartenenti alla tribù dei Ramachanchus dell’Andhra Pradesh, i quali si dicono discendenti di Rama - dove Sita, il personaggio principale che simbolizza la natura, non appare mai. Thampu (Il tendone del circo, 1978) è realizzato con lo stile semidocumentaristico del cinema verite. Il fulcro della storia è appunto l’installazione di un tendone di un circo giunto in un piccolo villaggio, fatto che costituisce una grande novità per tutti gli abitanti. Il film preferito di Aravindan era Kummatty (L’Orco, 1979), derivante da una fiaba, su un tipo di personaggio molto noto nel Kerala: il mago itinerante che spaventa e nello stesso tempo affascina i bambini. Un piccolo film - 90 minuti, una durata irrisoria per una pellicola indiana - che dietro la sua semplicità nasconde significati più reconditi. Un Kummatty giunge in un villaggio e delizia i bambini con le sue magie, la sua musica e le sue storie. Prima di riprendere il viaggio il mago vuole stupire e divertire con un ultimo trucco il suo piccolo pubblico: trasforma i bambini in animali per poi ridar loro la forma umana. Accade però che si dimentichi di restituire le sue sembianze ad uno di essi che per un intero anno dovrà attendere sotto forma di cane bastardo il ritorno del Kummatty per poter ritornare bambino. Una volta riacquistata la forma umana, il bambino correrà immediatamente a liberare il suo pappagallo dalla gabbia in cui è rinchiuso. Dello stesso anno Estheppan (Stefano) che è stato definito un film affascinante ma molto strano. In effetti, è pressoché impossibile sintetizzarne correttamente la trama in quanto non segue alcuna regola narrativa conosciuta. Comunque, il tutto ruota intorno a Estheppan, un individuo misterioso simile a Kummatty, che vive in un villaggio di pescatori cristiani. Estheppan è capace di compiere ogni genere di prodigio e la gente è convinta che sia in vita da parecchi secoli. Un film decisamente singolare, il cui tema centrale è certamente il misticismo, che si conclude con un miracolo che sembra alludere al Chavittu Natakam, una cerimonia dell’India cristiana. Pokkuveyil (Crepuscolo, 1981) è la storia di Balu, un giovane poeta, che si astrae sempre più dalla realtà. Il film, che ha una struttura circolare, inizia e si conclude all’interno di un ospedale psichiatrico dove Balu è stato internato. In flashback sono mostrati gli avvenimenti che hanno condotto alla follia il giovane poeta. Uno dei film più famosi, e dei più comprensibili, di Aravindan è Chidambaram (1985). La storia si svolge tra le montagne del Kerala, dove Muniyandi, mandriano di una fattoria moderna, ed il suo superiore, Shankaran, sono legati da una grande amicizia. Muniyandi un giorno torna da Chidambaram, sua città natale, dove si è sposato con Shivagami (Smita Patil) la quale è immediatamente attratta da Shankaran. Muniyandi, sicuro del tradimento della moglie, si impicca. Mentre Shivagami sparisce, Shankaran, in preda al rimorso, si reca in pellegrinaggio al grande tempio di Shiva di Chidambaram, dove, non si sa se sia una illusione o la realtà, la vecchia che custodisce le calzature dei fedeli ha le sembianze di Shivagami. Oridathu (Un villaggio, 1986) è ambientato negli anni ’50 in un villaggio sperduto del Kerala. Il consiglio degli anziani decide che ormai è necessario stare al passo con i tempi e che quindi bisogna usare la corrente elettrica. Questa novità, che dovrebbe essere positiva, attira invece sugli abitanti una serie continua di calamità. Il problema posto dal regista in questo film è se la modernità sia veramente un bene e, qualora lo sia, quale è il prezzo da pagare per ottenerlo. Mattaram (Travestimento, 1988) adotta il sistema narrativo di Kurosawa in Rashomon (1950). Anche qui, infatti, vi sono alcuni personaggi che danno versioni diverse su un omicidio. La storia ha per argomento l’assassinio di Kanchaka, un noto attore di Kathakali (la forma di teatro-danza codificata nel Kerala nel XVII secolo in cui si narrano episodi del Mahabharata e del Ramayana) ed il tema centrale del film è l’identificazione dell’attore con il suo ruolo. Unni (1989) è invece un film alquanto mediocre su una ragazza straniera, Unni, che si innamora di un coetaneo indiano di modesta condizione sociale. L’ultima opera di Avindaran è Vastuhara (I diseredati, 1990). Con questo film il regista si accosta al genere socio-politico tradizionale. Venu (Mohanlal), originario del Kerala, è incaricato dal governo del Bengala di selezionare i rifugiati del Bangladesh da inviare nelle isole Andamane. Venu diventerà l’unica speranza di salvezza per due di questi diseredati, una anziana vedova, che Venu scoprirà essere stata la moglie di uno dei suoi zii, e la giovane figlia.
    Una figura molto amata del New Cinema del Kerala è quella di John Abraham (1937-1987), scomparso prematuramente a causa di un incidente. Nato a Kunnamkulam in una famiglia cristiana, si laurea in economia e lavora come agente di assicurazioni. Stimolato dall’esempio del nonno, grande amante del Cinema, è attratto fin dall’infanzia dalle possibilità espressive dell’arte cinematografica e nel 1969 si diploma all’FTII. Abraham è autore di un tipo di cinema che, secondo le sue parole, “è dedicato alla gente e dovrebbe risvegliare le coscienze”. Questo regista viveva come un nomade essendo uno spirito libertario, quasi anarchico, per certi versi simile a quello di Ritwik Ghatak, suo Maestro ideale e amico. Considerato un artista romantico, il tema di fondo di ogni sua opera è l’aspirazione ad uno stato esistenziale simile all’innocenza infantile. Dopo essere stato assistente di Mani Kaul in Uski Roti (1969), Abraham - la cui filmografia comprende anche due documentari (Koyna Nagar e Hides and Stringes, rispettivamente del 1967 e del 1969) e un cortometraggio (Priya, 1969) - debutta nel film di finzione narrativa con Vidyarthigale ithile (Per questa strada, studenti, 1971), che fu giudicato politicamente pessimista ma eticamente ottimista e, dallo stesso regista, un po’ commerciale. Il film, che ha come probabile punto di riferimento Nous les gosses (1941) di Louis Daquin, ha una trama semplice e per soggetto la solidarietà. Un gruppo di studenti, facendo i lavori più disparati, fa una colletta per permettere a un loro compagno, che rischia l’espulsione, di far riparare i danni della statua del fondatore della scuola che ha colpito con una pallonata. Il direttore della scuola è talmente impressionato da questo generoso gesto di amicizia che decide di utilizzare il danaro raccolto per un viaggio premio. Tempo dopo, però, la statua viene colpita da un’altra pallonata. Agraharathil Kazhuthai (Un asino in un quartiere di brahmani, 1977), unico film in tamil di questo regista, è un autentico cult movie che in India fu messo al bando per lungo tempo. Un giorno un asino si presenta in un piccolo villaggio e sosta pigramente tra le case dove vivono le famiglie brahmane. Lo spaesato quadrupede viene preso in simpatia da Narayanaswami, un vecchio insegnante, il quale, nonostante le proteste e le prese in giro degli altri sacerdoti, decide di tenerlo con se e lo affida alle cure di Uma, una ragazza muta. Poi accade che viene trovato innanzi al tempio il cadavere del figlio della ragazza. L’asino viene accusato del delitto, giudicato colpevole e giustiziato. Da quel momento i brahmani sono afflitti dal senso di colpa e iniziano ad avere delle visioni, per cui la carcassa dell’animale viene venerata e successivamente bruciata su una pira funeraria come se fosse un essere umano. Le fiamme però si propagano per tutto il villaggio e alla fine gli unici sopravvissuti all’incendio saranno il vecchio brahmano e la ragazza muta. Questa fiaba satirica e iconoclasta contro la superstizione religiosa ha dei sicuri riferimenti ad Ajantrik (1957) di Ghatak, ad Au Hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson e al cinema di Luis Buñuel in generale. Cheriyachente Kroora Krithyangal (Le cattive azioni di Cheriyachan, 1979), ritenuto dal punto di vista tecnico il miglior film di Abraham, è un altra opera provocatoria che ebbe non poche difficoltà ad essere proiettata nelle sale. Cheriyachan è il tipico zamindar che ha paura sia dell’industrializzazione sia del progresso sociale, finché quando assisterà ad una manifestazione in cui la polizia massacra dei poveri contadini si renderà conto delle responsabilità morali della classe cui appartiene. In questo caso Abraham demolisce il tema ricorrente in tutto il Cinema indiano del proprietario terriero “cattivo” che opprime il contadino “buono”, un cliche che scade spesso nella retorica populista. Nel 1984 Abraham fondò a Calicut il collettivo Odessa Action Group, un’organizzazione politica e culturale il cui obiettivo era la lotta contro lo sfruttamento puramente commerciale dell’arte cinematografica. A tale scopo l’organizzazione effettuava delle proiezioni gratuite di capolavori Cinema anche nei villaggi più sperduti. Nello stesso tempo, grazie a un sistema di donazioni volontarie, la stessa organizzazione fungeva da Casa di produzione. Infatti, l’ultimo film di Abraham fu realizzato con i fondi raccolti dall’Odessa. Amma Aryan (Lettera alla madre, 1986) è il film più intenso di Abraham ed è costruito come un giallo. Purushan si mette in viaggio per Delhi promettendo alla madre che le scriverà ogni giorno. Durante il percorso viene costretto dalla polizia a trasportare il cadavere di un uomo che si è impiccato e di cui non si conosce l’identità. Purushan vuole scoprire il motivo di quel suicidio e dopo una complessa e lunga indagine verrà a sapere che lo sconosciuto è un musicista, uno studente naxalita che si è tolta la vita perché deluso dal velleitarismo romantico della sua lotta rivoluzionaria.
