STORIA DEL CINEMA ASIATICO 5 - IL CINEMA INDIANO: DALLE ORIGINI ALLA NASCITA DI BOLLYWOOD

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  1. shinji80
     
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    E la si va anche stasera con il cinema indiano!!! :woot: :woot:

    CAPITOLO 4: Il mainstream tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta



    Principi generali, panorama storico e casi esemplari - PARTE PRIMA



    Con la definizione di mainstream cinema o di “cinema convenzionale” - dizione quest’ultima formulata dai sociologi e oggi utilizzata più di frequente rispetto alla consueta etichetta di “cinema commerciale” - ci si riferisce a quell’enorme quantitativo di prodotti cinematografici che si uniformano ai parametri estetici e ideologici del cinema di Bombay, anche quando tali film appartengano alle varie cinematografie regionali e siano girati nelle rispettive lingue locali.
    Tra gli anni Sessanta e la fine degli Ottanta, Bombay, da sempre la città più dinamica nella produzione cinematografica, riuscì a consolidare definitivamente il suo ruolo egemone sul Cinema del Paese: il 75% dei film del subcontinente furono infatti girati nella Mecca del cinema indiano, dotata, dagli anni Settanta, oltre alla sede principale di Film City, di altri vasti e attrezzati centri di produzione, dislocati nelle zone periferiche di Juhu, Andheri, Goregaon e Bandra.
    Fondamentalmente, nel cinema indiano esistono due scuole di pensiero: quella di Bombay e quella di Calcutta. La loro differenza è implicita nella terminologia che durante gli anni Trenta era adottata nelle due città per denominare le opere cinematografiche: bol-pat (lett. “superficie illustrata - in questo caso schermo - parlante”) e boi (libro in bengali), vocabolo che denota, come abbiamo avuto modo di constatare, la stretta dipendenza del Cinema bengalese dalla Letteratura.


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    A questo punto è giusto chiedersi cosa siano in sostanza i film d’evasione hindi. La risposta più corretta, anche se molto sbrigativa, è che si tratta di pop art allo stato puro, così come affermano gli stessi cineasti indiani. Altra peculiarità del cinema commerciale indiano è di sfuggire ad ogni tipo di codificazione per generi, anche se si sono fatti e si continuano a fare innumerevoli tentativi in questo senso e teoricamente il lavoro di analisi dovrebbe essere facile, perché i soggetti della maggioranza dei film indiani sono piuttosto limitati e ripetitivi. Uno degli esami più lucidi fu compiuto poco dopo la metà degli anni Settanta da Satyajit Ray, il quale per realizzare il film hindi ideale elencava i seguenti “ingredienti”: colori smaglianti, molte canzoni (almeno sei o sette e sempre utilizzando gli stessi cantanti idolatrati dal pubblico), danze frenetiche eseguite a solo o in gruppo, la presenza del ragazzo “buono” e di quello “cattivo”, e per ragioni di simmetria, la ragazza “buona” e quella “cattiva”, una storia d’amore (molto casta) con lacrime, risate, lotte e inseguimenti che si configura con modalità melodrammatiche e senza implicazioni con la realtà. Il tutto realizzato nei teatri di posa, con qualche location in allettanti luoghi turistici, possibilmente all’estero. Successivamente, la critica cercò di raggruppare i film hindi - dall’epoca del Cinema Muto fino a quella data -nelle seguenti categorie: «mitologici», «decorativi», «musicali», in «costume», «storico-spettacolari» e «drammatico-hollywoodiani». A prescindere dalla tassonomia dei generi, i critici indiani hanno poi sintetizzato in una ricetta le componenti base dello spettacolo d’evasione - che spiega il perché del termine masala (mistura di diverse spezie), coniato negli anni Settanta per il cinema bambaiya (ossia di Bombay), sinonimo di cinema pan-indiano - in cui compaiono tutti quegli elementi utili a soddisfare le aspettative del pubblico e che lo farà commentare alla fine dello spettacolo: Paisa vasool («Ho speso bene i miei soldi!»). La formula recita: tre combattimenti, due danze e sei canzoni, oppure, due combattimenti, tre danze, nove canzoni e una cerimonia nuziale. In senso lato, tale prescrizione significa una commistione dei generi, tanto che alcuni hanno parlato di “spettacolo totale”. Pertanto, in uno stesso film si può passare disinvoltamente dalla tragedia alla commedia comica, dal genere avventuroso e d’azione a quello mitologico religioso e dal thriller al melodramma sentimentale. In mezzo a questa babele narrativa si aggirano i personaggi, rappresentati quasi sempre senza grandi sfumature. Il protagonista è l’Eroe che sconfigge immancabilmente il Male, mentre l’antagonista non ha mai motivazioni per le azioni delittuose di cui si macchia: la sua natura è malvagia, punto e basta. Per quanto riguarda le interpreti femminili, l’eroina è una “brava ragazza” che si uniforma alla figura mitologica di Sita, sposa di Rama e idealizzazione della parivrati (moglie modello), mentre la sua rivale, in gergo la scarlet girl, tenta di traviare il protagonista e rivela la sua immoralità con un comportamento molto moderno, cioè “occidentalizzato”. Può esistere un altro personaggio femminile, quello della “cortigiana dal cuore d’oro”, derivante dalla Chandramukhi di Devdas, la quale, nonostante si redima per amore, non riuscirà mai a sposare l’eroe e, spesso, avrà il buon gusto di morire al momento opportuno per non creargli problemi. Altre figure femminili sono quella della madre, pronta a ogni sacrificio per i suoi figli nonché ferrea custode dei valori tradizionali, e la suocera che tiranneggia la giovane sposa protagonista della storia.
    Altra caratteristica del cinema di Bollywood (Bombay+Hollywood, crasi ironica ideata agli inizi degli anni Ottanta da un giornalista della rivista indiana Cineblitz) è l’abnorme dilatazione temporale dei suoi prodotti: non meno di due ore e mezza o tre ore (ma in genere molto di più). Secondo alcuni critici tale prolissità sarebbe dovuta alla necessità di sviluppare i diversi e variegati temi contenuti in uno stesso film. Un’argomentazione corretta, che non spiega però la causa ultima della durata dei film indiani. Il motivo più plausibile della lunghezza dei prodotti della cinematografia indiana (non solo di quella d’evasione ma anche di quella d’autore) dovrebbe essere invece di natura culturale: in India, da tempi immemorabili, ogni genere di spettacolo, classico o popolare che sia, è sempre stato lungo. Alla fine dell’Ottocento, ad esempio, le rappresentazioni del teatro parsi di Bombay iniziavano alle dieci di sera e si concludevano alle quattro del mattino. La lunghezza, quindi, è sempre stata una prerogativa di ogni forma di espressione artistica, musicale o letteraria. A questo proposito, se si osserva la narrativa epico-religiosa o profana (ivi compresa quella moderna), il discorso non cambia, anzi si scopre che il libro più voluminoso del mondo è il Mahabharata con i suoi 18 parvan (capitoli) contenenti più di 220.000 versi.
    In ogni caso, le componenti più significative di ogni film hindi sono la musica e la danza, configurate nelle così dette song picturizations, le quali, dato il loro rilievo, negli anni Sessanta erano sempre riprese a colori, mentre il resto della storia poteva essere girata con una pellicola in bianco e nero. Come già sappiamo, la peculiarità dell’uso costante della musica e della danza si collega direttamente al teatro popolare e, in parte, al monologo narrativo che si è sempre espresso grazie a queste forme d’arte. La musica quindi, come si è sottolineato più volte, al contrario di quanto accade in genere nel cinema occidentale, non è d’accompagnamento, fa parte integrante della struttura narrativa, tanto che alcuni hanno affermato drasticamente che il cinema indiano è l’unico al mondo ad avere un solo genere: quello musicale. Le melodie usate, servendosi di ogni tipo di strumentazione, dal sitar al sintetizzatore, abbracciano tutti i possibili idiomi musicali: dalle forme classiche europee e, ovviamente, in primo luogo indiane - l’hindustani o hindavi del Nord, di origine indo-persiana, e la carnatica del Sud di derivazione templare, più antica e strutturata - a quelle del folclore delle varie regioni, rivisitate, in tempi più recenti, con la cultura dell’MTV. Di fatto, le figure del compositore, dell’autore dei testi delle canzoni e del coreografo, erano, e sono, equiparate a quella del regista. Pertanto, l’impiego di numeri canori nei prodotti di Bollywood, a qualunque genere appartengano, è strettamente di rigore. Anche adesso la loro media per ogni film è appunto di non meno di sei brani musicali, con annesso balletto. Una cifra che può sembrare rilevante per il pubblico occidentale, quasi irrisoria invece per quello indiano. I filmi geet (le canzoni dei film), inoltre, determinano il successo di un prodotto cinematografico, in quanto vengono appositamente immesse sul mercato a scopo pubblicitario tre o quattro mesi prima dell’uscita del film nelle sale.
    Sempre a proposito di promozione pubblicitaria, è proprio negli anni Sessanta che vengono impiegati a profusione i billboard, i celebri manifesti cinematografici, apparsi per la prima volta verso la metà degli anni Venti e che si dice siano stati inventati da Baburao Painter. Questi giganteschi cartelloni (di media 3-6 metri), un tempo dipinti a mano e oggi diffusi prevalentemente negli Stati del Sud, dove sono chiamati banner, sono una particolarità dell’India e si rifanno a molteplici correnti artistiche: dalla ritrattistica Moghul, nota per l’attenzione rivolta a disegnare i volti e per aver introdotto la tecnica «pubblicitaria» dell’identificazione dell’eroe esaltandone nel contesto narrativo posizione e dimensione, alla Bombay School of Art dei primissimi anni del XIX secolo, alle esperienze dei dipinti bengalesi della fine dell’Ottocento, che introdussero nella composizione figurativa l’uso delle ombre e delle linee diagonali, fino alla più popolare pittura sui muri (pat), all’oleografia ed alla pittura dei calendari.
    L’importanza degli attori nel cinema indiano è ben nota. Essi formano quasi sempre una coppia, come Dinshaw Bilimoria/Sulochana e Ashok Kumar/Devika Rani (o Leela Chitnis) negli anni Trenta e Quaranta, Raj Kapoor/Nargis e Dilip Kumar/Vyjayanthimala nell’Età dell’Oro, Uttam Kumar/Supriya Choudhury e Marudur Gopalamenon Ramachandran/B. Saroja Devi negli anni Sessanta-Settanta, Dharmendra (e Dev Anand)/Hema Malini e Rajesh Khanna/Mumtaz nei Settanta-Ottanta, fino a giungere all’attuale duo Shah Rukh Khan/Kajol formatosi dopo la metà degli anni Novanta. Il loro enorme prestigio è il diretto risultato dell’esasperazione dello Star System. Venerati come dei dal pubblico - spesso la foto dell’attore preferito viene collocata sull’altare domestico insieme all’immagine dell’Ishtadevata (la divinità protettrice personale) - il potere decisionale di cui dispongono è enorme. Per evitare lobby e monopoli (Shashi Kapoor per la sua onnipresenza sui set era stato soprannominato Taxi Kapoor dallo stesso fratello Raj) fu anche promulgata una legge che vietava di recitare in più di 12 film all’anno, mentre i loro compensi incidono notevolmente (per circa il 25%) sul budget di un film. Inoltre, la fama e l’ascendente che esercitano sulle masse fa sì che molti di essi diventino eminenti personaggi politici, membri del Lok Saba (Assemblea Popolare) o del Rajya Saba (Camera Alta), come Nargis, Vyjayanthimala, Sunil Dutt, Rajesh Khanna, Amitabh Bachchan e Shabana Azmi. Negli Stati del Sud tale fenomeno è particolarmente accentuato e ha inizio negli anni Trenta, anzi esiste il partito nazional-culturale dravidico DMK (Dravida Munnetra Kazhagan) - fondato nel 1949 da un cineasta, lo scrittore, sceneggiatore e attore Canjeevaram Natarajan Annadurai (1909-1969) - che vive in simbiosi con il mondo della celluloide. Molte delle più grandi star del Cinema del Sud, provenienti quasi esclusivamente dal genere “mitologico”, hanno fatto parte di questo partito, se si escludono Shivaji Ganesan, appartenente al Congress Party, che fu per due volte Primo Ministro del Tamil Nadu, e Raj Kumar, il quale fondò un suo partito nel Karnataka. Dopo Annadurai, è stato più volte primo Ministro del Tamil Nadu lo sceneggiatore Muthuvel Karunanidhi, seguito per due volte nella stessa carica da Marudur Gopalamenon Ramachandran (1917-1987), ritenuto dai suoi elettori un autentico avatarapurusha (incarnazione di un dio), e da Jayalalita Jayram, anch’essa del DMK e Primo Ministro dello stesso Stato fino a pochi anni fa. Il celebre e corrotto Nandamuri Taraka Rama Rao (1923-1996) fu invece Primo Ministro dell’Andhra Pradesh.