    Insieme ad Aravindan il maggiore rappresentante della cinematografia in malayalam è Adoor Gopalakrishnan, noto a livello internazionale, premiato innumerevoli volte in patria e all’estero, il quale negli anni settanta è stato uno dei maggiori artefici della nascita del cinema d’arte del Kerala. Nato nel 1941 nel villaggio di Adoor in una famiglia di attori di kathakali e profondo conoscitore della cultura classica indiana, dal Natyashastra (l’antico trattato sull’estetica del teatro) al kutiyattam - una delle forme di teatro danza più antiche esistenti al mondo (ha oltre duemila anni di vita), tuttora messo in scena in Kerala - Gopalakrishnan (in genere chiamato semplicemente Adoor) si è anche interessato, come Mani Kaul, allo Dvanyalokha. Laureato in Economia e diplomato nel 1965 all’FTII di Pune, questo regista, che pare sia stato l’autore preferito da Satyajit Ray, ha sempre svolto una ricerca di grandissimo interesse ed originalità, sia sul linguaggio filmico sia sulla struttura narrativa. Una ricerca che lo ha portato ad essere anche un acuto teorico del cinema: nel 1983 la sua raccolta di saggi, Chitrayude Logam (Il mondo del Cinema), ha vinto il premio per il miglior libro cinematografico. Di conseguenza, ogni suo lavoro nasce da uno studio lungo e meticoloso, per cui la sua filmografia, fino ad oggi, comprende soltanto nove titoli, mentre la sua realizzazione di documentari e cortometraggi è più consistente e ammonta a una ventina di opere. Gopalakrisnan è anche produttore ed ha fondato la prima cooperativa cinematografica indiana, la Chitralekha Film Cooperative. Nelle sue opere ha sempre trattato con stile inconfondibile temi di profonda riflessione filosofica ed una delle caratteristiche di molti dei suoi film è quella di essere ambientati nel passato. Questo perché, secondo il regista, la distanza temporale dagli avvenimenti consente all’autore di formulare un giudizio critico più obiettivo. L’esordio di Gopalakrishnan nel lungometraggio, Swayamvaram (Fare la propria scelta, tit. int. Matrimonio per libera scelta, 1972), un film sui sentimenti umani e contro il conformismo, deve il suo titolo alla consuetudine vigente nell’India antica della libera scelta dello sposo da parte delle ragazze kshatriya (appartenenti alla casta dei guerrieri). Viswam (Madhu) e Sita (Sharada) sono una coppia non sposata che fugge dal villaggio natale, la convivenza infatti è una condizione scandalosa in India, per trasferirsi in una piccola città. Viswam ha ambizioni letterarie ma per vivere deve accontentarsi di insegnare in una scuola. La situazione economica peggiora sempre più e i due sono costretti a trasferirsi in un quartiere degradato. Viswam perde il lavoro e infine muore, lasciando Sita in attesa di un figlio. Invece di rifugiarsi presso la famiglia, la donna fa un’altra scelta coraggiosa: decide di vivere libera, lavorando per mantenere il suo bambino. Il personaggio principale di Kodiyettam (L’inizio delle festività, tit. int. L’Ascesa, 1975 ma proiettato per la prima volta nel 1977) è Sankarankutty (interpretato da Gopi che diventerà uno degli attori più famosi del Sud dell’India), un buono a nulla che vive a carico della sorella. Lo sfaccendato trascorre il tempo giocando con i bambini del villaggio e vagabondando da una festa religiosa all’altra. Neanche il matrimonio con Sathamma farà cambiare stile di vita a questo infantile perdigiorno. Poi accade che, essendo Sankarankutty assente da casa da parecchi giorni, la moglie, prossima ad avere un figlio, decide di tornare dalla madre. Quando Sankarankutty si reca dalla suocera per riprendersi la moglie e il figlio appena nato, viene messo alla porta senza tanti complimenti. Dopo aver lavorato con scarso successo per un po’ di tempo, Sankarankutty si ripresenta dalla sorella che, a sua insaputa, nel frattempo si è sposata. E anche in questo caso viene scacciato via in malo modo. A questo punto Sankarankutti si sente abbandonato, lascia il villaggio e inizia a lavorare sul serio: ha capito la lezione e finalmente cerca di diventare un individuo maturo e responsabile. Nel finale tutti i personaggi si riuniscono durante una spettacolare festività del villaggio. Kodiyettam è un film pieno di umorismo che unisce toni realisti e lirici. Dopo queste prime prove cinematografiche brillanti, Gopalakrishnan realizza un vero capolavoro, Elippathayam (La trappola per topi, 1981), premiato nel 1982 dal British Film Institute come “il film più immaginativo e originale dell’anno”. Mentre il sistema feudale è in disfacimento, Unni, un discendente dei nair - i quali, oltre che guerrieri, erano grandi proprietari terrieri e riscuotevano le tasse, sebbene fossero shudra (successivamente si spiegherà meglio cosa fossero i nair) - vive asserragliato nella sua nalukettu (casa padronale), insieme a due sorelle, Rajamma, una donna di mezza età completamente al servizio del fratello, e Sridevi, la minore, una ragazza vitale che non sopporta quel tetro immobilismo. Unni ha una sola preoccupazione: non dividere con le sorelle l’esiguo patrimonio rimasto. Non volendosi adeguare alla realtà esterna da cui si sente minacciato, si nasconde come un topo nella tana. Il suo disagio si trasforma giorno dopo giorno in paranoia, finché dopo la morte di Rajamma e la fuga della più giovane delle sorelle, viene stanato dal suo nascondiglio da un gruppo di persone che simboleggiano la società. Il film ha una struttura circolare ossessiva ed è apparentemente realistico, ma a ben guardare è stilizzato come uno spettacolo di kathakali. Mukhamukham (Faccia a faccia, 1984) è un film solo apparentemente di genere politico il cui sfondo è il conflitto tra i due partiti comunisti esistenti in Kerala. La storia si svolge in due parti, la prima delle quali tra il 1945 ed il ’55. In quel periodo la figura principale della lotta sociale è rappresentata dal sindacalista Sridharan. Un giorno un contadino trova il sindacalista ferito e lo porta nella sua casa dove viene curato dalla figlia Savitri che diverrà la moglie di Sridharan. Accade poi che il proprietario di una fabbrica viene assassinato per cui Sridharan, sospettato dell’omicidio, è costretto a fuggire. Dopo dieci anni Sridharan torna a casa. E’ un uomo completamente cambiato: apatico, dorme tutto il giorno e quando non dorme si ubriaca. Anche se per i suoi vecchi compagni rappresenta un mito, Sridharan viene messo lentamente da parte, finché viene trovato morto, massacrato in un pestaggio. A questo punto, la sua figura gloriosa di un tempo viene riesumata come una bandiera e i due partiti comunisti rivali sfilano insieme ai suoi funerali. Mukhamukha è un film psicologico molto complesso che esplora la dimensione interiore di un rivoluzionario. Anantaran (Lì, una volta o E poi, tit. int. Monologo, 1987) ha una struttura narrativa molto originale ed efficace, ideata come un monologo. La storia di Anjankumar, un trovatello adottato da un medico, viene narrata da lui stesso due volte, ma con episodi diversi. Fin da bambino Anjkumar si sente inadeguato alla società in cui vive. Il ragazzo possiede una intelligenza superiore e ha capito che questa dote è una colpa in un mondo che apprezza e premia solo la mediocrità. L’impossibilità di creare un vero rapporto con il prossimo porta Anjankumar allo sconforto e alla schizofrenia. Nel film le immagini sorgono dalla mente del narratore in cui memoria e immaginazione, illusione e realtà, finzione e fantasia, si fondono. Mathilukal (I muri, 1990), tratto dal libro omonimo del 1941 di Vaikom Muhammed Basheer, è un bel film, semplice e lineare, sul concetto di libertà. Basheer è uno scrittore di successo che si batte per l’indipendenza dell’India. Imprigionato, dopo uno sciopero della fame ottiene che si celebri il suo processo. Condannato a due anni e mezzo di pena, in carcere suscita la simpatia e la stima degli altri detenuti e dei suoi stessi carcerieri. Poi tutti i prigionieri vengono liberati, tranne Basheer che cade in una profonda depressione. Un giorno sente una voce di donna provenire da oltre il muro che lo separa dal carcere femminile. Nonostante la barriera insormontabile i due stabiliscono un rapporto affettivo e decidono di incontrarsi in infermeria. Ma il giorno stabilito per il loro appuntamento Basheer viene rimesso in libertà. Vidheyan (La vittima, tit. int. Il servile, 1993) è l’adattamento cinematografico della novella di Paul Zacharia Bhaskar Pattelar ente jeevitham (Bhaskar Pattelar e la mia vita). Bhaskar è il tirannico proprietario feudale di un villaggio del Karnataka. Il suo servo Thomma, un emigrato del Kerala, è letteralmente il suo schiavo: lo aiuta a uccidere la moglie, gli mette a disposizione la sua propria moglie ed è complice di ogni efferatezza compiuta da quell’essere diabolico. Quando gli abitanti del villaggio, spinti dalla disperazione, decidono di eliminare Bhaskar, Thomma non si schiera né da una parte né dall’altra, tranne poi ad esultare quando il padrone viene ucciso. La vittima è un film di notevole impatto emotivo, grazie anche alla straordinaria recitazione di Mammootty, e rappresenta uno studio interessante della psicologia del potere. Kathapurushan (L’uomo della storia, 1995) è un viaggio emotivo attraverso il tempo e la storia. Il film inizia e finisce con la fiaba di un principe coraggioso che si appropria delle forze di un rakshasa (spirito maligno), che vuole divorare sua moglie e suo figlio, e lo sconfigge. Le varie tappe della storia recente dell’India, e del Kerala in particolare, dai dieci anni che precedono l’Indipendenza fino al ritorno al potere del Partito comunista nel Kerala negli anni ‘80, sono narrate attraverso le vicende di un giovane intellettuale progressista appartenente ad una famiglia brahmana di proprietari terrieri. L’ultimo film di Gopalakrishnan, Nizhalkkuthu (Ombre oscure, 2002), racconta un fatto realmente accaduto nel 1941 nel regno di Travancore. Una storia che può portare lo spettatore a formulare diverse considerazioni filosofiche, morali e sociali. A quei tempi nel Travancore era in uso la pena di morte mediante l’impiccagione. Ma per sua fortuna il boia è inoperoso da molto tempo. L’ultimo condannato era rimasto vittima di un errore giudiziario, il carnefice lo aveva saputo e da quel momento, tormentato dai rimorsi, aveva cercato rifugio nell’alcol. Questo assassino di Stato, infatti, è tutt’altro che un sanguinario. Compassionevole e devoto alla dea Kali, mediante una singolare puja (una cerimonia in cui utilizza la cenere dei pezzettini della corda con cui ha impiccato l’ultimo uomo) riesce anche a guarire i malati del villaggio. Per il figlio, invece, si prospetta un avvenire completamente diverso. E’ un fervente seguace del Mahatma e siamo alle soglie dell’Indipendenza: sta lottando affinché le cose cambino radicalmente. Ed ecco che - e qui sembra affiorare la tecnica del «non detto» dello Dvanyalokha - si inserisce nella storia un elemento di fondo inquietante, che non apparirà mai chiaramente lungo lo svolgersi degli avvenimenti, ma che esploderà drammaticamente soltanto nella conclusione. Un messaggero del maharaja annuncia che è stata emanata una nuova sentenza di morte: si richiedono immediatamente i servizi professionali del carnefice.


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    A nulla valgono le rimostranze del boia che cade nella più nera disperazione. Per legge il carnefice deve essere accompagnato da un sostituto e, naturalmente, sarà il figlio a partire con lui poiché la carica è ereditaria. Durante la notte di veglia che precede l’impiccagione, i carcerieri raccontano al boia il perché di quella sentenza di morte. E’ la punizione per un delitto efferato: una fanciulla di tredici anni è stata violentata e uccisa dal suo innamorato. Con sadica perfidia e divertito cinismo i carcerieri rivelano al boia che il vero autore del delitto è il cognato della ragazza. Il re di Travancore, i giudici ed il padre della stessa vittima (ha già perduto una figlia, non vuole che l’altra rimanga vedova) hanno ritenuto più “opportuno” condannare il ragazzo nonostante non sia colpevole: per soddisfare la Legge farà da capro espiatorio. Il boia viene colto da un malore. Ed ecco la tragica e paradossale conclusione. Il figlio, un idealista che si è sempre professato contrario alla pena di morte, sarà costretto ad assassinare un innocente. Un film veramente inusuale e di rara bellezza, capace di mostrare, secondo quanto è stato affermato proprio da Gopalakrishnan, come il sistema sociale in cui viviamo possa sempre fare in modo che l’individuo rimanga imbrogliato e intrappolato dalle stesse convenzioni che aveva cercato di abbattere.
    Shaj Nilkanth Karun, nato a Trivandrum nel 1951, laureato in Chimica e diplomato nel 1974 all’FTII, è stato il direttore della fotografia di molti autorevoli autori e in particolare di Aravindan, di cui ha filmato 9 dei suoi undici film. Attualmente è il regista indiano maggiormente amato dalla Critica occidentale (in particolare da quella francese). Dopo sei cortometraggi Karun dirige il suo primo lungometraggio, Piravi (La Nascita, 1988), con musiche di Aravindan, film vincitore di ben venti premi nazionali ed internazionali. Piravi, un’opera minimalista, è basata su un fatto realmente accaduto durante il periodo dello “stato d’emergenza”. Chakyar, un vecchio e dignitoso brahmano, cerca il figlio scomparso in circostanze misteriose. Il vecchio si reca ogni giorno alla stazione degli autobus nella speranza di rivederlo. La figlia scoprirà che Raghu, il fratello, è stato catturato durante una manifestazione politica e che probabilmente è stato torturato e ucciso dalla polizia. Tuttavia la ragazza non osa svelare la verità al padre il quale dalla tristezza è passato alla rassegnazione ed infine ad uno stato allucinatorio in cui è convinto che il figlio gli stia accanto. In Swaham (Ciò che è mio, 1994), prodotto da Adoor Gopalakrishnan, Ramayar, gestore di un piccolo bar di un villaggio, muore in un incidente. La moglie, Annapurna, non riesce più a gestire il negozio e per lei e per i suoi due figli inizia un vero e proprio calvario. Vanaprastham (Abitante della foresta, tit. int. L’ultima danza, 1999), una coproduzione indo-francese con musica del grande Zakir Hussain, ha per tema la perdita dell’identità personale da parte di un attore ed ha un precedente nel film di Aravindan Mattaram (1988). Kunjukuttan (Mohanlal), celebre attore di kathakali, scopre che la moglie Subhadra (Suhasini) non lo ama come persona reale ma per il personaggio che recita. Subhadra lo costringe, anche davanti alla figlia, ad andare in giro con il trucco e i panni di Arjuna, uno degli eroi del Mahabharata. Dopo una serie di disgrazie, il suo guru rimane paralizzato e un suo amico rimane muto, Kunjukuttan decide di togliersi la vita. Karun, le cui opere sono dei melodrammi molto intellettualizzati ma con splendide soluzioni formali, si fa sempre più rarefatto ed enigmatico con Nishad (Sì, 2002). Una coppia anziana riceve le telefonate di un bambino malato che chiede di sua madre. Contemporaneamente le comunicazioni telefoniche con il figlio militare si interrompono, il tutto mentre i rapporti tra India e Pakistan si fanno sempre più tesi.
    Si potrebbe affermare che il Kerala, ancor più del Bengala, abbia la maggiore concentrazione di registi non commerciali esistenti in India: a conti fatti oggi ammonterebbero ad almeno un centinaio. Pertanto, è materialmente impossibile poter trattare ogni singolo caso, seppure in maniera concisa. Tuttavia, sono quantomeno da menzionare i seguenti autori: P. Padmarajan (1936-1991), A.P. Backer (1940-1993), M.O. Joseph, K.S. Sethumandhavan, Kulakkatil Geevarghese George, P.N. Menon, Aloysius Vincent, M.P. Sukumaran Nair, T. V. Chandran (autore del celebre Ponthan Mada, Mada, la zucca, 1993), Madhatu Thekepattu Vasudevan Nair (che ha diretto un film divenuto un classico: Nirmalayan, L’Offerta, 1973), Jayaraaj, Maravittikal Raghavan Rajan, C.S. Venkiteswaran, Chengazhassery Puroshothaman Padmakumar, V.K. Pavithran, K.R. Mohanan, T. Ariharan, S. Balachandra Menon, Lenin Rajendran, K.P. Kumaran, G.S. Panicker, K.P. Sasi, K. Ravindran, Sathyan Antikad, Murali Nair, Abdul Aziz, A.K. Lohithadas, P.T. Kunhimohammed, Ravi Varma e Madhu, quest’ultimo noto soprattutto come attore di successo.
    Il Karnataka, produttore come gli altri Stati del Sud di film prevalentemente convenzionali ma dotato anche di alcuni autori definiti “classici” - Budugur Ramakrishnaiah Panthulu (1911-1974), R. Ragendra Rao (1896-1977) e Ganapathy Venkatarama Iyer - nel corso degli anni ’60 tentò di dare vita ad una cinematografia che unisse le qualità artistiche alle esigenze commerciali. Le avanguardie di questo nuovo modo di concepire il Cinema, che apriranno la strada al New Cinema vero e proprio, sono rappresentate da alcune opere di N. Lakshminarayanan (?-1991) - Bliss (1961), Naandi (L’Inizio, 1964) e Uyyale (Oscillazione, 1969) - e di Subraveshti Ramaswamy Puttana Kanagal (1933-1985), basti ricordare il suo Bellimoda (Nubi d’argento, 1968). Le tematiche dibattute dal nascente cinema non commerciale kannada, che guardava con attenzione il già affermato cinema d’autore del Bengala e in parte anche quello del vicino Kerala, erano incentrate su istanze sociali, soprattutto sull’oppressione delle donne, sulla dura condizione dei poveri e sulla corruzione. Inoltre, sui nuovi autori cinematografici influì in una certa misura il movimento letterario e teatrale modernista e progressista Navya,così come nel Nord dell’India era accaduto a molti registi del New Cinema - in particolare Benegal, Nihalani, Patel e Mirza - di essere stati influenzati da un gruppo di scrittori teatrali di tendenza realista quali Vijay Tendulkar, Girish Karnad, Mohan Rakesh e Badal Sircar. Il movimento Navya ha inizio nei primi anni ’50 ad opera del poeta Gopalakrishna Adiga ed è una corrente letteraria caratterizzata da una ferrea critica all’egemonia brahmanica che unisce motivi tradizionali indiani ad elementi letterari e psicologici occidentali (Kafka, Camus e Freud). Molti film kalatmaka (artistici) o prayogika (sperimentali) si adattarono ai canoni suggeriti dal Navya Movment, che tra l’altro propugnava l’opinabile teoria che il Cinema non fosse altro che un prolungamento della letteratura. Comunque, i critici più rigidi ammettono tre soli film rigorosamente navya: Samskara (1970) di P.R. Reddy, Pallavi (1976) di P. Lankesh, scrittore nato nel 1935 che dal 1989 si dedicò alla politica avendo fondato un suo partito, e Gathashraddha (1977) di Girish Kasaravalli.
    Tralasciando le poco definite e non sempre condivisibili disquisizioni storico-critiche, sta di fatto che l’aspirazione di creare un nuovo Cinema si concretizzò nel 1970 con Samskara (Riti funebri), tratto da una novella del 1966 di U.R. Ananthamurthy, membro di spicco del Navya, sceneggiato e interpretato da Girish Karnad, e diretto e prodotto da Pattabhi Rama Reddy. Questo regista, nato nel 1919 a Nellore nell’Andhra Pradesh, dove la famiglia era proprietaria di miniere di mica, ed educato a Calcutta e a New York, prima di Samskara si era dedicato con successo alla poesia in lingua telegu. Reddy riuscì a realizzare il suo primo film grazie al sostegno della moglie Shehalath, interprete femminile di Samskara - Shehalath Reddy morì nel 1977 mentre era imprigionata per la sua opposizione ad Indira Gandhi - e alla collaborazione di amici provenienti dal mondo teatrale, dalla pittura e dalla musica. Tutti personaggi noti nel loro campo, ma che non avevano mai avuto esperienze cinematografiche. L’unico professionista del Cinema a partecipare al film era l’australiano Tom Cowan, un esperto operatore. In questa pietra miliare del cinema kannada, non eccellente dal punto di vista strettamente cinematografico ma di grande forza emotiva e concettualmente importante, vi è una violenta denuncia dell’arretratezza dei costumi, del tutto feudali, ancora vigenti presso le congregazioni dei brahmani ortodossi. Naranuppa, un brahmano poco ligio verso i doveri della sua alta casta - si abboffa di carne, beve come una spugna e convive spensierato con una “fuori casta” - muore durante una epidemia di peste scoppiata nel suo villaggio. La comunità brahmanica è imbarazzata: nessuno dei suoi componenti osa celebrare il samskara di quel miscredente per paura di essere “contaminato”. Infine, sfidando tutti i pregiudizi, si assume l’incarico di officiare il rituale della cremazionePraneshacharya, un erudito brahmano dal carattere carismatico, spinto a compiere quell’atto umanitario anche da una volontà di espiazione, in quanto aveva sedotto la donna del defunto.
    Una personalità notevole della cinematografia del Karnataka è quella di Mysore Srinivasa Sathyu, nato a Mysore nel 1930 e laureato al Central College di Bangalore. Trasferitosi nel Nord dell’India nel 1952, ha svolto a Bombay e a Delhi una intensa attività come regista teatrale legato all’IPTA. Inoltre, è stato scenografo, direttore della fotografia e assistente di Chetan Anand e dei documentaristi Homi Sethna e Zul Velani. Ha girato decine di cortometraggi, di documentari e di serial televisivi, che da un certo periodo in poi costituiscono la sua attività principale, e tra questi il più famoso è Choli Daman (1988), in tredici puntate. Ritornato nel Karnataka, si lega al gruppo letterario Navya. Il suo Garam Hawa (Vento caldo, in urdu, 1973), da un soggetto della scrittrice Ismat Chughtai, è considerato uno dei primi e più importanti film della new wave, oltre ad essere una delle opere cinematografiche più belle sulla divisione dell’India del 1947. Ambientato ad Agra nel periodo successivo alla Partition, narra dell’odissea di una famiglia musulmana costretta ad emigrare nel Pakistan. Alla fine e nonostante tutto, il padre e il figlio decideranno di rimanere in India in quanto hanno capito che quella è la loro vera patria. Altre opere di rilievo di Sathyu, ritenuto contemporaneamente un esponente del Cinema del Karnataka e di quello pan-indiano, sono Kanneshwara Rama (1977), sulla vita di un leggendario fuorilegge degli anni ’20 impegnato nella lotta contro gli inglesi, considerato dal popolo una sorta di Robin Hood, il quale fu tradito dalla sua compagna, e Chitegu Chinte (Il cruccio della pira, 1978), una satira politica piuttosto bizzarra e affascinante. In un’isola immaginaria retta dalla democrazia, ma dominata soprattutto dalla mania per il Cinema, alcuni politici corrotti sono in combutta con un criminale che copre le sue attività illegali mediante una casa di assistenza per i ciechi. Un attore, che intende presentarsi alle elezioni, decide, per avere maggiore popolarità, di prendere lezioni di Arti Marziali da un grande Maestro il quale in effetti è stato ingaggiato dai suoi avversari per eliminarlo. Bara/Sookha (Siccità, in kannada e in hindi, 1980), tratta della rivalità di due uomini politici, ambedue di dubbia moralità, i quali, con metodi diversi ma sempre inadeguati, tentano di arginare una disastrosa carestia che si sta diffondendo nel paese. Segue Kahan kahan se guzar gaye (Per quali vie, 1986), sulla gioventù indiana e sui suoi problemi. Altro noto film di Sathyu è Gallige (Momenti, 1995), in cui un terrorista del Kashmir si innamora di una studentessa di Bangalore.