    Infine, un accenno alla censura cinematografica, una delle più severe al mondo. In origine, durante il British Raj, la maggiore preoccupazione dei legislatori era che nei film non vi fossero incitamenti al nazionalismo, mentre si era più permissivi (entro certi limiti) per quanto riguardava le scene di intimità tra i protagonisti. Alla fine degli anni Venti, ad esempio, era concesso rappresentare sullo schermo qualche timido bacio, che riapparirà (molto raramente) solo a metà degli anni Ottanta. Tuttavia, per aggirare questa rigida morale vittoriana, la cinematografia hindi iniziò a proporre dei numeri di danza molto maliziosi - quando non platealmente volgari - e la così detta wet sari dance, in cui il pubblico poteva ammirare la protagonista mentre ballava con le vesti rese trasparenti dall’acqua e appiccicate addosso. Durante tali sequenze, a volte è ancora possibile vedere nelle sale cinematografiche, soprattutto in quelle dei villaggi, folle di spettatori in visibilio che lanciano monete sullo schermo, come se stessero assistendo ad uno spettacolo dal vivo. Un esempio classico dell’intransigenza dei censori è rappresentato dal “caso” Khalnayak (Il Furfante, 1993) di Subhash Gai. Le esibizioni di Madhuri Dixit - la stella di maggiore grandezza nel firmamento della Bollywood degli anni Novanta, esperta in ogni tipo di danza classica e moderna, nonché ritenuta la quintessenza della bellezza indiana dal pittore Husain - furono giudicati troppo provocanti. Gli stessi benpensanti con una interpellanza parlamentare proposero di censurare una delle canzoni, Choli ke peeche (“Cosa c’è sotto il corsetto”), che in verità, come tenne a precisare seraficamente il regista, era l’adattamento di un vecchio canto delle campagne del Rajasthan. Ma i casi più eclatanti di censura riguardano la politica. Nel 1975 fu impedito di partecipare al Festival di Mosca il film di Gulzar Andhi (La Tempesta), che aveva per protagonista una donna impegnata nella carriera politica, in quanto si temeva vi si potesse scorgere un riferimento alla figura di Indira Gandhi. Nel 1976 fu bruciata la pellicola della satira politica Kissa Kursi Ka (La Fiaba del Trono) di Amrit Nahata. Dopo molte traversie, riuscì miracolosamente ad evitare la mannaia della censura The Naxalites (1979) di K.A. Abbas, che invece era un film di denuncia politica estremamente violento.
    Vediamo adesso quali possono essere state le condizioni avverse che crearono un clima di sfiducia e pessimismo tra i cittadini indiani, sentimenti che, in riferimento a quanto ci riguarda, ossia il Cinema, furono il terreno ideale su cui attecchì e prosperò un tipo di spettacolo di pura evasione, e di infima qualità, ambientato per compensazione in una realtà rassicurante, simile, per certi versi, alle fiabe o ai sogni.
    Il periodo in esame è senza dubbio uno dei più complessi nella già travagliata storia dell’India. Nel 1962 scoppia la guerra contro la Cina (in cui l’India fu sconfitta), nel 1965 quella contro il Pakistan, nel 1967 divampa la rivolta di Naxalbari, con successiva sanguinosa guerriglia dei naxaliti dal 1970 al 1971, tra il 1970 ed il 1972 si verifica un altro conflitto con il Pakistan a causa della separazione del Bengala Orientale, scissione che renderà possibile la creazione della Repubblica del Bangladesh ma che farà riversare in India, e in particolare nel Bengala Occidentale, otto milioni di profughi e che causerà enormi disagi, tra cui una carestia. A ciò si aggiunga il trauma subito dalla popolazione per la scomparsa di due rassicuranti padri fondatori dell’Indipendenza: Nehru nel 1964 e nel 1966 il suo successore, Lal Bahadur Shastri. E ancora: si cominciano a sentire gli effetti negativi dell’urbanizzazione, iniziata all’indomani dell’Indipendenza, con la formazione di un sottoproletariato urbano costituito da innumerevoli famiglie provenienti dai 600.000 villaggi dell’India, emigrate nelle grandi città con la speranza di migliorare la loro vita. Inoltre, il Paese è afflitto dalla depressione agricola e industriale, dal mancato funzionamento delle riforme sociali ed economiche, da una crescente marea di scioperi, tutti repressi ferocemente, dalla rinascita dei conflitti interreligiosi e regionali (il così detto comunalismo) e da una dilagante e inarrestabile corruzione politica. Il malcontento popolare fa sorgere un movimento di opposizione al governo che unisce partiti di Sinistra e di Destra. E’ a questo punto che il Primo Ministro Indira Gandhi fa proclamare nel 1975 il famigerato “stato di emergenza nazionale” che durerà per due anni (su questo periodo furono realizzati da Anand Patwardhan due importanti documentari: Kranti ki karangen, Le Onde della Rivoluzione, del 1975, e Prisoners of Conscience, del 1978). Nel 1984 la Signora Gandhi, dopo aver fatto espugnare il Tempio d’Oro di Amritsar, roccaforte dei Sikh, sarà uccisa per ritorsione. Sette anni dopo la stessa sorte toccherà al figlio Rajiv, in quel momento Primo Ministro dell’India, per mano dei terroristi dell’LTTE, movimento legato ai guerriglieri dello Sri Lanka. Nello stesso anno un separatista del Punjab assassina Shiv Sharma, Direttore Generale della Doordashan, la televisione di Stato.
    Secondo gli analisti indiani, tra il 1962 e il 1975 si manifestarono cinque tendenze fondamentali nel cinema hindi: quella dell’intrattenimento, quella, preponderante, dell’intrattenimento omologato e kitsch, quella dei drammi sociali di genere melodrammatico, la new wave (di cui si dirà in un prossimo capitolo), il cinema middle of the road (una specie di “cinema di mezzo”, tra la new wave e il mainstream) e quello di vendetta. Quest’ultima tendenza, insieme alla nascita del new indian cinema,è forse l’unica novità, mentre per quanto riguarda gli altri generi non sembrano esserci state variazioni significative rispetto a ciò che era già stato codificato negli anni Quaranta- Cinquanta. Invece, quel che cambia veramente in quel periodo è la qualità, che si abbassa notevolmente. Intanto, il gusto del pubblico indiano rimane orientato verso i prodotti che ha sempre gradito maggiormente: la commedia sentimentale e il melodramma incentrato sui problemi della famiglia, in cui si esaltano e si riaffermano i valori tradizionali della joint family, secondo il motto parivar ki izzat (onore della famiglia).