    Altro nome di particolare rilievo del cinema del Karnataka è quello di Girish Raghunath Karnad nato nel 1938 a Matheran (Maharashtra) ma considerato uno dei più importanti registi del New Cinema in kannada, anche se alcune delle sue opere migliori sono in hindi. Oltre ad essere, come già sappiamo, uno dei maggiori rappresentanti del teatro contemporaneo indiano, Karnad è stato un attore affermato sia nel cinema mainstream che in quello “parallelo”. Karnad si laurea in Matematica e Statistica alla Karnataka University nel 1958, dal 1960 al ’63 studia ad Oxford, dove si diploma in Scienze Politiche ed Economiche nonché in Filosofia. Tornato in India, lavora fino al 1969 come direttore dell’Oxford University Press di Madras. Inizialmente si dedica al cinema come sceneggiatore e attore a Bombay, poi debutta nella regia nel 1971 insieme all’amico Karanth, regista dei suoi lavori teatrali, con Vamsha Vriksha, di cui parleremo successivamente, e dal 1974 al ’75 dirige l’FTII di Pune. Il primo film autonomo di Karnad, ma con scenografia e colonna sonora sempre di Karanth, è Kaadu (La foresta, 1973), storia di una sanguinosa faida tra due villaggi così come è vissuta da un ragazzino, Kitti, che nel finale si inoltra nel folto della foresta che lambisce i due piccoli insediamenti umani. Lì, secondo una vecchia leggenda del luogo, un uccello assassino attirerebbe le sue vittime chiamandole per nome. Segue Ondanondu Kaladalli (C’era una volta, 1978), un grande affresco storico-epico che ritrae il Karnataka del XIII secolo durante la dinastia Hoysala (1073-1327), quando nella regione imperversavano i conflitti tra i vari “signori della guerra” regnanti su dei piccoli principati. Nel film si racconta della rivalità tra due fratelli, Kapardi e Maranayaka, per il possesso del territorio tra gli altopiani del Deccan e le giungle di Malnad, e della conseguente contesa tra i comandanti dei loro eserciti, il mercenario nair Gandugali e il generale Permadi. Accade però che entrambi i fratelli tradiscano le loro truppe e che i rispettivi capi uniscano le loro forze per porre sul trono il legittimo erede. Gandugali morirà eroicamente ma il suo alleato riuscirà a sconfiggere gli usurpatori e a riportare la pace nella regione. C’era una volta è un film sontuoso, le scenografie sono di Jayu e Nachiket Patwardhan, ma per nulla assimilabile al genere storico tradizionale. Molte delle sequenze più spettacolari sono dedicate ai combattimenti dei nair (o nayar), guerrieri professionisti appartenenti alla casta degli shudra (servi) del Kerala e di parte del Karnataka che svolgevano le stesse funzioni dei samurai giapponesi. Infatti, i nair erano, e sono ancora oggi, i depositari della più micidiale e segreta delle Arti Marziali dell’India, il kalaripayattu, che sembra sia stata codificata più di tremila anni fa e che quindi dovrebbe essere coeva alle analoghe discipline militari e di auto difesa della Cina. Karnad decise di girare Ondanondu Kaladalli come atto d’omaggio a Kurosawa ma anche perché stanco di vedere tanti film che mettevano in scena la polemica anti brahmanica voluta dal movimento Navya (di questo se ne ha un’assoluta certezza per sua diretta asserzione) e, probabilmente, pure per sfatare il luogo comune che i veri film d’arte o “impegnati” si possano realizzare unicamente con budget striminziti. Nel 1984 Karnad realizza in hindi e in inglese Utsav (Festa), prodotto e interpretato da Shashi Kapoor, affiancato nella recitazione da Shankar Nag a da Rekha. Il soggetto di Utsav deriva da un noto testo del teatro sanscrito del II-IV secolo, Mrichhakatika (Il carretto d’argilla), attribuito a Shudraka. Il film narra dell’amore di un brahmano impoverito, Charudutta, per la celebre e colta cortigiana Vasantsena. Utsav fu giudicato un film molto scabroso, vi si vede ad esempio anche il saggio brahmano Vatsyayana Mallanga, l’autore del Kama-sutra, mentre visita i vari kotha della città per potersi adeguatamente documentare, ed ebbe non pochi problemi con la censura. Ancora in hindi un film del 1992, poetico e con finale tragico, Cheluvi, basato su una antica fiaba, molto popolare nel Karnataka, che narra di una ragazza capace di trasformarsi in un albero dai meravigliosi fiori profumati. Altro film importante di questo eccellente regista è Kanooru Heggadithi (La Signora della Casa di Kanuru, 1999), la saga di una grande famiglia feudale al declino.
    Babukodi Venkatramana Karanth, nato nel 1929 a Bangalore, ha studiato musica a Varanasi e si è sempre occupato di teatro, lavorando, oltre che con il gruppo da lui fondato, il Benaka, con molte altre compagnie teatrali. Per un certo periodo è stato il direttore della National School of Drama di Delhi. Ha composto un gran numero di colonne sonore per numerosi registi importanti come, oltre naturalmente a Karnad, G.V. Iyer, Mrinal Sen e Girish Kasaravalli. Insieme a Karnad esordisce nella regia con Vamsha Vriksha (L’albero genealogico, 1971), film che segue i dettami culturali del tempo poiché tratta delle leggi tiranniche esercitate dai brahmani. Una giovane brahmana benché sia rimasta vedova continua gli studi e si risposa con un suo insegnante. Il suo comportamento non ortodosso le farà perdere il figlio avuto prima del matrimonio che le viene sottratto del suocero. Una volta cresciuto, il ragazzo, divenuto per caso un suo alunno, si rifiuterà di riconoscerla come madre. Tuttavia, quando la donna sta per morire, il suocero si riappacifica con lei rivelandole che lui stesso non è molto sicuro della purezza del suo albero genealogico, poiché a sua volta potrebbe essere un figlio illegittimo. L’unica opera cinematografica la cui regia è firmata dal solo Karanth è Chomana Dudi (Il tamburo di Choma, 1975), tratto da una novella del 1933 di Shivrama Karanth. Il film è ambientato tra i mari holeya, un gruppo di “intoccabili” del sud del Karnataka cui non era consentito avere alcuna proprietà. Tale legge impedisce al vecchio Choma di ripagare un debito contratto con il proprietario terriero locale, nonostante il “fuori casta” sia in grado di farlo perché ha trovato fortunosamente due bufali nella foresta. Dopo una serie di sciagure e delusioni, Choma si ritira nella selva e dopo aver liberato i bufali muore suonando il suo amato tamburo, l’unico oggetto di sua proprietà. Il sodalizio con Karnad si ripete con Tabbaliyu Neenade Magane/Godhuli (L’Ora degli dei in kannada, Crepuscolo in hindi, 1977), una storia sul contrasto tra i valori occidentali e quelli indiani. Un uomo torna al suo villaggio con una moglie americana che cerca di modernizzare il sistema della produzione del latte ma che dovrà scontrarsi con la suocera tradizionalista.
    Un ampio spazio di questa trattazione deve essere dedicata a Girish Kasaravalli, nato nel 1949 nel villaggio di Kasaravalli in una famiglia che annoverava dei valenti studiosi di sanscrito, ritenuto da molta parte della critica uno degli esponenti di maggior spicco della New wave indiana, di fatto estintasi alla fine degli anni ’80, ed uno dei pochi autori del Cinema parallelo tuttora attivo nel Karnataka. Come tanti altri registi di questa corrente, anche Kasaravalli si è diplomato, nel 1975, all’FTII di Pune. Sebbene adesso sia anche uno studioso di Cinema - nel 1983 ha curato in kannada una antologia di scritti su tale tema e dirige l’Adarsh Film Institute di Bangalore - questo grande cineasta da ragazzo nutriva una profonda diffidenza nei confronti della Decima Musa, poiché non la considerava alla stessa stregua delle altre Arti. I film di Ray, Mrinal Sen, Kurosawa, Ejzenštejn e del neo realismo gli fecero cambiare idea, tanto da fargli abbandonare il lavoro (si era laureato in Farmacia nel 1971) per abbracciare la carriera cinematografica. Il film con cui esordì Kasaravalli nel 1977, Ghatashraddha (Il rituale), da una novella di U.R. Ananthamuthy già filmata in embrione in Avashesh (1975), saggio per il diploma all’FTII di Kasaravalli, deve molto a Samskara.I toni drammatici e la sorprendente maestria con cui il regista ha usato la macchina da presa ne fanno un’opera talmente intensa che, in occasione della celebrazione del Centenario del Cinema, il Film Archive di Parigi ha selezionato Ghatashraddha come uno dei cento film migliori del mondo. Ne Il Rituale, ambientato negli anni ’20 del secolo scorso, abbiamo da un lato un quadro poco edificante dell’educazione di Nani, un piccolo brahmano che scopre tutta l’ipocrisia e la bassezza morale degli appartenenti alla sua comunità, dall’altro assistiamo alla tragedia della giovane amica che lo accudisce, Yamunakka, una vedova costretta ad abortire, dopo aver ceduto alle lusinghe di un maestro di scuola. La punizione per la sua colpa è disumana e terrificante. Il padre, in procinto di risposarsi con una ragazza di appena sedici anni, non ha alcuno scrupolo a celebrare lo shraddha, la cerimonia funeraria, mentre la figlia è ancora in vita. In questo caso lo shraddha è molto più che una scomunica o un anatema: dopo questo rito per i membri della società brahmanica Yamunakka è al di sotto di un “fuori casta”, di fatto non esiste più. Ridotta ad un cadavere vivente, viene scacciata dal suo mondo e non potrà più avere contatti con nessun essere umano. In un primo tempoGhatashraddha, che si avvale delle musiche di B. V. Karanth, fu ostacolato dalla censura, in seguito ricevette il premio nazionale per il miglior film dell’anno e complessivamente ottenne diciannove premi. Se Ghatashraddhaebbe un antesignano in un’opera importante come Samskara, a sua volta fece scuola e cinque anni dopo ebbe un buon epigono con Phaniyamma di Prema Karanth - moglie di B. V. Karanth - un film ambientato nel XIV secolo ma basato sulle memorie di Phaniyamma (1870-1952), una brahmana il cui marito settantenne morì quando lei aveva nove anni, una donna che per tutta la vita aiutò le vedove di ogni casta finché riuscì a liberare da quella situazione da incubo una ragazza di sedici anni. Dopo l’interessante Akramana (1980), Kasaravalli realizza Mooru Darigalu (Le tre vie, 1981), il suo film più pessimista, anche in questo caso incentrato sulla storia tragica di una donna. Nirmala, un ragazza calunniata e non difesa dal padre, non trova altra soluzione che il suicidio. In Tabarana Kathe (La storia di Tabara, 1986), un impiegato comunale riceve l’incarico di riscuotere le tasse dai piantatori di caffé, compito che non riesce ad assolvere. I suoi superiori non credono nel fallimento di Tabara e lo accusano di appropriazione indebita, per cui i colleghi lo evitano. Come se non bastasse a Tabara viene sospesa la pensione. Nel frattempo, la moglie si ammala e il piccolo impiegato è costretto ad indebitarsi. Avendo finalmente ottenuta la pensione, Tabara la regala ironicamente al Comitato per le celebrazioni del giubileo d’argento dell’Indipendenza. La storia, una feroce parabola sulla burocrazia, viene narrata dai diversi punti di vista dei protagonisti. Segue il film per la televisione Bannada Vesha (1988), che indaga sul mondo del teatro popolare dello Yakshagana. Mane/Ek Ghar (Una Casa, in kannada e in hindi, 1990) è l’unico film di Kasaravalli d’ambientazione urbana. Il soggetto è moderno, originale e per certi versi quasi surreale. Rajan (Naseeruddin Shah) e Gita (Deepti Naval), riescono ad ottenere la casa che desideravano, ma la loro vita diventa un inferno a causa dei rumori assordanti di un vicino e per l’imponente letto in ferro battuto che ingombra la casa che è diventato il simbolo e il campo di battaglia dei loro litigi coniugali. Esasperato, Rajan vorrebbe cambiare abitazione finché la distruzione di uno slum vicino non lo riporta alla realtà. Kraurya (Crudeltà, 1996) è un film che affronta il problema della solitudine. Una donna anziana, nonostante sia adorata dai bambini del villaggio per le fiabe che racconta loro e sia molto amata dal nipote, muore lentamente di dolore vedendo i valori consumistici che si sostituiscono inesorabilmente a quelli umani sia all’interno della sua famiglia che presso la comunità in cui vive. In Thayi Saheba (1998), film ispirato ad una storia di R.S. Lokapur, osserviamo dalla prospettiva di una donna il cambiamento determinato dal passaggio dal colonialismo all’Indipendenza. La vita di Narmada, la protagonista, è strettamente connessa con quella della sua terra. La storia, con una struttura narrativa assai complessa, si articola in due fasi in cui nella prima Narmada, secondo vecchie tradizioni, è concentrata nel suo mondo interiore, mentre, nella seconda parte la nuova realtà dell’India si sovrappone alla sfera privata. L’indipendenza modificherà ogni preesistente situazione sociale e lo stesso tipo di esistenza fino a quel momento vissuta da Narmada. Una trama di grande spessore che ha valso alla protagonista, Jaimala, produttrice del film, diversi premi, così come lo stesso Thayi Saheba ha vinto quattro premi nazionali, tra cui il Loto d’Oro, ed altri sei gli sono stati conferiti dallo Stato del Karnataka. Dweepa (L’isola, 2002) è basato sull’omonimo romanzo di Na D’Souza. Nei pressi di un piccolo villaggio stanno costruendo una diga, entro breve tempo le acque sommergeranno ogni cosa. Nonostante le proteste, la piccola comunità deve abbandonare le proprie case. Solo il vecchio Duggappa e i suoi familiari, il figlio Ganapa e la nuora Nagi, non vogliono essere trascinati via dai luoghi in cui sono nati, che per loro rappresentano l’unica realtà esistente. Da tempo immemorabile la loro famiglia custodisce un piccolo tempio, che sorge dove la tradizione vuole abbiano sostato Rama e Sita. E’ la stagione dei monsoni e giorno dopo giorno la pioggia incessante fa crescere inesorabilmente il livello delle acque. Più l’acqua si alza e più si abbassa la speranza. Una notte Duggappa annega, mentre, con indosso i sontuosi paramenti della danza Nema, tenta di celebrare un rito propiziatorio. Il figlio, sfiduciato e in preda al rimorso, cade in una profonda apatia. Adesso Nagi dovrà lottare da sola contro le situazioni avverse. E rivelerà di possedere una forza di carattere e una saggezza insospettabili, riuscendo a superare ogni prova, fino a difendere la casa dagli assalti di una tigre, unico essere vivente in quel deserto. Poi, quasi d’incanto, la pioggia si placa e i due si troveranno miracolosamente salvi su un tratto di terra completamente circondato dalle acque, una vera e propria isola. Dweepa, un’opera carica d’atmosfera, straordinaria da un punto di vista delle immagini, tanto che è stato osservato che la Natura sia una seconda protagonista della storia, è un’accusa ad un certo tipo di modernità e di sviluppo che, in nome del progresso, distrugge i diritti naturali e le tradizioni delle persone più deboli. L’ultima opera di Kasaravalli, Hasina (2005), adattamento cinematografico di Kari Nagaragalu, una novella in kannada di Banu Mushtaq, è un film semplice e onesto che si svolge linearmente senza concedere nulla agli artifici visivi e ai compiacimenti estetici: emotivamente è duro come un macigno. Il tema della condizione femminile è pressoché costante nell’opera di Kasaravalli ed anche in questo suo ultimo film il regista racconta la storia di una donna. Hasina, in attesa della nascita di una femmina, viene abbandonata dal marito Yakoob, il quale non ne può più di avere solo figlie: ne ha già tre, di cui una, Munni, è cieca. Hasina chiede giustizia al Jamaath (Consiglio della Moschea) e al Muthvalli (Capo della comunità), poiché, essendo stata ripudiata, le leggi islamiche stabiliscono il meher, cioè un risarcimento economico. Il denaro le servirà per una costosa operazione che può ridare la vista a Munni. Nella sua battaglia questa modesta casalinga analfabeta è aiutata dalla colta ed evoluta Julekha Begum, presso cui Hasina presta servizio come cameriera per raggranellare la somma necessaria per l’intervento chirurgico di Munni. Ma le sue insistenti richieste, per quanto conformi alla Sharia, non vengono prese sul serio. La donna, esasperata, decide a questo punto di “assediare” con le sue bambine la Moschea. E lo farà in maniera pacifica: non si muoverà da lì finché non le saranno riconosciuti i suoi diritti. Gli avvenimenti della storia sono scanditi inesorabilmente dalle preghiere quotidiane: Fazar, Zohar, Asar, Magrib e Isham. Il finale è drammatico: Munni perde la vita per proteggere la madre dalle botte del padre ubriaco, fuori di se dalla rabbia. I costernati componenti del Consiglio, che hanno tentato anche loro di difendere la donna, si rendono conto troppo tardi della sua reale situazione e di essere stati ingiusti nei suoi confronti. Ma in questa storia di una tristezza veramente desolante Kasaravalli introduce un barlume di speranza: il comportamento di Hasina sarà un esempio per le altre donne di quella piccola comunità musulmana.
    Altro regista che spicca nel panorama del cinema non commerciale del Karnataka è T.S. Nagabharana, nato nel 1953, il cui primo film, sotto l’evidente influsso del movimento Navya, è Grahana (L’Eclisse, 1979), una denuncia della venalità della casta sacerdotale. Nagabharana ha anche diretto il celebre Banker Margaya (Margaya il bancario, 1983), tratto dall’omonima novella di R. K. Narayan. Altri film interessanti di questo autore di talento sono Janumada Jodi (1996) e Nagamandala (Gli anelli del cobra, 1997). Infine sono quanto meno da menzionare altri cineasti del Karnataka non strettamente collegati né con il New Cinema né con il Cinema parallelo ma che nello stesso tempo non possono essere certo inclusi nel settore commerciale della cinematografia in kannada: Chandrasekhar Kambhar, S. Ramachandra, D. Kemparaj Urs, Siddhalingaiah, M.V. Krishnaswamy e Hunsur Krishnamurthy.
    L’Andhra Pradesh è uno Stato che fin dal 1936 si è distinto per la sua ingente produzione di film, una produzione di tipo prevalentemente commerciale che con il passare del tempo si è intensificata a tal punto che dal 1999 nel suo territorio è sorto presso Hayathnagar (25 km. da Hyderabad) la Ramoji Film City (fondata dal magnate del Cinema e della stampa Ramoji Rao), uno dei più vasti complessi di studi cinematografici esistenti al mondo, utilizzato anche da Case di Produzioni straniere e visitato ogni anno da folle di turisti. Il tipo di Cinema esistente nell’Andhra Pradesh non è molto dissimile da quello del Tamil Nadu, il che significa che i generi più diffusi sono quelli tradizionali, ossia quello mitologico, sentimentale, sociale e negli ultimi anni, in sintonia con le tendenze di Bollywood, anche d’azione. Uno dei nomi più significativi del Cinema in telegu - ma va notato che quasi tutti i registi dell’Andhra Pradesh realizzano i loro film in altre lingue dravidiche e in hindi - è B. Bapu ossia Sattiraju Lakshminarayan. Nato nel 1933 a Narsapur e laureato in Legge nel 1955 a Madras, Bapu nasce come disegnatore satirico. Uno dei suoi primi film, Saakshi (Il Testimone, 1967), per il suo accentuato realismo è considerato un film sperimentale e, nello stesso tempo, un prodotto ante litteram del New Indian Cinema. Bapu è un regista originale ed eclettico, non esente dalla frequentazione del cinema d’evasione, che ama affrontare tematiche diverse. Altra opera interessante di quest’autore è Bangaru Pichika (1968), in cui un ragazzo ricco fugge dalla madre che vuole farlo sposare ad ogni costo, per poi cadere nelle maglie di una banda di criminali che cercano di farlo sedurre da una ragazza della loro gang, la quale diventerà invece sua alleata. Nel 1969 Bapu realizza Buddhimatudu, un’aspra critica della superstizione religiosa. Anni dopo Bapu si riaccosta alla New Wave, anche per la scelta degli attori, Naseeruddin Shah e Shabana Azmi, con un film che ebbe molto successo, Hum Paanch (Noi cinque, 1980). Bapu si distingue anche per un certo numero di film ispirati dalla mitologia, dall’epica e dalla vita dei santi, ma adattati ai tempi moderni, quali Seeta Kalyanam (Il matrimonio di Sita, 1976), tratto dal Ramayana, e Thyagayya (1981), sulla vita di un samnnyasin (rinunciante) con quel nome vissuto nei primi decenni dell’Ottocento. Un affermato rappresentante del cinema d’autore dell’Andhra Pradesh è Kashinadhuri Vishwanath, nato nel 1930, i cui film hanno quasi sempre per soggetto la musica e la danza del Sud dell’India, come Sharada (1973), Shankarabaranam (Il Gioiello di Shiva, 1979) e Sangamam (La confluenza, 1983). Altro nome di spicco della cinematografia dell’Andhra Pradesh è Bongu Narsinga Rao, nato nel 1946 a Pragnapur, laureato ad Hyderabad, pittore, musicista, poeta, sceneggiatore e uomo di teatro. Autore molto politicizzato legato al movimento naxalita, per un certo periodo di tempo fu costretto a vivere in clandestinità durante lo “stato d’emergenza” degli anni ’70. Bongu Narsinga Rao fu anche il produttore di Maabhumi (1979), film d’esordio di Goutam Ghose. Tra i suoi film, da segnalare Rangula Kala (Sogni Colorati, 1983), di cui è anche l’interprete principale, una sorta di autobiografia ed una descrizione della situazione dell’Andhra Pradesh di quegli anni. Altro film notevole è Daasi (La Schiava, 1988), film realizzato per la televisione, un melodramma politico ambientato negli anni ’20 su una serva di “proprietà” di uno zamindar. Infine da segnalare Matti Manushulu (L’uomo d’argilla, 1990), definito da tutta la Critica un autentico film d’arte, la storia di una coppia di contadini costretti dopo la rivolta di Telangana, cui seguì una grave carestia, a trasferirsi in città dove le loro vite saranno completamente distrutte. Infine, altri due registi da menzionare, appartenenti all’area del New Cinema o comunque al cinema d’arte, Vamsy, nato nel Karnataka, il cui film più noto è Sitara (1984) e B.S. Narayana, autore di Nimajjanam (L’Immersione, 1979).
    Il Cinema del Tamil Nadu è un vero e proprio colosso, infatti negli ultimi tempi per numero di prodotti realizzati ha superato la stessa cinematografia di Bombay. Come detto più volte, le pellicole in tamil sono di tipo convenzionale (e in genere piuttosto mediocri), con una netta prevalenza di quelle ancora legate all’ideologia del nazionalismo dravidico del movimento DMK. Anche qui i film d’azione sono numerosi e si distinguono per una forte accentuazione delle scene di violenza. A questo proposito, un caso esemplare e non privo di alcuni pregi è Virumandi (2004), un film che inscena una sanguinosa vendetta che da un villaggio si trasferisce all’interno di un carcere (con relativa sommossa e conseguenti massacri), diretto e interpretato dalla grande star del cinema tamil Kamal Haasan (Kamalhasan) che aveva esordito nella regia nel 2000 con He Ram (Oh, Rama, le ultime parole pronunciate da Gandhi), un’opera molto discussa e osteggiata, sull’assassinio del Mahatma Gandhi da parte di Nathuram Godse, un brahmano fanatico appartenente all’RSS (Rashtriya Svayam-Sevak Sangh). Ad ogni modo, nonostante l’imperante tradizionalismo, il Tamil Nadu annovera un buon numero di autori che possono essere considerati “indipendenti” o appartenenti al così detto middle cinema e, in alcuni casi, al vero e proprio New Cinema e al Cinema parallelo. Tra questi, da segnalare K. Vijayan i cui film più significativi sono Kaval Deivam (La divinità protettrice, 1969), tratto da una novella di Jayakanthan e interpretato da uno degli attori più noti del Cinema tamil, Sivaji Ganesan, e Doorathu Idi Muzhakkam (Un tuono lontano, 1980). Altro regista notevole è J. Madhavan, celebre per Vietnam Veedu (La casa del Vietnam, 1970) e per Gnana Oli (1982). Tra i cineasti “indipendenti” uno dei più importanti è senza dubbio Durai, formatosi in ambiente teatrale, autore di melodrammi in cui i personaggi principali sono quasi sempre femminili, quali, Avalum Penthane (Anche lei è una donna, 1975), su una prostituta che cerca di cambiare vita avendo ricevuto una proposta di matrimonio da un uomo d’affari, ma che si suiciderà perché ostacolata dal suo sfruttatore, Oru Veedu Oru Ulagam (La nostra casa, il nostro mondo, 1978), storia di una vedova brahmana che ottiene dal suocero progressista il permesso di risposarsi, e Pasi (La fame, 1979), il suo film più apprezzato, opera ambientata a Madras, molto realista e priva di canzoni, su un conducente di rickshaw e su sua figlia. Altro regista appartenente al middle cinema è J. Mahendran, sceneggiatore, giornalista ed editore del noto giornale satirico Tughlak. Tra i suoi film sono da ricordare Mullum Malarum (Un fiore e una spina, 1978), Pootatha Pootukal (Porte impossibili da chiudere, 1980) e Nejathai Killathe (Non offendere i miei sentimenti, 1982).