    Prima di addentrarci nel cuore del cinema commerciale, sono da segnalare alcuni film significativi e qualche meta importante raggiunta dalla cinematografia indiana. Nel 1964 Sunil Dutt debutta nella regia con l’inusuale Yaadein (Soltanto il Solitario), un film alquanto cerebrale, apprezzato dalla critica (nel 1967 vinse il Gran Premio al Festival del Cinema Asiatico di Francoforte) ma che in sostanza non è altro che un monologo teatrale. Anil (Sunil Dutt), un affermato uomo d’affari, dopo aver raccontato per due ore tutta la sua vita, si impicca con la sari della moglie Priya (Nargis), che si vede soltanto nella scena finale e in silhouette. Nel 1965 appare il primo film di guerra dell’India indipendente, che ha per tema la guerra tra Cina e India: Haqeeqat (La Realtà), girato in Ladakh da Chetan Anand. Seguì nel 1967 Upkaar (La Buona Azione) di Manoj Kumar, altro melodramma di propaganda nazionalista sul conflitto indo-pakistano del 1965. Sempre di tono patriottico Saat Hindustani (Sette Indiani, 1969) di K.A. Abbas, derivato da The Dirty Dozen (Quella sporca dozzina, 1967) di Robert Aldrich, film che si riferisce alla liberazione di Goa, avvenuta nel 1961, e che, come già accennato, vede l’esordio di Amitabh Bachchan. Sette uomini che rappresentano tutte le componenti religiose ed etniche dell’India (Bachchan rappresenta il musulmano) si uniscono per liberare Goa dalla dominazione portoghese. Nel 1966 Basu Bhattacharya (1934-1997), già assistente di Bimal Roy, di cui sposò la figlia Rinki, ed esponente anche del new indian cinema, realizzò Teesri Kasam (Il Terzo Giuramento), uno dei più bei melodrammi musicali del mainstream, con 60 splendide canzoni, Raj Kapoor nella migliore delle sue interpretazioni, e Waheeda Rehman. Nel 1971 uno dei maggiori successi fu Pakeezah (Cuore Puro) di Kamal Amrohi (1918-1993), una fiaba molto romantica ambientata nella Lucknow della fine dell’Ottocento. In questo film si assiste alla migliore interpretazione della ex moglie del regista, Meena Kumari (1933-1972), in un doppio ruolo, una madre e una figlia, entrambe tawaif (danzatrice e cortigiana), che cercano di abbandonare quella carriera poco onorevole. Morta la madre, la figlia vi riuscirà e, riconosciuta di nobili origini, sposerà l’uomo che ama.
    Intanto, nonostante i gravi problemi interni, l’industria cinematografica è estremamente vitale: nel 1971 con i suoi 431 film l’India diventa il più grande produttore del mondo. Una cifra che nel 1989 sarà più che raddoppiata, le pellicole prodotte, di cui l’85% a colori, in quell’anno saranno ben 945. Nel 1972, con Do gaz zamin ke neeche (Sotto due metri di terra), diretto da Shyam e Tulsi Ramsay, si diffonde il “cinema del terrore”, prodotto fino ad oggi (con pochi mezzi ma con una dignità artigianale che ricorda quella di Roger Corman) quasi esclusivamente dai componenti della film family Ramsay. L’horror è un genere poco diffuso in India, ma sembra sia molto gradito agli spettatori delle piccole città e delle zone rurali, soprattutto nel Sud del Paese.

    E’ ancora in quegli anni che si verifica un caso cinematografico molto singolare, costituito dal film Jai Santoshi Ma (In Lode di Santoshi Ma, 1975) di Vijai Sharma, un film che per un breve periodo riportò alla ribalta il genere mitologico-devozionale. In effetti, si tratta di un evento unico, in quanto questo film, oltre ad essere stato il maggiore successo dell’anno - insieme a Bobby di Raj Kapoor, Deewar (Il Muro) di Yash Chopra e Sholay (Fiamme) di Ramesh Sippy - permise a una poco conosciuta “dea madre” con un tempio ad Ujjain, specializzata nell’esaudire i desideri femminili, di essere accolta, da quel momento, nel pantheon delle maggiori divinità dell’induismo. Le proiezioni erano equivalenti a delle funzioni religiose e gli spettatori, accorsi a milioni, si comportavano come dei pellegrini. Si dice che la dea avesse compiuto dei miracoli, come ad esempio in una sala cinematografica di Barodan, dove gli impianti dell’aria condizionata guasti si rimisero in funzione appena Santoshi Ma apparve sullo schermo. Oggi questa dea è venerata da milioni di fedeli, prevalentemente donne del Maharashtra. Anche Bobby di Raj Kapoor - dedito alla fine della sua gloriosa carriera al solo genere commerciale, altri suoi successi, in quel periodo, furono Satyam shivam sundaram (Il vero, il buono e il bello, 1978) e Ram teri Ganga maili (Ram la tua Ganga è diventata sporca, 1985) - è un film da ricordare poiché, sebbene fosse stato preceduto dal film di Dev Anand sui “figli dei fiori”, interpretato da Zeenat Aman, Hare Rama Hare Krishna (1970), è uno dei primi prodotti cinematografici indiani ad essere destinato ad un pubblico giovanile. Bobby, una commedia sentimentale basata sul più diffuso degli stereotipi di Bollywood - due giovani innamorati, appartenenti a classi sociali diverse, sono ostacolati nel matrimonio dalle rispettive famiglie - è ambientata a Goa, in piena atmosfera hippy, ed ha come protagonisti il figlio del regista, Rishi Kapoor, e nel ruolo di Bobby Braganza l’esordiente sedicenne Dimple Kapadia, che diventerà una delle attrici più richieste dal cinema hindi. Nel 1980 viene costituita la NFDC (National Film Development Corporation), che unì la FFC e l’IMPEC (Indian Motion Pictures Export Corporation). Nel 1983 viene realizzato in Florida il giallo America America, il primo film indiano ad essere stato girato quasi completamente all’estero, diretto da I.V. Sasi ed interpretato da Mammootty, la più grande star del Kerala.


    La cinematografia professionale e il “fenomeno” Amitabh Bachchan - PARTE SECONDA



    Anche in un periodo in cui prevalevano film grossolani (che però ottenevano enormi profitti al box-office), il buon cinema trovava ancora il suo spazio, grazie a registi quasi sempre formatisi alla scuola di qualcuno dei “quattro grandi” dell’Età dell’Oro. Questi cineasti, che avevano ancora per obiettivo l’“intrattenimento significativo”, non trascuravano né il risultato economico né la qualità.
    La Navketan Studio, una delle più qualificate Case di Produzione di Bombay, fondata nel 1949, appartiene a questa categoria. I soci della Navketan, legata ideologicamente all’IPTA, erano i componenti di una delle film family più note dell’India, comprendente i fratelli Chetan, di cui si è già parlato, Vyjiay (1935-2004), detto Goldie, e Dev Anand. Quest’ultimo, che fu legato da grande amicizia con Guru Dutt ed è tuttora operante nel mondo del cinema, oltre che produttore e regista, anche attore di grande successo. Di Vyjiay Anand è da ricordare Kala Bazaar (Mercato nero, 1960), Jewel Thief (1967), Johnny Mera Naam (Il mio nome è Johnny, 1970) e soprattutto Guide (1965), adattamento cinematografico dell’omonima novella del 1958 di uno dei più grandi scrittori moderni dell’India, Rasupuram Krishnaswami Narayan. Questo film può considerarsi una delle ultime opere cinematografiche ancora influenzate dalla cultura del periodo immediatamente successivo all’Indipendenza, anche se fu accusato di propugnare una ideologia conservatrice. Rosie (Waheeda Rehman) è costretta dalla madre, una danzatrice e cortigiana, a sposare Marco, un archeologo dispotico. Durante una visita a Udaipur la donna abbandona il marito per seguire la guida turistica Raju (Dev Anand), il quale diventerà il suo impresario. Rosie, infatti, ha sempre sognato di diventare una grande danzatrice. Dopo essere stato mandato in prigione dal marito di Rosie per aver falsificato su un assegno la firma dell’ormai celebre ballerina, Raju, diventato un vagabondo, si ritrova in un villaggio dove viene scambiato per un sadhu (santuomo). L’ex guida si immedesima nel suo nuovo ruolo e fa di tutto per il bene della comunità che lo ha accolto nel suo tempio, fino al sacrificio estremo. Dopo aver digiunato per dodici giorni, un mahavrata (grande voto) per invocare la pioggia necessaria per salvare le coltivazioni inaridite dalla siccità, Raju muore mentre dal cielo si riversa sui campi l’acqua miracolosa. Nonostante le critiche ostili e il giudizio negativo dello stesso Narayan, Guide, che ebbe anche una versione inglese ridotta e rimaneggiata, è un film notevole ed ebbe un successo enorme. Da segnalare l’intelligente e spettacolare uso della fotografia, la bravura degli attori (si assiste alla migliore interpretazione di Dev Anand), i testi di Shailendra (1923-1966) e le splendide musiche di Sachin Dev Burman (1906-1975). Come ultima nota, in Guide si può assistere a delle song picturizations che raggiungono l’apice della musica e della danza.
    Altro regista da segnalare è Hrishikesh Mukherjee, nato a Calcutta nel 1922 e attivo fino al 1998. Laureato in Scienze, dopo aver insegnato e aver lavorato all’AIR (All India Radio), dal 1945 si forma professionalmente come assistente di laboratorio e montatore presso i prestigiosi New Theatres. Trasferitosi a Bombay nel 1950, diventa aiuto regista di Bimal Roy, che lo influenzerà stilisticamente nella sua successiva carriera di regista, nonché sceneggiatore e montatore dei film di quello stesso Maestro. Alla sua prima opera, Musafir (Il viaggiatore, 1957), un film in tre episodi (con sceneggiatura di Rithwik Ghatak, come già detto precedentemente) sulla nascita, la morte e la famiglia, che hanno in comune la casa in cui si svolgono le storie, segue l’anno successivo il grande successo di Anari, interpretato da Raj Kapoor e Nutan. Nello stesso tempo Mukherjee continua nella sua attività di montatore, inventando eccellenti soluzioni tecniche per “salvare” le riprese mal riuscite. Per buona parte degli anni Sessanta Mukherjee si occupa di melodrammi sociali e psicologici, indagando l’universo femminile in Anuradha (1960), ispirato a Madame Bovary, Anupma (1966) e Ashirwad (La Benedizione, 1968). Negli anni Settanta, oltre ai cosiddetti “cancer film”, in cui i protagonisti sono afflitti da malattie inguaribili, quali Anand (1970), interpretato da Amitabh Bachchan e Rajesh Khanna, e Mili (1975), e al melodramma sociale Namak Haram (Il Traditore,1973), ispirato al Becket (1964) di Peter Glenville, con la stessa coppia Bachchan-Khanna e Rekha, Mukherjee si occupa con successo della commedia brillante con Guddi (1971), Chupke chupke (Senza far rumore, 1975) e Golmaal (Confusione, 1979). Da notare che Mukherjee è il regista che è riuscito maggiormente a mettere in luce le capacità drammatiche di Bachchan, particolarmente in Abhimaan (1973), Alaap (1977) e Bermisaal (1982), in cui si assiste a una delle migliori interpretazioni di questo attore.
    Shakti Samanta, nato nel 1925, inizia la carriera cinematografica come aiuto regista di Raj Kapoor e sceneggiatore di Phani Majumdar (1911-1994), un ottimo regista che a sua volta era stato assistente del grande Pramathesh Chandra Barua. I primi film di Samanta dalla metà degli anni ’50 agli inizi dei ’60 sono dei thriller e dei gialli d’ambientazione occidentalizzata. Fra questi il più noto è China Town (1962), con Shammi Kapoor e la franco birmana Helen, detta la golden girl del Cinema musicale hindi. Con Kashmir ki Kali (1964), interpretato da Shammi Kapoor e Sharmila Tagore, Samanta passa alle storie d’amore. Di questo regista sono da menzionare anche il melodramma musicale Aradhana (Adorazione, 1970) con Sharmila Tagore e Rajesh Khanna, destinato a diventare grazie a questa sua interpretazione il più acclamato attore “romantico” di quegli anni, e Amar Prem (Amore immortale, 1971), altro film di successo che ha per protagonisti la stessa coppia di attori. Dalla metà degli anni ’90 Samanta dirada la sua attività di regista a favore di quella di produttore dei film del figlio Ashim.