    Balu (Benjamin) Mahendra è un regista di particolare rilievo. Nato nel 1946 nello Sri Lanka, laureato alla London University e diplomato all’FTII nel 1969, Mahendra è stimato per le sue capacità di Direttore della Fotografia ed è richiesto anche come assistente da un gran numero di registi del Sud dell’India (ad esempio, Mani Rathnam, Singitham Rao, Kashinadhuri Vishwanath, Sethumandhavan, J. Mahendran, P.N. Menon e Ramu Kariat). I temi principali trattati da questo autore sono la violenza esercitata sulle donne e la corruzione della burocrazia. Sebbene si basi su solide sceneggiature, Mahendra rispetto ai dialoghi privilegia sempre l’aspetto visivo del film. L’opera di Mahendra che ha ottenuto il maggiore consenso della Critica è Moondram Pirai (La luna nuova del terzo giorno, 1982), un film su un amore impossibile interpretato da Kamal Haasan e Sridevi. Yathra (Il viaggio, 1985) è un melodramma che ebbe molto successo, sempre interpretato da Kamal Haasan. Altra opera di qualità notevole è Veedu (La Casa, 1988), un film, basato su un fatto realmente accaduto, sugli assurdi ostacoli posti dalla burocrazia alla costruzione di una casa che per una povera vedova costituirebbe l’unico bene. Sandhya Ragam (Il Raga della sera, 1991) è un film semplice e poetico come una fiaba, ma anche spiritoso, su un vecchio attore vedovo che dal suo villaggio si trasferisce presso un nipote che vive a Madras, dove stabilisce un rapporto affettivo molto intenso con l’unico bambino della famiglia. Più commerciale Sati Leelavathi (La sati di Leelavathi, 1995) che ad alcuni è sembrato essere una versione indiana di She-Devil (1989) di Susan Seidelman.
    Concludiamo con i seguenti registi che sono considerati appartenenti in senso stretto al New Cinema: K. Hariharan che ha realizzato Ezavathu Manithan (Il settimo uomo, 1982), Shridhar Rajan che ha diretto Kann Sivanthal Man Sivakkum (L’Inno del carnefice, 1982), Komal Swaminathan, che si è distinto con Oru Indiya Kanavu (Un sogno indiano, 1983) e Jayabharati, autore di Uchchi Veil (Sole di Mezzogiorno, 1989). Sempre inserito nella stessa corrente cinematografica, Arun Mozhi, regista molto impegnato politicamente che ama la satira e che per tale motivo è spesso preso di mira dagli strali della censura. Di Mozhi è da segnalare Kaani Nilam (Un pezzo di terra, 1988), una storia dai toni kafkiani sulla corruzione politica e sulla speculazione edilizia, in cui un agricoltore viene espropriato della sua terra per motivi di “pubblica utilità”, in quel luogo infatti si dovrebbe costruire un ospedale, mentre un giornalista scopre che in realtà su quell’area si intende edificare un lussuoso albergo. Alcuni anni dopo, Mozhi propone un’altra interessante satira politica con Yer Munai (La lama dell’aratro, 1991). Di genere diverso, ma sempre con una nota d’ironia, Vittu Vidalthalai Yage (Alla ricerca di Maya, 2000), dove un vecchio studioso di sanscrito si trova alle prese con un figlio che mette in scena senza successo drammi in sanscrito e con una nipote, Maya, che si occupa invece di “teatro di strada” e il cui scopo è combattere il fondamentalismo religioso. Dello stesso anno Thiruppavai (Una Donna Glorificata), una presa in giro dei film di genere “mitologico” in cui una ragazza vuole sposare Dio.


    CAPITOLO 5: La nuova Bollywood e il cinema crossover




    Scomparsi dall’immaginario collettivo i miti di un tempo sull’“India misteriosa”, al giorno d’oggi ciò che interessa di questa Nazione non sono soltanto gli antichi monumenti e i valori delle sue millenarie e molteplici tradizioni civili e religiose, ma anche i suoi nuovi modelli culturali. Infatti, non essendo mai stata una civiltà statica, l’India non ha rifiutato il progresso, anzi, rispetto a molte altre nazioni, anche non asiatiche, in alcuni settori si trova all’avanguardia. Negli ultimi anni, tentando di conservare la propria memoria storica - un piccolo esempio a riguardo è rappresentato dall’aver cambiato i nomi anglicizzati di molte città con i corrispettivi indiani: Benares è adesso Varanasi, Bombay si è modificata in Mumbai, Madras è Chennai, Calcutta si chiama Kolkata e così via - ha bruciato le tappe della modernità. E’ forse proprio questa contemporaneità di aspetti “moderni” e “antichi” a sorprendere ed affascinare maggiormente gli occidentali. L’India pertanto è oggi ampiamente nota in tutto il mondo per i suoi successi in campo scientifico, tecnologico, economico e, appunto, anche per quelli raggiunti nel settore cinematografico. Attualmente la produzione cinematografica è classificata per importanza al quarto posto tra le industrie del Paese, infatti la nuova Bollywood realizza film a un ritmo vertiginoso: mille all’anno, più del doppio di Hollywood. In breve spazio di tempo il fenomeno India, e in particolare l’interesse per Bollywood, nato col nome di indomania nei primi anni ’90 inizialmente in Francia e in l’Inghilterra (questi due Paesi, infatti, sono sempre stati a stretto contatto con la cultura indiana) e propagatosi successivamente negli Stati Uniti, sta avendo una grande risonanza mondiale. Il culmine di tale interesse si è verificato nei primi anni del nuovo millennio, quando fu coniato lo slogan Shining India. Ad esempio, nel 2000 il poeta e cineasta bengalese Buddhadeb Dasgupta conquistava a Venezia, come abbiamo visto, il premio per la migliore regia con il film Uttara. Sempre a proposito di Venezia, e andando avanti di un anno, ricordiamo il Leone d’Oro assegnato a Monsoon Wedding di Mira Nair. Rimanendo nel 2001, Lagaan di Ashutosh Gowariker, prima produzione cinematografica del celebre attore Aamir Khan, ha sfiorato l’Oscar per il miglior film straniero. Sempre in lizza per gli Academy Awards, nel 2003 una delle opere maggiormente favorite era Devdas,di Sanjay Leela Bhansali, che l’anno precedente aveva avuto l’onore di essere stato il primo film di Bollywood ad essere presentato al Festival di Cannes. Continuando negli esempi, mentre nel giugno del 2002 la commedia musicaledi Allah R. Rahman, Bombay Dreams, prodotta da Shekhar Kapur e Andrew Lloyd Webber, faceva sognare nel West End gli spettatori londinesi, il British Film Institute programmava su tutto il territorio inglese l’evento Imagine Asia. Sempre in Gran Bretagna, uno dei campioni d’incassi del 2002 è stato Bend it Like Beckham (Sognando Beckham) di Gurinder Chadha, apparso anche nelle sale italiane, dove ha ottenuto un notevole consenso da parte del pubblico giovanile. Inoltre, a New York nelle sale del Metropolitan Museum of Modern Arts veniva allestita una grande mostra sui manifesti del cinema indiano - ambientati nelle metropoli, o in piccoli villaggi - ritratti con acutezza dall’obiettivo di Jonathan Torgovnik. E ancora, a detta di Baz Luhrmann, l’acclamato Moulin Rouge deve la sua fortuna, in una certa misura, a Bollywood. L’estroso regista, ad esempio, tra la colonna sonora originale di Craig Armstrong e le centinaia di brani musicali rimaneggiati dei più noti cantanti occidentali ha inserito anche una canzone di uno dei film indiani più popolari degli ultimi anni, Dil Chahta Hai (I desideri del cuore, 2001) di Farhan Akhtar. Soprattutto, prima di girare il suo musical, che tra l’altro è incentrato sull’allestimento di uno spettacolo “indiano” nella Parigi bohémien del 1900, per inventare scenografie e coreografie ha visionato un grande quantitativo di prodotti made in Bombay. Infine, sempre a proposito delle leggendarie coreografie di Bollywood, da segnalare una curiosità. Nelle più importanti città del Sol Levante sono stati aperti moltissimi centri di danza, dove inusuali apsaras dagli occhi a mandorla apprendono il bhangra e le frenetiche e flessuose movenze - in gergo jhatka e matka - tratte dai numeri di ballo visibili nel cinema d’evasione hindi. Tali iniziative, che rispecchiano la mentalità giapponese, sempre attratta dalle novità, sono anche un po’ paradossali in quanto nella stessa India questo genere di scuole esistono solo a Mumbai.
    In effetti, parlare di nuova Bollywood non sarebbe corretto, in quanto a Mumbai ormai si produce soltanto il 30% dei film indiani poiché oggi i centri più importanti sono dislocati a Chennai e ad Hyderabad. Tuttavia, la Mecca del Cinema indiano rimane in prima linea per quanto riguarda le innovazioni culturali e per la scelta delle strategie di mercato. Proseguendo l’andamento positivo instauratosi negli ultimi dieci anni, attualmente i confortanti dati numerici del mercato nazionale sono potenziati da quelli della distribuzione nei paesi stranieri, sviluppatasi anche in dipendenza dell’emigrazione. Gli indiani non residenti, i NRIs (Non Resident Indians), sono ormai decine di milioni e si sa che per chi vive all’estero seguire il cinema del proprio luogo nativo è un mezzo per mantenere i legami affettivi con la madre patria. Per quanto riguarda invece i giovani indiani di terza generazione, i quali a volte non hanno mai messo piede nella terra dei loro antenati, preferire un film indiano ad un blockbuster di Hollywood è un modo per riappropriarsi della propria identità culturale. Ad ogni modo, negli ultimi anni il cinema d’intrattenimento indiano ha subito molti cambiamenti ed ha puntato su un tipo di prodotto, il middle commercial, che, come abbiamo visto, era già esistente ma che adesso è diventato l’obiettivo della produzione standard. Infatti, gran parte delle attuali realizzazioni cinematografiche - in contro tendenza con molte altre cinematografie mondiali - al fine di ottenere il pubblico dei NRIs, in parte “occidentalizzati”, nonché quello internazionale, puntano sulla qualità. Pertanto, si affida la regia a dei veri autori - ad esempio Benegal, Nihalani e Ketan Mehta e molti altri che negli anni ’80 militavano tra le fila del New Indian Cinema - si fa redigere a degli scrittori competenti le sceneggiature - tra i migliori sono da segnalare Gulzar, Farhan Akhtar e Anjum Rajanbali - sebbene prevalentemente si tratti ancora di una sintesi dei generi più disparati, come è sempre stata consuetudine del cinema popolare. Per quanto riguarda le colonne sonore, è noto che i musicisti indiani sono ritenuti i più innovativi al mondo, basti menzionare Allah Rakha Rahaman. Altrettanto potrebbe dirsi per i testi delle canzoni, campo in cui Gulzar è ancora l’autore più quotato, e per le coreografie. In sostanza, però, non ci sono mutamenti radicali e il tutto sembrerebbe più che altro una necessaria e intelligente operazione di restyling. A ben guardare, ciò che è cambiato è il livello qualitativo e tecnico raggiunto dai prodotti cinematografici indiani. Insieme al middle commercial gli amanti delle definizioni hanno coniato anche l’espressione film crossover o film hinglish (sintesi di hindi e english), ossia, dando una spiegazione semplificata e riduttiva, di quel genere di prodotto cinematografico che può essere usufruito sia dalle platee urbane dell’India e dagli indiani trapiantati all’estero sia dal pubblico occidentale. E a tale scopo il cinema indiano sta tessendo una vasta rete di coproduzioni in tutte le parti del mondo, oltre che girare sempre più spesso all’estero i suoi film. In ogni caso l’attuale cinema indiano, che piaccia o no, se nonpuò considerarsi lo specchio dell’India moderna, è quanto meno il riflesso delle aspirazioni collettive di molti giovani che vivono in una Nazione che si sta sviluppando ad un ritmo sempre più vertiginoso.