    Infine alcuni accenni a Gulzar,“Giardino”, pseudonimo di Sampooran Singh, nato nel 1936 a Dina, nell’attuale Pakistan. Gulzar esordisce come poeta legato ideologicamente al PWA (Progressive Writers Association, fondata nel 1935) e, come Mukherjee, fa il suo ingresso nel mondo del Cinema lavorando per Bimal Roy, dapprima per i testi delle canzoni di Bandini (La detenuta) e in seguito come assistente. Apprezzato scrittore e poeta in urdu, sceneggiatore di oltre 60 film, autore per altri colleghi di un gran numero di testi di canzoni di molti film di successo, ha pubblicato numerosi libri di poesie e di racconti per bambini. Il suo primo film, Mere Apne (I Miei, 1971), è un remake di Apanjan (1968) di Tapan Sinha. Pochi anni dopo segue il già citato Andhi (La Tempesta, 1975), tratto dal romanzo Kali andhi (La tempesta nera) di Kamleshvara. Il Cinema di Gulzar, come affermato dallo stesso regista, è uno studio sui rapporti tra gli esseri umani. Questa vena intimista è particolarmente evidente in opere quali Mausam (Stagioni, 1975), Ijazat (Il Permesso, 1987) e Lekin…(Ma…;1990) e può assumere toni eccessivamente melodrammatici come in Koshish (Provare, 1971), una storia su una coppia di sordomuti, aiutata da un cieco, con un figlio normale che alla morte della madre si rifiuta di sposare una ragazza sordomuta. Questo regista, forse perché è nello stesso tempo un letterato, ha anche un’ottica “bengalese” riguardo al Cinema, infatti Khushboo (1975) è basato su una novella di Sarat Chandra Chattopadhyay e Kitab (1977) e Namkeen (1982) sono degli adattamenti cinematografici di due racconti di Samaresh Basu. Nello stesso tempo, Gulzar, che ha realizzato anche numerosi documentari, è autore di riuscite commedie brillanti e sentimentali, come Angur (L’uva, 1981), film ispirato alla Commedia degli errori di Shakespeare, e Libaas (L’Abbigliamento adatto, 1991), che ha per tema i complicati rapporti sentimentali tra gli artisti di Bombay. Incontreremo nuovamente questo artista, in quanto è uno degli artefici della riqualificazione della Bollywood del XXI° secolo.
    L’attore più famoso dell’India, la cui presenza ha dominato per oltre un ventennio il cinema mainstream, è senza dubbio Amitabh Bachchan. Questa mega star è figlio del grande poeta hindi Harivashan Rai Bachchan ed è nato ad Allahabad nel 1942. Dopo aver ricevuto una raffinata educazione nelle migliori scuole dell’India, dove diventa amico di Rajiv Gandhi, si laurea a Delhi. Inizia la sua carriera in una casa di produzione di Calcutta ma incontra grandi ostacoli come attore: non è fotogenico ed è troppo alto, da cui il soprannome Big B con cui è noto ai suoi fan. Abbas però lo nota e con Saat Hindustani gli offre l’opportunità che cercava. Avendo una dizione perfetta e una splendida voce - Bachchan, inoltre, canta benissimo ed è uno dei pochi attori indiani che in alcuni film non ha utilizzato il play back singer - Mrinal Sen lo assume come sutradhar (narratore) in Bhuvan Shome e lo stesso farà Satyajit Ray per Shatranj ke kilari. Dopo Abbas, un altro bravo regista si accorge di lui, Mukherjee, che, come abbiamo visto, lo scrittura per Anand e per numerosi altri film. La notorietà giunge all’improvviso con Zanjeer (La Catena, 1973) di Prakash Mehra e si rafforzerà con Deewar (Il Muro, 1975) di Yash Chopra e soprattutto con Sholay (Fiamme, 1975) di Ramesh Sippy. Da quel momento il successo è inarrestabile. Bachchan interpreterà in decine di film l’angry young man, l’idolo del sottoproletariato urbano, perfetto interprete dell’insoddisfazione di quegli anni. Un vendicatore che si fa giustizia con le proprie mani, capace di dar voce a milioni di giovani delusi dalle istituzioni e che si identificano con questo eroe solitario. L’angry young man fa scuola, si realizzano centinaia di copie in tutte le cinematografie regionali (anche con interpreti femminili) e fra le imitazioni più riuscite sono da segnalare quelle interpretate da Mammoty. Ma la qualità della stragrande maggioranza di questi prodotti, che ancor più dei loro modelli si rifanno ai contemporanei film di Charles Bronson e di Clint Easwwood, nonché ai film di kung fu di Hong Kong, è nettamente inferiore rispetto agli originali e la loro violenza è a dir poco eccessiva.


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    Comunque, sarebbe un errore sottovalutare le capacità recitative di Bachchan e relegarlo al solo personaggio del vendicatore che lo ha reso famoso, infatti, tra gli oltre centoventi film da lui interpretati - quelli che gli hanno dato la maggiore notorietà furono scritti dal duo Salim Khan-Jadev Akhtar – molti, come abbiamo visto, sono di genere drammatico. Un’altra qualità che non ci si aspetterebbe da un “mostro” mediatico come Bachchan è la sua grande modestia e professionalità. Anti divo per eccellenza, ha sempre accettato accanto a se attori molto popolari, del calibro di Rajesh Khanna, Dharmendra o Shashi Kapoor, con cui ha lavorato in un gran numero di film. All’apice del suo trionfo, Bachchan vive una breve parentesi politica, dal 1984 al 1985. Dal 1992 al 1997 non recita in alcun film e si occupa della Amitabh Bachchan Corporation Limited. I risultati del suo rientro nel mondo cinematografico sono deludenti, ma Bachchan torna sulla cresta dell’onda grazie alla televisione, conducendo il popolarissimo show Kaun Banega Crorepati. Ritornato nuovamente al cinema, oggi Big B interpreta con successo ruoli di vario genere, prevalentemente drammatici.
    Occupiamoci adesso di quei registi, operanti nel circuito commerciale, che hanno diretto molti dei film interpretati da Bachchan. Essi con il loro lavoro non pretendevano né pretendono di fare Arte, ma possono certamente essere considerati degli ottimi professionisti.
    Prakash Mehra, nato a Bijnaur (Uttar Pradesh) nel 1939, lavora per alcuni anni come aiuto regista e compositore dei testi per i filmi geet. Il suo esordio nella regia, Hasina maan jayegi (La bella finirà per convincersi, 1968), ottiene un grande consenso di pubblico. Successivamente, Mehra dirige Bachchan in numerosi film, Zanjeer (La catena, 1973), Hera Pheri (1976), Muqaddar ka Sikandar (Il Destino di Alessandro, 1978), Lawaris (Senza famiglia, 1981), Namak Halal (Leale, 1982) e Sharabi (L’ubriacone, 1984). In Zanjeer, Bachchan è Vijiay, un ispettore di polizia che lotta contro ogni crimine per vendicare la morte del padre e della madre, assassinati quando era bambino da un killer misterioso con al polso una catenina con un ciondolo che raffigura un cavallo bianco. Aiutato dal leale giocatore d’azzardo e baro Sher Khan (Pran, uno dei migliori villain del Cinema hindi) e seguito con trepidazione dall’innamorata Mala (Jaya Bhaduri, nella realtà moglie di Bachchan, un’ottima attrice drammatica che esordì con Satyajit Ray in un piccolo ruolo in Mahanagar e che si affermò in Guddi), Vijiay riesce finalmente a scoprire l’assassino dei suoi genitori e a farsi giustizia con le proprie mani. In Muqaddar ka Sikandar, un melodramma che descrive molto bene la realtà di Bombay di quegli anni, un orfano viene allevato da una donna (Nirupa Roy) che gli da il nome di Sikandar. Diventato cameriere, si innamora della sua padrona Kamna, ma il padre della ragazza lo licenzia accusandolo di furto. Poi Sikandar diventa amico di un avvocato, Vikas, il quale ama la stessa donna. Sikandar per favorire l’amico decide di farsi da parte. Infine questo romantico e sfortunato individualista sarà ucciso da Bilawal, un malavitoso amante della prostituta Zohra (Rekha), l’unica donna che abbia mai amato Sikandar, morta suicida.
    Yash Chopra, nato nel 1932 a Jalandhar nel Punjab e fratello minore di Baldev Raj (famoso per i suoi film di contenuto sociale ma anche per aver diretto, tra il 1988 e il 1990, il kolossal televisivo sul Mahabharata) si forma professionalmente alle dipendenze del celebre fratello. Autore versatile, le sue opere spaziano dal thriller al dramma familiare, fino alla commedia romantica. Ottiene la notorietà con il suo secondo film, Dharmaputra (Il Figlio della Legge eterna, 1961), sul tema ricorrente di un orfano (in questo caso musulmano), allevato dopo la Partition da una coppia induista, che da adulto diviene un fondamentalista hindu, per poi scoprire che perseguita i suoi correligionari. Altri suoi film di grande successo sono Waqt (Il Tempo, 1965), sulla solita famiglia separata che si riunisce, e Kabhi Kabhie (A volte, 1976).
    Il suo Deewar (Il Muro,1975), con Bachchan e Shashi Kapoor, è considerato da alcuni critici la sintesi di due grandi successi del cinema indiano: Mother India (1957) di Mehboob Khan e Ganga Jumna (1961) di Nitin Bose. Si dice anche che Deewar sia basato su una storia realmente accaduta. Ad ogni modo, si tratta della consueta storia di due fratelli, abbandonati dal padre, di cui uno, Ravi (Shashi Kapoor), fa il poliziotto, mentre l’altro, Vijiay (Bachchan), è un fuorilegge per rivalsa contro le ingiustizie del mondo. Naturalmente, i due sono accomunati da un amore viscerale per la propria madre Alla fine il poliziotto ucciderà il fratello. Alcuni critici hanno voluto vedere nel personaggio di Vijiay un riferimento a Birju, il figlio ribelle di Mother India, e a Ganga, il fratello fuorilegge di Ganga Jumna. Altro modello, più sofisticato ed erudito, sarebbe l’ombroso guerriero Karna, uno dei personaggi del Mahabharata, figlio illegittimo della regina Kunti, che viene ucciso in battaglia dal fratello Arjuna. Trishul (Il Tridente, 1978) è considerato il seguito de Il Muro. In questo caso Bachchan tenta di rovinare il padre industriale, reo di aver abbandonato la moglie. L’anno successivo è la volta di Kala Patthar (La Pietra Nera), che vede ancora come co protagonista Shashi Kapoor, in cui Bachchan, nei panni di un ex ufficiale di marina che ha abbandonato la sua nave mentre affondava (una sorta di Lord Jim), salva dalla catastrofe la miniera in cui lavora come minatore. Infine, un film che ha per protagonista Bachchan ma non ha per tema la vendetta, Silsila (La Storia, 1981), con Shashi Kapoor ancora co protagonista, Jaya Bhaduri e Rekha. La Storia è un tipico racconto su un altro tema frequente nella cinematografia hindi, quello dell’amicizia virile (dosti). Un ufficiale dell’aeronautica muore in un incidente, lasciando la fidanzata incinta. Il suo miglior amico (Bachchan) la sposerà, lasciando a sua volta la donna che ama.
    Manmohan Desai (1936-1994), altro autore legato al nome di Bachchan, era un regista che si rifaceva a modelli hollywoodiani, di cui sono da segnalare il film di spionaggio Kismet (Destino, 1968) e Dharam Veer (1977), film di genere avventuroso, con Dharmendra, Jeetendra e Zeenat Aman, che ricorda gli analoghi prodotti degli anni ’40. Per quanto riguarda Big B, è uno degli interpreti del celebre Amar Akbar Anthony (1977), un dramma familiare con molte bizzarrie e con appello alla tolleranza religiosa, su tre fratelli separati dal destino e allevati da due famiglie di diverse fedi religiose (induista e musulmana) e da un prete cattolico. Amar (Vinod Khanna), Akbar (Rishi Kapoor) e Anthony Gonsalves (Bachchan), allevato da un sacerdote cattolico, dopo inenarrabili traversie e aver lottato contro il cattivo di turno, si riuniscono. Grazie a interventi deus ex machina, i tre fratelli riescono anche a ritrovare la madre e il padre che era stato costretto ad abbandonarli. Il tema dell’agnizione, il riconoscimento dei parenti separati, molto diffuso nel cinema hindi, pare sia originario della cinematografia tamil. Naseeb (Fato, 1981) è un film d’azione stravagante e spettacolare con un cast d’eccezione che comprende, oltre a Bachchan, molte star di varie generazioni: Dharmendra, Raj, Rishi e Shammi Kapoor, Rajesh Khanna, Lalita Pawar, Mala Sinha, Waheeda Rehman, Hema Malini e Sharmila Tagore. Coolie (Il facchino, 1983), riunisce quasi tutti i temi del cinema tradizionale: fratelli separati durante l’infanzia che si ritrovano, opposizione della famiglia al matrimonio tra l’eroe e l’eroina con lieto fine, esortazione all’armonia tra hindu e musulmani e, in questo caso, anche vendetta. Iqbal (Bachchan), un orfano musulmano adottato da una famiglia induista, è un vendicatore che lavora in una delle stazioni ferroviarie di Bombay. Diventato capo del Sindacato, riuscirà a sconfiggere l’immancabile criminale e a sposare la bella ereditiera che ama.