    Tra i registi della nuova Bollywood, o più esattamente dell’intero mainstream della categoria soft commercial, dal momento che ha girato in numerose lingue (kannada, telegu e soprattutto tamil oltre che in hindi), il più importante è Mani Ratnam (o Rathnam), nato nel 1956 e figlio della produttrice Venus Gopalarathnam. Questo regista è molto apprezzato per la sua approfondita ricerca visiva, per le sue capacità tecnico-professionali e per il fatto che è in grado di affrontare con sicurezza ogni genere cinematografico. Attento osservatore dei film dei grandi autori di Hollywood, si è affermato con Nayakan (L’Eroe, 1987), un rifacimento in versione indiana di The Godfather (1972) di Francis Ford Coppola. Nello stesso tempo Ratnam, secondo alcuni critici, sarebbe influenzato dall'estetica dei videoclip musicali, come si può constatare dal musical Agni Nakshatram (Il Pianeta di Fuoco, 1988) e dal melodramma Anjali (1990). Abbiamo già menzionato tre opere importanti di Ratnam, Roja, Bombay e Dil se, ma tra questi film Bombay (1994) merita una particolare attenzione. Una coppia di giovani innamorati, appartenenti a religioni diverse, hindu e musulmana, dapprima è osteggiata per il loro matrimonio e in seguito è coinvolta, insieme ai loro bambini, nei drammatici eventi di Bombay, scoppiati all’indomani della distruzione della Babri Masjid, l’antica Moschea di Ayodhya. Yuva (2004), film proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia che ha avuto un’ottima accoglienza soprattutto in America, appartiene a un genere tra il drammatico e il noir, è ambientato a Kolkata ed è incentrato su tre personaggi, diversi per carattere ed estrazione sociale, i quali, incontratisi casualmente, cambieranno completamente il loro tipo di vita. L’ultima opera di Rathnam, Guru (2007), può lasciare perplesso se non scandalizzato lo spettatore che abbia una morale un po’ severa. Guru infatti è la storia di un provinciale che grazie alla sua abilità, ma soprattutto alla sua spregiudicata determinazione, diviene un vero e proprio tycoon della finanza, proprietario di grandi industrie quotate in borsa. Il protagonista (Abishek Bachchan) è sempre sostenuto dalla sua fedele sposa (Aishwarya Rai) - per inciso nella realtà questi due attori sono sposati - finché questo industriale, ma sarebbe più esatto chiamarlo intrallazzatore, non finisce sotto il tiro di una commissione d’inchiesta. Dopo un infarto, di rigore per l’uomo d’affari sorpreso con le mani nel sacco, il noveau riche riuscirà a convincere - e quel ch’è peggio in buona fede - gli inquirenti che le sue frodi e le sue mascalzonate hanno favorito il progresso economico del Paese.
    Per quanto riguarda i temi “difficili” trattati dalla nuova Bollywood, i film che hanno per argomento i rapporti socio-religiosi conflittuali sono già stati segnalati precedentemente, mentre tra quelli d’azione con implicazioni sociali è significativo Satya (1998), di Ram Gopal Varma, un film che indaga sulle connessioni tra la corruzione politica e la malavita di Mumbai. Seguiamo pertanto le vicende di Satya, giovane provinciale “adottato” da una banda di criminali, il quale tenta di redimersi, ma che, dopo aver ucciso il suo capo, viene a sua volta eliminato dalla polizia durante la spettacolare festa di Ganesha Chaturthi. Altro film importante è The Godmother (1998), di Vinay Shukla e interpretato da Shabana Azmi, un thriller politico-tribale. Da segnalare inoltre il film di pura azione, storia di sei rapinatori che vogliono svaligiare una banca di Los Angeles, Kaante (2002), di Sanjay Gupta e interpretato da Amitabh Bachchan, in quanto è il primo film indiano ad avere utilizzato una troupe di tecnici tutti stranieri. Derivante da Shakespeare, e quindi nella tradizione del teatro parsi della fine dell’Ottocento, Maqbool (2003) di Vishal Bhardwaj, un intelligente adattamento cinematografico del Macbeth in cui il regno di Scozia è sostituito dal tetro e sanguinario ambiente della mafia di Mumbai. Maqbool, uomo di fiducia di Abbaji, “padrino” di una potente organizzazione criminale, spinto dalla sete di potere e dal suo amore per Nimmi (Tabu), la donna dello spietato Abbaji, assassina il suo capo e lo sostituisce nella guida della banda. Bhardwaj, uno dei più affermati compositori di colonne sonore dei film di Bollywood, in questo suo secondo film ha dimostrato di possedere un notevole controllo sull’arte della regia. Ad esempio, più che sui facili effetti ha puntato sulla tensione drammatica degli eventi, ed è stato molto misurato nell’uso delle coreografie danzate, obbligatorie in un prodotto come questo. Per quanto riguarda la musica di Maqbool, è degna della fama di Bhardwaj, che ne è l’autore.
    Il contrasto familiare, un tema ricorrente e sempre attuale nel cinema indiano, viene adesso proposto - quasi sempre in forma sentimental-musicale e adattato alle esigenze e ai nuovi ideali delle moderne generazioni - in numerosi film quali il celebre Hum Aapke Hain Koun (1994) di Sooraji Barjatya, il celeberrimo Dilwale Dhulania Le Jayenge (Il coraggioso avrà la sposa, 1995) di Aditya Chopra, l’altrettanto famoso Taal (Ritmo, 1999) di Subash Ghai, interpretato da Aishwarya Rai, film a cui si attribuisce la responsabilità di aver scatenato l’indomania negli Stati Uniti, il già menzionato Dil Chahta Hai (I desideri del cuore, 2001) di Farhan Akhtar, i due blockbuster Kuch kuch hota hai (Fremiti del cuore, 1998), con Shah Rukh Khan, Kajol e Rani Mukherjee, e Kabhi khushi kabhie gham (A volte la felicità a volte il dolore, 2001), in cui tra un folto cast di divi riappare un maturo e sempre più bravo Amitabh Bachchan, di Karan Johar, e Saathiya (Compagni, 2002) di Shaad Ali. Tra i film che possono essere assimilati al recente genere della science fiction sono da menzionare, oltre a Deham (Il corpo, 2002) di Govind Nihalani, di cui ci siamo già occupati, Patalghar (2002) di Abhjit Chaudhury e Koi…Mil Gaya (2003), di Rakesh Roshan, con Hrithik Roshan e Preity Zinta.
    Passiamo adesso ai remake, tra cui il più noto è Devdas (2002)di Sanjay Leela Bhansali, realizzato con scenografie sfarzose, sontuose song picturizations e avvalendosi dell’efficace recitazione di Shah Rukh Khan, Madhuri Dixit e Aishwarya Rai. La nuova versione “patinata” di questo classico del cinema indiano non ha però tradito lo spirito della novella di Chatterjee.
    Il filone storico, caratterizzato da sempre da una forte impronta nazionalista, comprende numerosi prodotti molto spettacolari. Oltre ai già citati Netaji. The Last Hero (2003) e The Rising-Ballad of Mangal Pandey (2005), rispettivamente di Shyam Benegal e di Ketan Mehta, è da ricordare nuovamente Lagaan (La tassa, tit. it. C’era una volta in India, 2001) di Ashtutosh Gowariker, una storia di pura fantasia che si svolge nel 1893 nel villaggio di Champaner su una partita di cricket (della durata di quasi due ore, su tre ore e quarantatre minuti di film) tra indiani e inglesi che su quella partita hanno scommesso l’esenzione dalla tassa sul raccolto per tre anni o il pagamento del triplo della somma: nonostante l’inesperienza dei giocatori indiani, è ovvio a chi arriderà la vittoria. Altri kolossal storici sono Asoka (2001) di Santosh Sivan, su Ashoka (268-233 a.C.), terzo imperatore della dinastia Maurya, favorevole alla filosofia buddhista, e The Legend of Bhagat Singh (2002), di Rajkumar Santoshi, vincitore in patria di ben nove premi, su Bhagat Singh (1907-1931), un sikh del Punjab, letterato di idee marxiste, appartenente all’ala violenta del movimento nazionalista in contrasto con Gandhi, impiccato per aver sparato a un ufficiale di polizia che aveva ucciso l’attivista Lala Lajpat Rai.
    Anche il fenomeno del cinema definito crossover non è per nulla recente poiché risale a quasi cinquanta anni fa.


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    Infatti, il vero “inventore” di questo modo di fare cinema è Ismail Merchant (1936-2005), un autentico cosmopolita dotato di una solida cultura, sia di quella della propria patria che di quella occidentale. Data la sua figura di “padre fondatore” di un genere che si ritiene recente è necessario fare una digressione su questo personaggio. Nato a Bombay in un antica ed agiata famiglia musulmana, Merchant si innamora del cinema fin dall’infanzia. Studia Lettere allo Xavier’s College di Bombay e anni dopo è in America alla New York University per conseguire una laurea in Business Administration. Nel 1960 riesce a produrre un cortometraggio ispirato ad una storia della mitologia indiana, The Creation of Woman e poco tempo dopo incontra James Ivory, architetto americano di animo europeo, fortemente attratto dalla civiltà indiana. Entusiasmati dal fatto di avere comuni interessi culturali, nel maggio del 1961 i due decidono di fondare la Merchant Ivory Productions, il cui scopo è realizzare in India film in lingua inglese, ossia opere cinematografiche che avessero una forte attrattiva anche per il mercato occidentale: in poche parole, film che oggi sarebbero definiti crossover. Giunti a Delhi, alla coppia dei neo filmaker si aggiunge un nuovo personaggio che completa quel sodalizio fra produttore, regista e sceneggiatore che, secondo il Guinness Book of Film Facts, è stato il più affiatato e durevole di tutti quelli esistenti. La formula Merchant-Ivory si arricchisce della presenza della scrittrice polacco-tedesca Ruth Prawer, sposata con l’architetto indiano C.S.H. Jhabvala. E’ proprio dall’adattamento di un romanzo di Ruth Jhabvala che esce nelle sale il film d’esordio di James Ivory, The Householder (Il capofamiglia, 1963), un'opera che piacque a Satyajit Ray, tanto che il Maestro ne perfezionò il montaggio e fu il supervisore delle musiche composte da Ali Akbar Khan. Da quel momento, inizia la grande avventura della Merchant Ivory Productios. Sempre firmato da Ivory viene realizzato Shakespeare Wallah (lett. i venditori di Shakespeare, 1965) che segue le vicende della compagnia itinerante di Tony e Carla Buckingam, i quali percorrono l’India mettendo in scena rappresentazioni di drammi inglesi. E’ un’attività che svolgono da lungo tempo, ma la loro arte e la loro cultura non sono più apprezzati nell’India indipendente: ora gli spettacoli più richiesti sono i film commerciali a base di musica e danza. La loro figlia, Lizze (Jennifer Kendal), nata e cresciuta in India, intraprende una relazione con il ricco indiano Sanju (Shashi Kapoor), a sua volta legato sentimentalmente a Manjula (Madhur Jaffrey), famosa star del cinema di Bombay. Infine, i genitori di Lizzie decidono per il suo bene di rimandarla in Inghilterra: il loro tipo di vita in India non ha più un futuro. Anche Shakespeare Wallah, tratto dai diari dell’attore Geoffrey Kendal, padre di Jennifer, piacque a Ray che ne compose le musiche e fece in modo che il film partecipasse al Festival di Berlino. Il terzo film indiano Merchant-Ivory, Bombay Talkie (Il Cinema di Bombay, 1970), sempre per la regia di Ivory, presenta nuovamente un personaggio straniero in India e ha quindi per tema i rapporti tra il mondo occidentale e quello indiano. Una scrittrice inglese, Lucia Lane (Jennifer Kendal), si reca in India per trovare il soggetto del suo prossimo romanzo. Fa la conoscenza di un attore cinematografico famoso, Vikram (Shashi Kapoor) sposato con Mala (Aparna Sen) con cui ha molti problemi. Tra i due nasce un legame sentimentale. Il terzo incomodo è rappresentato da Hari, un poeta che si sente frustrato perché è costretto, per necessità economiche, a lavorare nel cinema, un’arte che disprezza profondamente. La relazione finisce male. Vikram, stanco delle stranezze della scrittrice, che dimostra di non capire nulla del Paese in cui si trova, cerca di rifilarla ad Hari, il quale, identificando in Vikram tutto ciò che detesta, cioè il cinema di Bombay, lo uccide. Molti critici hanno pensato che Bombay Talkie fosse una parodia del mondo del cinema commerciale. A conferma di questa tesi ci sarebbe la famosa scena della coreografia danzata sui tasti di una macchina da scrivere colossale che ha per protagonista Rekha, nei panni di Helen, l’attrice franco-birmana regina dei film musicali indiani tra gli anni ’60 e ‘70. Ivory, che aveva “visto” quella sequenza in sogno, in un intervista fu categorico: nessuna parodia, il cinema di Bombay è proprio così come si vede nel film. Tuttavia, questa volta i critici avevano ragione perché quella sequenza è indubbiamente una presa in giro della storica danza sui tamburi di Chandraleka (1948) di S.S. Vasan. L’ultima impresa in India come regista di James Ivory è il ben noto Heat and Dust (Calore e polvere, 1981) mentre The Deceivers (1987), film sulla lotta degli inglesi contro la setta dei thug, fu diretto da Nick Meyer. Secondo quanto affermato da lui stesso, Merchant non aveva particolare interesse a dirigere un lungometraggio di finzione narrativa, sebbene oltre a The Creation of Woman avesse già firmato alcuni documentari notevoli, quali Mahatma and the Mad Boy (1974) ed il docudrama The Courtesans of Bombay (1983). Poi gli capitò di leggere il bel romanzo In Custody, scritto nel 1984 da Anita Desai, il cui soggetto riuscì a coinvolgerlo emotivamente. Infatti, la storia narrata dalla scrittrice riguarda un grande poeta urdu e questa lingua e questa civiltà erano care a Merchant, perché gli erano proprie. Nel 1993 con In Custody, interpretato da Shashi Kapoor, Om Puri e Shabana Azmi, volle rendere un omaggio alle sue radici culturali. La sceneggiatura inglese di In Custody fu tradotta in urdu da Sharukh Husain con i titoli di Muhafiz (Il custode) o Ifazat (In custodia), mentre le poesie recitate nel film sono del celebre poeta pakistano Faiz Ahmed Faiz. Per quanto riguarda il suo modo di fare regia - altri film seguirono a In Custody: The Proprietor(1996), Cotton Mary (1998) e The Mystic Masseur (2001) - è da notare che Merchant non aveva ricevuto alcun influsso stilistico dal suo amico e socio James Ivory. Merchant aveva un linguaggio cinematografico autonomo, in particolare, in The Mystic Masseur (Il Massaggiatore Mistico) - tratto dall’omonimo romanzo del premio Nobel Vidiadhar Surajprasad Naipaul e scelto da Merchant per motivi analoghi a In Custody, nel caso specifico per il cosmopolitismo del protagonista - risalta la sua inconfondibile indiannes. E infatti, il film che avrebbe dovuto realizzare - era già in fase di pre produzione - si ricollegava alla mitologia indiana. Un film con una trama singolare e decisamente crossover: una interpretazione del mito della dea Kali in chiave moderna e rock, dove era stata prescelta come protagonista Tina Turner.