    Di Ramesh Sippy, nato nel 1947 e figlio del produttore Gopaldas Parmanand Sippy, un regista di alto livello tecnico, ricordiamo, per brevità, soltanto tre dei suoi tanti successi, Andaz (Stile, 1971), Sita aur Gita (1972) e Sagar (Oceano, 1985), con Dimple Kapadia, Rishi Kapoor e Kamal Haasan, il più noto attore del Cinema tamil degli anni ’80 e ’90. Si tratta in questo caso di una commedia sentimentale (con le immancabili scene di combattimento) ambientata a Goa. Vi si narra la storia di Mona, dibattuta dal dilemma se deve sposare un pescatore o un miliardario.
    Occupiamoci adesso di Sholay, il film di Sippy che ha consacrato la fama di Bachchan, un’opera di notevole spettacolarità il cui tema centrale è la ricerca della Giustizia, proiettato per cinque anni di seguito nelle sale di Bombay e che in quegli anni fu il più grande successo cinematografico al mondo. Lo stile di questo film si uniforma a quello già esistente nel cinema hindi di serie B del Curry Western, mutuato dagli Spaghetti Western italiani, e nel caso specifico da Sergio Leone. In Sholay - con sceneggiatura del duo Salim-Jadev e girato da Sippy con una tecnica cinematografica accurata, esaltata dalla fotografia di Dwarka Divecha e dalla suggestiva colonna sonora di Rahul Dev Burman (1939-1994), figlio di Sachin Dev, e dai testi di Anand Bakshi - ci sono tutti gli ingredienti giusti del cinema mainstream, con in più il tema della vendetta, mentre manca del tutto quello della lealtà alla famiglia. Il thakur (nobile) Baldev Singh (Sanjeev Kumar), un ex ufficiale di polizia che è anche uno zamindar, ingaggia come giustizieri i mercenari Veeru (Dharmendra) e Jaidev (Bachchan), due piccoli delinquenti legati da amicizia fraterna che gli erano sfuggiti, ma che nella stessa occasione gli avevano salvato la vita. L’intento dello zamindar è di difendere il suo villaggio dai soprusi di una banda di dacoit (fuorilegge) e di vendicarsi del loro capo, Gabbar Singh (Amjad Khan), che gli ha sterminato la famiglia ed amputato le braccia. A sua volta quel sadico criminale agisce per rancore, in quanto un tempo era stato arrestato dal poliziotto. Dopo gli immancabili intermezzi romantici dei due protagonisti con la bella del villaggio (Hema Malini) e con la vedova Radha (Jaya Bhaduri), nello scontro finale Jaidev morirà eroicamente per salvare il suo amico e il Bene trionferà. Un vero e proprio fallimento al botteghino fu invece Shakti (Il Potere, 1982), ritenuto da alcuni critici migliore di Sholay. Il film, interpretato, oltre che da Bachchan, da Dilip Kumar e Smita Patil, ricorda Awara di Raj Kapoor in quanto è incentrato sul conflitto drammatico tra un padre, un integerrimo ufficiale di polizia, e il figlio, appartenente al mondo della malavita.
    Per completare il ritratto di quello straordinario personaggio che è Bachchan, ricordiamo che durante le riprese di Coolie l’attore fu vittima di un incidente che stava per costargli la vita. Durante la sua degenza tutta l’India era in ansia e pregava per la sua guarigione. Per due mesi migliaia di ammiratori, che non volevano lasciarlo solo in un momento così grave, vissero accampati innanzi alla clinica in cui era ricoverato. Un’altra dimostrazione del suo straordinario ascendente la si potrebbe ricavare dall’inusuale cortometraggio-”esperimento” realizzato dalla giovane critica cinematografica Meenakshi Shedde, Looking for Amitabh (2003), composto da una serie di interviste ad alcuni non vedenti i quali riescono “a vedere” i film interpretati dal loro mito. Un documentario che dimostra quanto sia ricco di fantasia il mondo di chi non possiede la vista, ma anche il carisma e la bravura di Big B ed il potere evocativo del Cinema commerciale indiano. Ultime annotazioni: nel 1990 un sondaggio della BBC condotta on-line stabilì che Bachchan era l’attore più famoso al mondo, e dal 2001 la sua statua si trova a Londra al Museo delle Cere di Madame Tussaud.

    Per concludere, osserviamo come nel corso di quegli anni si siano messi in evidenza un gran numero di nuovi attori - ad esempio, per i ruoli maschili Ajay Devgan, Aamir Khan, Salman Khan, Saif Ali Khan, Sunil Shetty, Anil Kapoor, Akshay Kumar, Bobby Deol, Govinda e Jeetendra, e per quelli femminili Sri Devi, Parveen Babi, Sonali Bendre, Manisha Koirala, Kajol, Kareena Kapoor e Karisma Kapoor. Un ultimo accenno ai generi: i successi del cinema commerciale hindi degli inizi degli anni novanta appartengono ancora alla commedia sentimentale di tipo musicale, con annesso conflitto inter-familiare, come i due celebri film di Indra Kumar Dil (Il Cuore, 1990), definito una disco-soap, con Aamir Khan e Madhuri Dixit, e Beta (Il Figlio, 1992), interpretato dalla stessa Dixit.


    Ancora due capitoli, e arriveremo al cinema indiano di questi anni! :festa: :festa:
     
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25 replies since 30/9/2007, 21:10   2781 views
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