    Merchant ha quindi aperto idealmente la strada a un folto gruppo di cineasti indiani cosmopoliti. Tra questi, Shekhar Kapur, nato nel 1945 a Lahore, cresciuto a Delhi e trasferitosi in Inghilterra, inizialmente attore e oggi noto soprattutto come grande produttore. Tornato in India, il suo primo film come regista, Masoom (L’Innocente, 1982), con Shabana Azmi e Naseeruddin Shah, è un dramma familiare ancora parzialmente influenzato dal New Indian Cinema. Poi Kapur realizza il divertente e fantasioso Mr. India (1987), con tutte le componenti giuste del cinema maistream e il controverso Bandit Queen (1994), interpretato da Seema Biswas, imperniato sulla vita di Phoolan Devi, la “regina dei dacoit” assassinata nel 2001, dapprima fuorilegge per vendetta e successivamente garante dei diritti dei dalit presso il Parlamento indiano, film che fu censurato in India ma che fece scalpore al Festival di Cannes. Nel 1998 Kapur ha ottenuto grande notorietà e consenso da parte dei critici con Elizabeth, vincitore di due Oscar, per la colonna sonora e il trucco, e con una sfilza di nomination: per l’attrice protagonista, Cate Blanchett, per la scenografia, per la fotografia e per i costumi. Elizabeth è un film che sarebbe stato difficile da realizzare anche per un inglese puro sangue e con ottime conoscenze storiche. Questa capacità di calarsi in problematiche squisitamente occidentali Kapur l’ha riutilizzata per il rifacimento, in versione quasi anticolonialista, di The Four Feathers (Le quattro piume, 2002), il capolavoro del 1939 dell’ungherese Zoltan Korda. Da anni l’eclettico e cosmopolita regista-produttore è impegnato in due ambiziosi progetti di portata internazionale: The Long Walk of Freedom, una biografia di Nelson Mandela, e Paani (Acqua), ambientato a Mumbai, una previsione di quanto potrebbe accadere fra un quarto di secolo sul nostro pianeta, se le risorse idriche si esaurissero, facendo dell’acqua un bene più prezioso del petrolio. Kapur ha appena terminato Elizabeth: the Golden Age, sui rapporti tra Elisabetta I d’Inghilterra (nuovamente interpretata da Cate Blanchett) e il suo beniamino, Sir Walter Raleigh (Clive Owen), film che inaugurerà l’edizione 2007 della Festa del Cinema di Roma, e sta producendo un film d’animazione da lui scritto, Secrets of the Seven Sounds.
    Altro regista internazionale e “non residente” è Mira Nair, nata nel 1957 in Orissa ma di origine punjabi ed educata a Delhi. La Nair è la cineasta indiana più nota al mondo ed ha esordito negli Stati Uniti, dove vive stabilmente, con Jama Masjid Street Journal, documentario sulle comunità musulmane di Delhi, tesi per il suo master al corso di cinematografia della Harvard University. Dopo altri due film documentari, Mira Nair dirige l’opera cui deve il successo, Salaam Bombay! (1988), che ebbe una nomination agli Oscar ed ottenne la Camera d’Or e il Prix du Publique al Festival di Cannes. Il suo film migliore, insieme a Salaam Bombay!, è probabilmente Mississipi Masala (1992), una commedia intelligente sulla difficile integrazione culturale e razziale di una famiglia indiana nel Sud degli U.S.A., cui seguì un film di soggetto non indiano, The Perez Family (1995). Nel 1997 la regista realizza il deludente Kamasutra, notevole solo per la presenza dell’attrice Rekha, e nel 2001 Monsoon Wedding che invece venne premiato con il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Sempre in concorso per il Leone d’oro, ma senza esiti positivi, Vanity Fair (2004), una sontuosa produzione statunitense con tematiche e ambientazione americane. Nell’ultimo lavoro della Nair, In the name sake (Il destino del nome, 2006), una coppia di Calcutta si trasferisce a New York e deve confrontarsi con abitudini e stili di vita sconosciuti. Il film deve il titolo al nome del figlio della coppia, Gogol, un nome che sarà determinante per il suo futuro. Sam and me (1990), interpretato da Om Puri, sugli immigrati indiani nel Canada (di fatto lo stesso soggetto di Mississipi Masala, ma cronologicamente antecedente) è il primo film di Deepa Mehta, oggi cittadina canadese, ed è un esempio significativo di stile internazionale. Questa regista, dopo aver diretto Camilla (1993), film totalmente occidentale girato in Canada, ha acquisito una grande notorietà per una trilogia che esplora con ottica femminista il contrasto tra le passioni umane e le tradizioni. Questo trittico comprende Fire (1996), Earth (1998), interpretati da Nandita Das, e Water, in cui il personaggio principale, la vedova Kalyani, è interpretato da Lisa Ray. Quest’ultimo film, molto simile a Phaniyamma (1982) di Prema Karanth, fu iniziato nel 2000 ma fu violentemente ostacolato dai fondamentalisti hindu e completato soltanto nel 2004 nello Sri Lanka. Gurinder Chaddha è nata in Kenya e vive in Inghilterra e si contraddistingue per una apprezzabile vena di umorismo fin dal suo primo lungometraggio, Bhaj on the Beach (1993), cui segue Bend it Like Beckham (Sognando Beckham, 2002) e Bride and Prejiudice (Matrimoni e pregiudizi, tradotto in hindi Balle Balle, 2004), libero adattamento in tempi moderni dell’omonimo romanzo di Jane Austen.
    Altra personalità interessante è Nagesh Kukunoor, ex ingegnere chimico che vive tra gli Stati Uniti e l’India e che ha già ottenuto notevoli successi con Hyderabad Blues(1998), che ha avuto un sequel nel 2004, e Rockford (1999). Il suo Bollywood Calling (2002), è un tipico esempio di film crossover. Un attore americano di film d’azione di serie B, professionalmente fallito, gravemente ammalato e alcolizzato, nonché abbandonato dalla moglie, viene scritturato per girare un film in India da un suo ammiratore indiano che si è messo in testa di diventare produttore. Il film che l’ex star di B-movie dovrà interpretare insieme ad un capriccioso vecchio trombone di Bollywood, anche lui sul viale del tramonto, è un polpettone drammatico-avventuroso a base di vendette, dacoits (briganti) e balletti a profusione, secondo la ricetta sempre in voga. Il clima sul set è a dir poco caotico e imprevedibile: tutto è affidato all’improvvisazione. Di fatto, lo spettatore assiste ad un backstage che può essere assunto come una sorta di “manuale” per capire come si realizzi un film di serie B a Bollywood. Per lo straniero non è facile adattarsi a quello strano mondo, ma alla fine i suoi stravaganti e confusionari compagni di lavoro diverranno degli amici fraterni. Grazie a loro riacquisterà la vitalità perduta ed adotterà una nuova filosofia di vita che gli consentirà di tornare in patria avendo fiducia in se stesso. Bollywood Calling, pertanto, è una commedia molto gradevole, ma, nonostante il tono lieve utilizzato da Kukunoor, non è da sottovalutare poiché i suoi temi di fondo non sono affatto superficiali.
    Vi è poi un genere di film che ha la particolarità di essere in parte o del tutto di produzione indiana ma con regista occidentale. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte a una novità, basti pensare al sodalizio Franz Osten-Himansu Rai tra la metà degli anni ’20 e la fine degli anni ’30 e nuovamente al duo Merchant-Ivory. Adesso però tali prodotti di solito non sono ambientati soltanto in India, anche se hanno sempre protagonisti indiani. Shekhar Kapur è stato coproduttore con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna di uno di questi film, The Guru (2002), diretto da Daisy von Scherler Mayer, una commedia spiritosa, basata sugli equivoci, in cui Ramu, un ragazzo indiano, sbarca il lunario a New York spacciandosi per una sorta di maestro tantrico. Il lungometraggio American Daylight, prodotto nel 2004 da Bobby Bedi, lo stesso produttore di Bandit Queen e di The Rising, e diretto dallo statunitense Roger Christian, è un altro tipico esempio di film crossover. Ben costruito e a metà strada tra il thriller e la commedia romantica, American Daylight sembra riproporre in chiave moderna la fiaba di Cenerentola, dove il ruolo del Principe Azzurro è affidato a un discografico miliardario americano che si innamora per telefono di una sensibile e orgogliosa ragazza indiana impiegata in un Call Center di Delhi.
    In conclusione, da quanto fin qui analizzato schematicamente, si potrebbe azzardare l’ipotesi che la nuova Bollywood, forte dell’attuale situazione favorevole in cui opera, per certi versi simile a quella del periodo successivo all’Indipendenza (naturalmente il paragone non si riferisce alle condizioni economiche ma al clima di entusiasmo e alle grandi aspettative per il futuro), speri di riesumare i fasti dell’Età dell’Oro del Cinema indiano, quando successo commerciale e qualità artistica andavano di pari passo, e che nello stesso tempo sia fermante intenzionata a diventare la maggiore concorrente della strapotente cinematografia americana.


    Domani ultima parte di questo specialone senza fine sul cinema indiano, parleremo di alcuni attori e film molto importanti, che hanno fatto conoscere il cinema indiano in gran parte del mondo, a domani!!! :festa: :festa:
     
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25 replies since 30/9/2007, 21:10   2781 views
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